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a cura di Giulio Artusi

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Parlare di Antonio Moresco non è solo un modo per rendere giustizia ad uno degli autori più interessanti del panorama narrativo contemporaneo, ma, imprevedibilmente, è anche importante per comprendere l'organizzazione, i motivi delle scelte, le tendenze, le aspirazioni, i disegni dell'editoria italiana.

Il suo interminabile purgatorio da scrittore sconosciuto, la pervicace convinzione che dovesse esistere - nel mondo della narrativa - uno spazio anche per i suoi scritti, testimoniano una fiducia nel mondo editoriale e nella sua insostituibile funzione culturale che è raro incontrare.

Abituato come sono ad autori che diventano improvvisamente "scrittori" grazie ad un attento calcolo imprenditoriale o a un premio vinto, glorificati da un unico testo e troppo spesso in serie difficoltà ad affrontarne un secondo, per i quali non esiste un lungo percorso carsico ed un passato da illuminare ma soltanto l'apparizione istantanea e un'altrettanto rapida eclisse, sono stato ben felice di incontrare questa volta un autore che ha cominciato ad essere scrittore molto prima di essere definito pubblicamente tale e che, senza un felice intreccio di circostanze, avrebbe continuato a scrivere per soddisfare una propria necessità interiore senza che ai lettori fosse dato sapere della sua esistenza.

Moresco non è un autore moderato, nella scrittura o negli interventi. Sia l'una che gli altri hanno dato luogo finora a polemiche, aspri rimbrotti, esibizioni di virtù vilipesa e di lesa maestà, atteggiamenti risentiti da salotto buono violato dal proverbiale parvenu dostoevskiano.

A provocare queste reazioni sono l'accento sincero e partecipato di Moresco e un modo di procedere e di schierarsi che non ha nulla a che vedere con i toni predominanti del dibattito lettererario, quindi del tutto privo di vis ironica e per nulla conciliante, "estremo" e ben definito.


Per chi non ama i modi ovattati e gli atteggiamenti depotenziati di quanti - e sono tanti, troppi - parlano di narrativa come si fa di un nonno riverito ma ormai definitivamente scivolato in una demente balbuzie, Moresco costituisce una vera benedizione, con il suo dire e scrivere che la letteratura non ha esaurito la sua spinta propulsiva, che il romanzo non è morto, anzi, che è venuto il tempo di smascherare i suoi troppo frettolosi becchini.

Dal momento che uno degli scopi dell'esistenza di LN è proprio quello di sostenere la funzione sociale, formativa e artistica della narrativa (affermazione impegnativa e fors'anche un pochino pomposa, ci perdonino i lettori) un incontro con Antonio Moresco è la logica conseguenza di percorsi ed intenzioni in consonanza.



Prima di procedere alla presentazione delle sue opere vorrei almeno accennare a un tema vitale per i lettori, ossia la funzione di "filtro" che l'industria editoriale è chiamata a svolgere.

Che questa funzione sia spesso fortemente miope o addirittura paradossalmente ostile al nuovo non è un problema di oggi, ad essere onesti, ma una costante dell'universo editoriale, più o meno dall'invenzione della stampa. Ma la scomparsa (professionale e in qualche caso puramente fisica) di figure essenziali, come quella dell'editore di cultura che sceglie in base ai suoi gusti e alla sua sensibilità, ha ancora una volta riaperto i termini della questione.

L'organizzazione del mondo editoriale italiano ha di recente assunto caratteristiche più "moderne" con il decentramento di numerose attività ad agenzie private che hanno via via assunto le funzioni che un tempo definivano l'attività dell'editore. Tra queste anche la funzione di ricerca e promozione di nuovi autori, delegata ormai in massima parte ad agenzie, o rinviata al lavoro dei premi editoriali per esordienti, a scuole private di scrittura creativa o, ancora, orientata da altri autori (cfr. LN 4).

L'esito di questo lavoro è che circa l'ottanta per cento degli autori pubblicati (cfr. L'autore in cerca di editore, Maria Grazia Cocchetti, editrice Bibliografica) era già in contatto con il mondo editoriale prima dell'uscita del proprio libro, un dato significativo anche se non in rapporto diretto ed evidente con la qualità della produzione.

Le possibilità per un autore di essere conosciuto al di fuori della stretta cerchia delle proprie conoscenze personali sono affidate al vaglio di un insieme di lettori professionisti inseriti in un establishment editoriale chiuso, non raramente legato agli ambienti accademici (per loro natura scarsamente dinamici) e comunque fin troppo attento agli equilibri e alle tendenze dominanti. Questo comporta, anche solo ad una riflessione superficiale, la resistenza alle innovazioni, l'insofferenza e la sistematica sottovalutazione di testi non allineati alle esperienze già note e sperimentate o ai successi - veri o presunti - di autori che, come nel caso dei cosiddetti "cannibali" sono stati semplicemente una risposta tarda e povera ad alcune proposte della letteratura d'oltreoceano.

In questo il mondo letterario italiano mostra da tempo un curioso provincialismo rovesciato, fatto di acritico entusiasmo per qualunque "novità" giunga dall'estero (in particolare dal mondo anglosassone), finendo per disegnare preventivamente i connotati dei possibili autori - e prima ancora lettori - adatti a raccontare il nostro tempo.

Il risultato? Un grottesco gioco di specchi, un accelerato e autocaricaturale esercizio di ossequio a una letteratura che si vuole "nuova" e "dirompente" e che finisce per essere solo un povero birignao di altre letterature e altri cinema. Basti pensare alla monomaniaca estetica letteraria ispirata a Quentin Tarantino o ai penosi tentativi di replicare l'Ellis di American Psycho o, ancora, ai patetici conati di salingerismo fuori tempo massimo. Qui bisogna ammettere che il mondo letterario italiano si è reso ridicolo oltre ogni limite ragionevole, affannandosi nell'inseguire modelli e proposte che nei luoghi di origine si ritenevano già abbondantemente sorpassati.

D'altro canto, non viene annoverata tra le istituzioni del mondo letterario italiano Fernanda Pivano, figura di onnipresente promoter di autori statunitensi, che, nel flusso incontenibile del suo entusiasmo, finiscono per assumere connotati simili, anche se tra loro diversissimi come Hemingway, Dick, Salinger, Vonnegut, De Lillo ed Ellis?

Ma ovviamente non è solo a questo genere di esterofilia che va attribuito il basso profilo della produzione nazionale. Non poco peso vi hanno i legami con il mondo accademico - un'inesauribile fabbrica di snobismi acrobatici e conformismi stagionali - i capricci e le smanie di ex-ribelli che hanno conservato della loro feroce resistenza al sistema unicamente un narcisismo ormai inguaribile, gli obblighi di direttori editoriali divenuti ostaggi di budget, bilanci e assemblee di azionisti.

In questo panorama quale ascolto poteva onestamente sperare di trovare un qualunque Moresco, scrittore perseguitato da scomode fissazioni e così poco elegante nel mettere in scena miserie e deformità che nulla hanno di giovane e trasgressivo?

A rigore di logica la risposta sarebbe: nessun ascolto. Ed effettivamente molto poco è mancato perché di Moresco nessuno sentisse parlare. Di questo difficile percorso, delle difficoltà insormontabili a farsi leggere e giungere alla pubblicazione viene riferito in Lettere a Nessuno, un testo straordinario al crocevia tra la pubblica confessione, il racconto biografico e l'amara invettiva contro le istituzioni letterarie.

Ma per farsi finalmente un'idea di Moresco autore conviene partire da un testo precedente, pubblicato nel 1993; parlo di Clandestinità, una raccolta di racconti che anticipano temi e luoghi delle opere successive.

Nel primo racconto, La camera blu, protagonista è un preadolescente perduto in una maestosa e sterminata casa patriarcale, che riferisce in prima persona del mondo che lo circonda, un mondo apparentemente comune e ordinario ma in realtà attraversato da curiose incoerenze, segnato da insondabili fratture, un luogo dove il tempo procede in modo non lineare ma capriccioso, anticipando e ritardando eventi, presentando effetti che precedono cause, determinando anse, cerchi, spirali.

Le visite alla Signorina, una donna anziana e cieca che il protagonista spia nell'intimità per cercare di afferrare il mistero della differenza sessuale, sono l'unica scansione lineare del racconto, anche se il mistero è destinato a rimanere tale per il giovane protagonista fino alla fine.

Ne La Buca, è un bambino ad accostarsi all'orrore indicibile di una latrina di campagna, luogo oscuro e abisso insondabile intorno al quale ruotano misteriosamente le vite degli abitanti della casa. Nell'ultimo racconto, Clandestinità, che dà il titolo alla raccolta, ad occupare interamente il campo della narrazione è lo smarrimento del sogno: piccoli appartamenti vuoti e intercambiabili, ossessive visioni urbane, invasori anonimi e frammenti di vite visti e rubati attraverso le stecche delle tapparelle.



I principali temi dell'autore sono già in gran parte presenti: una solitudine astratta e inguaribile; una realtà contaminata e insana, instabile, obliquamente attraversata dalla costante presenza del sogno e dell'incubo: ripetizione, ansia, vacuità di ogni sforzo; uno stile separato, asciutto, preciso fino all'ossessione, un iperrealismo che avvicina talmente ogni oggetto ed elemento della scena da sfocarlo e renderlo inafferrabile.



A Clandestinità fa seguito, nel 1995 La cipolla, opera maniacalmente focalizzata sulla sessualità e decisamente più aggressiva nel mettere in scena l'estetica del particolare sgradevole, dell'intimità fisicamente intollerabile.

Ancora una volta è la forzata prossimità, l'intrusione nelle vite altrui - dapprima non voluta ma infine irrinunciabile - a costituire il punto di partenza del testo.

Moresco è autore interamente urbano, nato e cresciuto nella medesima situazione di forzata promiscuità alla quale tutti noi - noi cittadini - siamo ormai talmente abituati da non cogliere nemmeno più quanto di terribile e meraviglioso vi sia nell'occasione di misurare la propria esistenza in rapporto a quella degli Altri. Gli Altri: una categoria esistenziale divenuta intollerabilmente essenziale, il metro instabile e falso con il quale ognuno è chiamato a misurarsi. E, accanto ad essi, gli oggetti e gli ambienti, elementi che hanno definito, divenendone insostituibili protesi, le esistenze urbane.

Lo stupore dei personaggi di Moresco nel penetrare nuovi luoghi chiusi, nel conoscere senza mai riuscire a ri-conoscere definitivamente gli oggetti più comuni, è una delle caratteristiche più affascinanti dei suoi testi.

Con tutto ciò debbo ammettere che La cipolla è tra i suoi scritti quello che ho amato meno. Lo recensii non troppo benevolmente in un numero della vecchia serie di LN, trovandolo esasperatamente contorto, racchiuso in se stesso fino all'afasia, anche se condotto con una concentrazione e un'ostinazione che da sole presentavano adeguatamente l'autore.



Ben diverso l'andamento di Lettere a nessuno, pubblicato nel 1997, un testo volutamente frammentario che è innanzitutto cronaca personale, sismogramma di passioni, incontri e delusioni dove compaiono, brucianti, le esperienze di militanza politica, e, altrettanto nette e faticose, le esperienze letterarie, i piaceri e le ansie di un rapporto con la scrittura vissuto come invasione, sconfitta, vittoria, lotta.

Vi sono due ottime ragioni per leggere Lettere a nessuno: una è la disillusa stanchezza e l'acre precisione con la quale viene raccontato l'Olimpo letterario nazionale visto dai suoi sotterranei:(di Olimpo al pianterreno parla, non casualmente, anche Tabucchi) visitato, inseguito, molestato nel corso di tentativi sempre più ossessionati e ossessionanti di arrivare alla pubblicazione, raffigurato in tutta la sua povera esclusività, nei suoi atroci, tragicomici vezzi, nei suoi arroganti personalismi: un universo soffocante, mistificato, irrimediabilmente malato. Moresco impiega il proprio talento per raccontare incontri rifiutati, commenti frettolosi, attese frustranti - esperienze comuni a molti autori "clandestini" - colloqui nei quali autore e lettore professionista sembrano parlare lingue completamente diverse.

Si tratta di testimonianza, sia chiaro, quindi segnata da una parzialità assoluta, non certo di sentenza. E Moresco non cerca di assumere il ruolo di PM del mondo letterario nazionale. A riunire impressioni e giudizi è chiamato il lettore, anche per svolgere ulteriori riflessioni, più generali, sull'organizzazione del medium editoriale, sulla sua necessaria contiguità con il mondo giornalistico, crocevia ben più significativo di poteri e convenienze.

La seconda ragione si trova nelle pagine centrali del libro: il racconto dell'esperienza politica nell'estrema sinistra durante il periodo finale della sua esistenza, negli anni che precedettero il terrorismo e sanzionarono la fine di quell'epoca. Un raccontare senza pentimenti né tardive esaltazioni, un narrare apparentemente piano e freddo che nella semplice successione di gesti e considerazioni illumina i motivi di quel fallimento, un fallimento talmente totale e catastrofico da cancellare qualsiasi ipotesi di nuova sinistra fino ai giorni nostri e probabilmente oltre.

Il frenetico tramonto di quella sinistra, che fu anche implosione di uno stile di lavoro politico insostenibile nella sua rigidità, non aveva mai finora trovato narratori, né un racconto degno di questo nome. Forse perché il lavoro politico "leninista", come si diceva all'epoca, ha lasciato - come del resto è stato per certi accesi spontaneismi, tanto fortemente voluti da apparire lainghianamente sospetti - una zona oscura e bruciata nel ricordo delle migliaia di persone coinvolte, così da non essere riferibile se non con mutismi, balbettii o irritanti reducismi e (quasi) mai in termini di vita vissuta, emozioni provate e gesti compiuti.



In Lettere a nessuno Moresco fa più volte riferimento al lavoro al quale si sta dedicando, ossia Gli esordi, apparso verso la fine del 1998.

Di questo libro, di gran lunga il più impegnativo e ambizioso, è già comparsa una recensione su LN (n. 9, primavera 1999) firmata dal mio amico e alter ego Piero Baroncini, alla quale rimando i lettori di questo speciale.

Di mio vorrei aggiungere soltanto poche note, esclusivamente derivate dal confronto con le altre opere pubblicate.

Gli esordi è un'opera diseguale e rovente, prodiga fino allo stordimento. Ripropone, fusi e riarrangiati, temi e modi delle opere precedenti ma con un'ampiezza di orizzonti che non aveva trovato spazio fino ad allora.

Contemporaneamente Moresco si fa più conscio del proprio stile peculiare, della propria "voce" che diviene nota caratteristica della sua opera, rendendo più difficile la vita al lettore, chiamato ad un incontro / scontro con un testo complesso e concluso, da accettare o rigettare.

Se per i racconti di Clandestinità era ancora possibile cercare parentele e affinità, La cipolla e, a maggior ragione, Gli esordi costituiscono davvero una novità assoluta nel panorama della letteratura italiana contemporanea.



Il vulcano, raccolta breve di riflessioni e note personali pubblicata nel 1999, costituisce un ideale seguito o, forse meglio, un testo parallelo a Lettere a nessuno.

Qui Moresco illustra le proprie radici letterarie, descrive e argomenta la propria intolleranza per Calvino e i tanti calvinismi della letteratura italiana, racconta del proprio rapporto irrisolto con Thomas Beckett («il manierista del nulla»), articola nella prima sezione del libro, Il paese della merda e del galateo, alcune linee essenziali della propria "poetica" (le virgolette sono dell'autore) prendendo spunto da un recente saggio di Carla De Benedetti, Pasolini contro Calvino: per una letteratura impura (cfr. LN 5).

Qui, con un caratterizzazione nettamente più negativa nei confronti del primo, Moresco rigetta sia «l'ottimismo combinatorio e virtuale» di Calvino che la «letteratura impura» di Pasolini: «...Calvino e Pasolini come Scilla e Cariddi della letteratura italiana di questo fine secolo e fine millennio, che riproducono in maniera visibilissima i due tipici, opposti e, a mio parere, speculari e intramontabili modi con cui la letteratura italiana si pone di fronte a se stessa: intellettualismo e vitalismo, per dirla banalmente [...] Anche l'approccio vitalistico, come quello intellettualistico, esibisce una mistificazione».

Ma in Moresco la polemica intellettuale non è esibizione di idee disincarnate e di arguzia dialettica, ma affermazione della letteratura come manifestazione irriducibile del reale, carne e sangue di chi scrive e legge.



La pubblicazione de Il Vulcano ha sollevato, com'era prevedibile, un certo numero di polemiche (anche se forse in misura inadeguata alla provocazione), polemiche in qualche caso dai toni inaspettatamente scomposti o irritati. Bollati Boringhieri ha di recente pubblicato uno "speciale" a distribuzione gratuita curato da Alfredo Salsano, interamente dedicato a Moresco - Chi ha paura di Antonio Moresco? - dove sono raccolti alcuni interventi critici per lo più incentrati sul suo ultimo testo. Curioso come, se si eccettua l'ottimo contributo di Carla Benedetti e gli interventi di Tiziano Scarpa e Daniela Danieli (che non hanno pretese critiche) i testi palesino uno strabismo selettivo che porta gli estensori a dilungarsi su aspetti stilistici di Moresco (participi e diminutivi), su tratti caratteriali o supposte velleità critiche senza riuscire ad allineare argomenti - se non elegantissime escursioni critico-narratologiche - all'altezza dell'urgenza, sicuramente poco garbata, esposta nelle Lettere o ne Il vulcano. Tanto che il titolo della raccolta, che di primo acchito verrebbe da giudicare troppo impegnativo o "postmoderno" (fino ad un sospetto di frivolezza), si rivela pienamente giustificato...



E con queste ultime polemiche siamo giunti in pratica ad oggi.

Resta da dire che, personalmente, non di rado mi trovo su posizioni differenti rispetto a Moresco. A parte il giudizio sull'opera di Calvino che mi lascia non poche perplessità, credo che la sua concezione della narrativa - almeno per quanto esposto nei testi finora pubblicati - rischi una polarizzazione troppo netta nei confronti della letteratura "alta", un'involontaria chiusura o una postura "distratta" verso le letterature "metaforiche", ossia le letterature di genere e fantastiche 1.

Questo atteggiamento, indipendentemente dagli esiti narrativi delle sue opere, spiega forse l'accanimento nel ricercare uno sbocco "alto" alla sua produzione.

In realtà, e gli esempi non mancano, la strada della contaminazione, di un fecondo rapporto costante tra narrativa di "ricerca" e narrativa popolare è una formidabile occasione di palingenesi per la letteratura, un percorso che ha già dato abbondanti frutti nel corso della seconda metà del Novecento.

Non in Italia, tuttavia, questo è certo, dove le Lettere non hanno mai abbandonato le stanze dell'Accademia, se non per furtivi incontri - di tipo mercenario - con forme di genere serializzate (il romanzo giovanile, per esempio, o il testo biografico).



A concludere questo spazio un'intervista con l'autore, che ringrazio ancora per la disponibilità e la rapidità delle risposte.

LN: L'ordine cronologico con il quale le tue opere sono state pubblicate (Clandestinità / la cipolla / Lettere a nessuno / gli esordi / il vulcano) suppongo non corrisponda a quello nel quale sono state scritte. Come in un compito delle elementari ti chiederei di metterle in ordine. Nell'ordine che preferisci, comunque.

A.M.: Il caso ha voluto che i miei libri siano stati finora pubblicati più o meno nell'ordine in cui sono stati scritti, anche se a volte con 10-15 anni di distanza: Clandestinità è stato infatti scritto nel 1979 e pubblicato nel 1993, La cipolla è stato scritto nel 1983 e pubblicato nel 1995, Lettere a nessuno, scritto dall '81 al '91, è stato pubblicato nel '97, Gli esordi, scritto dall'84 al '87 e ribattuto e rivisto più volte fino alla viglia dell'uscita, è stato pubblicato nel '98, Il vulcano, scritto nell'arco di alcuni anni, è uscito nel '99. Quanto a Storia d'amore e di specchi è solo una piccola favola scritta un po' di anni fa in un momento di malinconia. La santa, che uscirà nel settembre del 2000 da Bollati Boringhieri, è un dramma teatrale scritto solo un paio di anni fa. Come vedi, la forbice temporale si sta a poco a poco chiudendo, diminuisce sempre più per me il tempo che passa tra la stesura di un libro e la sua pubblicazione. Col mio prossimo romanzo (Canti del caos, che uscirà l'anno prossimo da Feltrinelli) si chiuderà del tutto. Infatti ne uscirà la sola prima parte, già scritta, mentre uscirà qualche anno dopo, in tempo reale, la seconda e ultima parte, che sto scrivendo.

LN: Lettere a nessuno e Il vulcano sono opere irregolari, contaminate. Non rispettano alcuna norma narrativa codificata, sono insieme confessione, riflessione, ricordo, sogno, appunto, cronaca, pamphlet e brano narrativo. Esprimono la tua personale visione del mondo letterario / editoriale italiano ma anche ricapitolano i motivi del tuo scrivere. Apparentemente non rimane nulla di te, fuori, se non - forse - una parte della tua vita strettamente privata...

A.M.: Non saprei come rispondere a questa domanda. È vero, io mi apro moltissimo, a volte, quando scrivo, eppure mi sembra di essere nello stesso tempo come uno scrigno, sigillato. Vado in giro, sulla curvatura della terra, di notte, e mi pare che nessuno sappia davvero niente di me, anche se le mie ferite sono pubblicamente aperte, sanguinano, e non le nascondo, né le lecco. Non so come dire... Adesso, per esempio, mentre rispondo a questa domanda, c'è un enorme ponteggio di fronte alla mia finestra spalancata per il caldo, per quasi tutta l'estensione di questo cortile interno, che arriva fino in cima, dove i muratori stanno rifacendo il tetto del grande caseggiato dove vivo, e io li sento parlare qua e là lungo le impalcature, sento il rumore delle assi spostate lungo i ponteggi, il suono di qualche trapano, il rimbombo dei passi sui tetti, mentre tolgono le tegole vecchie e scoprono sotto di esse delle voragini dentro cui i muratori che hanno fatto il tetto quasi un secolo fa ci hanno gettato di tutto: calcinacci, avanzi di cibo, immondizie, persino il fiasco rotto dal quale avranno bevuto a turno per brindare alla fine dei lavori, là in cima, le famiglie di topi che ci vivono, ci corrono e ci nidificano dentro... E forse altri muratori, fra altri cento anni, ci troveranno dentro scatolette di tonno, buste di plastica che contenevano fette di salame o di mortadella, persino un giornale di oggi, con le trionfali notizie della mappatura del genoma umano e del terzo segreto di Fatima. Ecco... anche se certe volte mi sbudello di fronte a me stesso e di fronte al lettore, mi pare nello stesso tempo che non si sappia di me più di quanto io so dei muratori che camminano in questo momento sulle pattumiere aeree dei tetti, o di quello che sapranno di loro gli altri muratori - o chi per loro - che fra un secolo torneranno a camminare sopra quei tetti.

LN: Detto del tuo rapporto viscerale con il Beckett narratore (Il vulcano), del tuo amore per Giacomo Leopardi e della tua avversione per Calvino e "i calviniani", quali sono gli autori italiani che senti più simili a te (ve ne sono)? Landolfi, per esempio, che i racconti di Clandestinità sembrano a volte riproporre, per via della medesima ossessiva precisione dei particolari, per una particolare sensibilità per ciò che è logoro, insano, infetto e disturbante...

A.M.: Sinceramente, anche se riconosco la sua bravura e il suo cosiddetto livello letterario, faccio fatica a leggere Landolfi. Questa commistione di voce alta letterariamente impostata e parodia mi stanca rapidamente. Ci sento dentro soprattutto il grande letterato che gioca un po' con se stesso e con la "letteratura". Insomma, non amo Landolfi, anche se capisco che ci sa fare. Sono altri gli scrittori che amo, nei secoli passati, nel Novecento. Tra gli italiani di questo secolo amo semmai libri come Con gli occhi chiusi, La coscienza di Zeno, La cognizione del dolore...

LN: Una delle caratteristiche di opere come Gli esordi e dei tuoi racconti è di essere ambientati in un "altrove" solo superficialmente affine al nostro, un inframondo nel quale sono in vigore leggi cronologiche, fisiche e morali sottilmente diverse da quelle ordinarie. Il tuo fantastico è un fantastico non strutturato in una forma "di genere" e che verrebbe da definire "onirico". Come Kafka sei un autore che non avverte la necessità di spiegare al lettore, che accetta di partecipare e credere al mondo da te progettato abbandonando qualsiasi pretesa di coerenza e verosimiglianza. A me questa tua caratteristica piace molto, ma non credi che sia chiedere davvero molto al lettore?

A.M.: Non saprei. Sarà davvero così? Oppure è lo stesso mondo in cui stiamo tutti vivendo, solo dietro quella impercettibile sfuocatura dovuta al tipo di messa a fuoco che permette di vedere nello stesso tempo l'immobilità e il movimento?

Io non amo il "fantastico" e neppure l'"onirico" (che mi sembra cosa diversa dal sogno). È per me la stessa identica cosa del cosiddetto "realistico", solo rovesciata di segno, speculare. Scambi A con B e B con A e il gioco è fatto. E' sempre la stessa zuppa. A me interessa quando ciò che sottendono queste due parole si unisce esplosivamente e ne viene fuori una terza cosa.

Se sia chiedere molto al lettore o il minimo indispensabile io non lo so. Ma "chiedere molto" a qualcuno è comunque un segno di rispetto e riguardo nei suoi confronti e del suo orizzonte d'attesa. Continuo a pensare -forse perché sragiono- che ci sia, che ci possa essere in giro della gente che non desidera essere presa per il culo e che si aspetta che qualcuno si aspetti molto da lei.

LN: Nei tuoi testi il sesso occupa una parte importante. Basti pensare a La cipolla, un romanzo breve dove il sesso occupa praticamente per intero il campo della narrazione. La sessualità dei tuoi personaggi è spesso immatura, sempre raggelante, contorta, carica di una fisicità minuziosa e frustrante. Insomma tu sei affascinato dalla "degradazione" insita nelle cose del corpo, e, insieme, non perdi occasione per riaffermarne le ragioni...

A.M.: Ci puoi giurare! E vedrai anzi cosa succederà nei "Canti del caos"!

LN: Ne Gli esordi come in Lettere a nessuno fai più volte cenno a un periodo intensissimo di attività politica nell'estrema sinistra, a occupazioni di case, cortei, scontri, riunioni di cellula, di direttivo. In Lettere a nessuno c'è una delle più belle descrizioni del mondo della vecchia "nuova sinistra", con i suoi affannosi rituali e e le sue ansie di purezza, che mi sia mai capitato di incontrare nel racconto di un autore italiano. Poi, come è stato per molti, quel periodo di esasperato impegno è finito.

Nella narrativa italiana contemporanea se ne trovano ben poche tracce: per quanto la militanza politica abbia coinvolto centinaia di migliaia di persone, né nelle narrazioni né nelle scelte narrative degli autori di quella fascia generazionale (40 - 50 anni) è possibile rinvenire, anche filtrato o trasfigurato, quel particolare momento che occupa, approssimativamente, la prima metà degli anni '70.

Stragi di stato, lotta armata, autonomia, femminismo. A parlarne adesso sembra di parlare di un sogno. Ma non voglio con questo riesumare il triste spettro dell'impegno. Semplicemente mi chiedo: è possibile che la risacca non abbia lasciato nulla, ma proprio nulla?

A.M.: Hai ragione. Anche a me capita, leggendo certe volte cose che riguardano quelle vicende, di provare una forte impressione di "finto". Sono passate solo le date: il 68, il 77... Come se fossero dei funghi. Ma se andiamo a scavare sotto... La storia sembra sempre come quei libri di funghi! Si parla solo delle kermesse, della schiuma. È passata solo la storia dei gruppi dirigenti intellettuali delle organizzazioni rivoluzionarie di allora, molti dei quali si sono poi riciclati in mille modi nei tempi nuovi... Come mai? Io non sono né un nostalgico di quegli anni né un pentito. C'erano mischiate assieme tante cose giuste e tante bestialità e inconsistenze, che poi sono venute fuori tranquillamente e sono diventate anzi funzionali ai nuovi "stili di vita" di questi anni. Io allora, per dieci anni, mi ero gettato anima e corpo in questa passione, come succede ai timidi che poi fanno cose che neppure i più spavaldi oserebbero fare. E quando ne sono uscito, dopo un periodo difficilissimo anche a livello psichico, mi sono messo a scrivere il racconto finale di "Clandestinità", con quella battaglia cruenta sopra lo scaldabagno... A volte mi capita di passare per caso con la macchina di fronte a certi muri di fabbriche, in altre città, e di vederci ancora sopra, scolorite dagli anni, le stesse identiche scritte di vernice che ci avevo tracciato sopra di notte, una trentina di anni fa e che avevo ormai dimenticato da tempo. Oppure di passare di fronte alla facciata di una stazioncina gremita di bancarelle e di pendolari e di ricordarmi all'improvviso che poco più di vent'anni fa, proprio nello stesso identico posto, mi era capitato di trovarmi in mezzo a un fuoco incrociato, mentre tutti scappavano da tutte le parti. Adesso la gente passa, ci sono le bancarelle dei gelati e quelle dei giubbotti di pelle usati. Si spostano freneticamente qua e là, come le colonne delle formiche che camminano indaffarate senza sapere niente di quanto è successo poco prima sullo stesso lembo di terra su cui si spostano, mentre la terra continua a girare a sua volta senza sapere niente nello spazio. Quasi tutte le rappresentazioni che vengono fornite di quegli anni, da una parte e dall'altra, sono finte. È sbalorditivo tutto questo, a una distanza così breve! Ma forse è successa la stessa cosa anche per altri periodi storici. E allora, mi domando, che idea abbiamo noi della storia passata, se solo pochi decenni (e nonostante tutta l'enfasi dispiegata sui mezzi di informazione di cui disponiamo ora!) sono sufficienti a operare simili deformazioni e cristallizzazioni?

LN: Come hai spiegato in Lettere a nessuno, tu hai fatto parecchia fatica a trovare un editore. Questo nonostante i tuoi sforzi e la fatica di inseguire personaggi che apparivano capaci e competenti (Goffredo Fofi e Maria Corti per citarne due che ritornano spesso nel tuo libro) e quindi in grado di apprezzare narrazioni poco amichevoli come la tua. Hai finito per trovare udienza presso un editore torinese, "eccentrico" rispetto al mondo dell'editoria nazionale, che ha le sua basi a Roma e Milano. Ripensandoci a distanza di tempo, pensi che il problema fossi tu, un autore troppo "difficile", o fossero loro? Ovvero che molti editori, critici ed "esperti", cristallizzati in un canone divenuto accademia, abbiano una paura davvero esagerata della novità e della diversità? (Naturalmente si tratta di una domanda tendenziosa e malevola: leggo narratori italiani da diversi anni e la sensazione che a prevalere siano sempre scelte prudenti fino all'ottusità è diventata col tempo molto più di un sensazione).

A.M.: Io ho sempre trovato di fronte a me un muro, per quindici anni. Eppure venivano pubblicate un sacco di cose! È molto probabile che non avrei mai pubblicato niente e che ancora adesso sarei del tutto inedito se non avessi trovato, in seguito a un invio postale, da sconosciuto, a 45 anni, questa fessura torinese della Bollati Boringhieri, prima con Giulio Bollati e poi con Alfredo Salsano, e che adesso si sta allargando poco per volta. C'è in giro questa idea generale che i giochi sono ormai fatti e ormai chiusi e che la "letteratura" non possa e non debba significare più niente. Sono tutti elettrizzati dalle nuove rappresentazioni e dai nuovi poteri, dal loro luccicare sulle superfici dell'acqua stagnante. "Le persone intelligenti si trovano ormai in altri campi, in questi anni!" si sente dire. Può darsi, ma prima bisognerebbe metterci d'accordo su cosa si intende per "intelligenza". E poi chi se ne frega! La letteratura è stata fatta spesso, in ogni epoca, dai poveri di spirito, dagli stolti. A cosa serve scrivere, se l'unica cosa che viene data in cambio è un po' di biada per l'animale addomesticato, un po' di onanismo mediatico, un ruolo più o meno onorato nei ranghi del funzionariato giornalistico o editoriale? Che non siano loro, invece, i luccicanti cadaveri ambulanti di questa epoca? A cosa serve scrivere se hanno ragione loro? Ma, se hanno ragione loro e se si sentono così sicuri di questo, perché tanto fastidio e avversione e paura quando viene fuori qualcuno con un atteggiamento diverso?

© LN - LibriNuovi / Antonio Moresco 2000

Antonio Moresco, opere pubblicate:

  • Clandestinità, Bollati Boringhieri, Torino 1993. - pp.163, L. 30.000
  • La cipolla, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
  • Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, Torino 1997 - pp. 278, L. 35.000
  • Gli esordi, Feltrinelli, Milano 1998 - pp. 535, L. 33.000
  • La visione (con Carla Benedetti), KKP, Milano 1999.
  • Il vulcano, Bollati Boringhieri, Torino 1999 - pp. 149, L. 18.000
  • Storia d'amore e di specchi, Portofranco, L'Aquila 2000 - pp. 72, L. 15.000
  • La santa, Bollati Boringhieri, Torino 2000 - pp. 131, L. 18.000

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1 a correggere parzialmente quest'errata impressione cito volentieri da una lettera personale di Antonio Moresco la frase: «... Ma sono d'accordo con te sulla carica di spiazzamento e svelamento di tanti libri e scrittori definiti, più o meno erroneamente, "fantastici" - che anch'io leggo e apprezzo - e di fantascienza»