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Sudamerica

Black out venezuelano

Eletto quattro anni fa con l'80 per cento dei consensi, Chavez ha dichiarato guerra all'oligarchia del petrolio. Sbagliando, però, i suoi calcoli.
Retroscena di un disastro annunciato.

di Maurizio Chierici

Chavez è un dittatore o difensore del popolo? Traballa, ma resta il presidente più votato dell'America continentale nei posti dove sono possibili elezioni aperte a tanti partiti, senza urne col doppio fondo. Quando Fujimori ha tentato il colpo di mano facendo scappare Toledo e si è presentato da solo alle elezioni del Perù, è riuscito nel miracolo: accumulare 730 mila preferenze in più degli elettori iscritti alle liste. Giochi di prestigio consueti nei regimi forti. Chavez no. Consultazione limpida con angeli custodi neutrali, occhi bene aperti. Quattro anni fa ha sfiorato l'80 per cento dei consensi. Stava per cominciare l'idillio tra il nemico dell'oligarchia e milioni dei senza niente. Purtroppo sembra finire così.

I piedi nel petrolio

Il Venezuela è largo tre volte l'Italia, appena 24 milioni di abitanti e piedi piantati nel petrolio: quinto produttore del mondo ma deve ancora aprire metà dei giacimenti scoperti e non sfruttati. Poteva essere un posto felice: non lo era. E dopo uno sciopero lungo due mesi, adesso è un paese alle corde.
Colpa del giustiziere o del dittatore? Nessuno è un angelo, ma Chavez è meno terribile di quanto lo rappresentano giornali e televisioni del Venezuela, megafoni isterici di potenti che non sopportano il presidente. Bisogna anche dire che il presidente ha perso la grande occasione di allargare alla maggioranza della popolazione esclusa dai privilegi le risorse controllate da oligarchie o dai cortigiani cresciuti nel loro compiacimento. Povertà imbarazzante delle baracche appese nelle colline che sfiorano i grattacieli. Criminalità endemica che impedisce a Caracas una vita abbastanza normale. 150 delitti ogni week-end. Si può essere uccisi per un paio di scarpe. È la disperazione costruita da 30 anni di democrazia corrotta: socialcristiani e socialdemocratici si sono impigriti nella pioggia dei petrodollari. Lasciando fare e mettendo la gente da parte. Non esiste una ferrovia. Un solo porto - Maracaibo - degno di questo nome. Terra fertilissima come ogni campagna fra tropico ed equatore con la sicurezza di due raccolti l'anno nell'altopiano steso per duemila chilometri sotto la cresta delle Ande. Eppure, quattro anni fa ed ancor oggi, il Venezuela compra il 67 per cento del cibo che mangia.

Mare nero clandestino

Poi, i misteri del petrolio. Per 30 anni una percentuale di greggio (oscilla tra il 20 e il 23 per cento) del quinto produttore del mondo, ha lasciato il paese senza passare dogana. Nessuno sa chi ha comprato il mare nero clandestino: corrisponde, più o meno, all'esportazione del Kuwait. Sconosciute le mani di chi ha incassato i soldi.
Attorno alla corruzione è cresciuta l'oligarchia del petrolio le cui ricadute hanno nutrito una borghesia (spesso italiana) pigra e distratta, compiaciuta e decisa a non mollare una virgola del privilegio. Le tasse non esistevano. E la bella vita correva nelle zone rosa di ogni città. Poi è arrivato Chavez.
L'aver messo in moto la macchina fiscale ha suscitato indignazione. La costruzione di ospedali pubblici degni di questo nome in posti dimenticati dove vive il 40 per cento della popolazione che non ha risorse per pagare le cliniche di Caracas, scatena la protesta della classe medica. Nessun dottore accetta di animare i nuovi ospedali. Nessuno vuol mettere piede fuori dalla clinica a pagamento. È stato il primo sciopero generale. Chavez avvisato.

Riforme impossibili

Poi la riforma delle dogane dagli occhi bendati e le inchieste su sindacati legati ai partiti che si alternavano al potere. In trent'anni la loro corruzione ha scatenato furibondi regolamenti di conti anche all'interno dei "difensori del popolo". Insomma, un pantano. Sarebbe lungo ricordare storie di presidenti e ministri del passato finiti in tribunale prima che Chavez raccogliesse i voti. Due socialdemocratici: Lusinchi e Carlos Andrei Peres. Qualche ministro non è più tornato dal paradiso fiscale dove ha chiesto rifugio. E il vecchio Caldera, democristiano per due volte signore del palazzo di Miraflores, si è trovato al centro di un intrigo mai chiarito. Dopo averlo battuto alle elezioni, Peres aveva aperto un'indagine su certi furti negli anni del suo regno. Come sfuggire alle inchieste dell'avversario politico? Pare che Caldera abbia preso una scorciatoia diventando il burattinaio del colpo di Stato '92, giovani ufficiali populisti in rivolta contro l'aumento del prezzo del pane. Era coinvolto anche Chavez, ma non figura di primo piano. Si è lasciato catturare, ed è stato rappresentato in tv e in tribunale come cervello della rivolta. Con furbizia non ha smentito le accuse, assumendo ogni responsabilità e guadagnando una pena stranamente leggera. Per un golpe insanguinato da 123 vittime ufficiali, la condanna è stata di pochi anni, cancellati in fretta appena Caldera - approfittando della crisi di Peres - è tornato presidente. Tra le sue prime decisioni, grazia a Chavez. Il quale torna in libertà ed entra in politica. Si dice che Arturo Uslar Pieri, uno storico la cui biografia e il profilo fisico ricordano Giovanni Spadolini, facesse parte delle ombre alle spalle dei golpisti. Quando gli ho chiesto: ma è vero? Ha allargato le braccia: «Sono vere tante cose». Anche Caldera ha preferito il silenzio alla domanda di un politico democristiano un po' sconvolto da cosa stava succedendo.

Il professore esule

Chavez presidente si è circondato di militari e intellettuali straordinari. Jorge Giordani, professore d'università da sempre in lotta con la corruzione, gli ha fatto da maestro. È diventato ministro del Piano, vale a dire responsabile della costruzione di un paese finalmente moderno. Giordani è figlio di un muratore romagnolo, esule volontario in Francia quando Mussolini ha ucciso Matteotti. Poi volontario nella guerra di Spagna. Scappa dopo la caduta di Madrid, e continua a scappare per tutta la vita: in Francia, ma sono arrivati i tedeschi. A Santo Domingo, ma non sopportava la dittatura di Trujillo. Ha messo radici e fortuna in Venezuela imponendo ai figli la cultura che non aveva avuto tempo di coltivare. Jorge si è laureato in matematica pura a Bologna e in filosofia a Yale. Il Venezuela che voleva disegnare prevedeva trasparenza, ma anche la giustizia sociale fino al '98 sconsiderata. Distribuzione di terre del demanio ufficialmente abbandonate, ai contadini ammassati per disperazione nelle baracche delle città. Ma quel milione di ettari era stato ingoiato da padroni non ufficiali: le solite famiglie che nel lassismo dei governi se le erano annesse. E vogliono mollare. Cominciano gli scontri col presidente "liberticida".

Presidente "a ore"

La strada era giusta, ma Chavez non si dimostra in grado di camminare. Ha cambiato 47 ministri in quattro anni. Gli intellettuali più fedeli se ne sono andati non sopportando un populismo spesso insensato, e quegli interminabili discorsi di ore: parole e promesse che sgretolavano le proiezioni concrete.
Ogni classe coinvolta nella rinuncia di enormi ma anche piccoli privilegi, ha reagito aggrappandosi alle forme inconsuete del governo Chavez per organizzare la protesta con metodi che l'America Latina (ma anche l'Italia) conosce bene: giornali e tv bombardano, fuga di capitali vertiginosa, blocco degli investimenti e un braccio di ferro senza pietà precipitato nello sciopero a oltranza.
Petrolio, grande preda. Tutti giocano col petrolio sapendo di essere il secondo fornitore degli Stati Uniti. Vogliono privatizzarlo per far rientrare una parte dei loro capitali in società con le solite multinazionali Usa. Chavez resiste, ma lo fa nel modo sbagliato. Gli imprenditori organizzano il colpo di Stato dell'aprile 2001. Il loro presidente viene eletto presidente della repubblica, felicità che dura meno di una notte. La gente non sopporta il ritorno dei soliti padroni e i militari riprendono il potere. Gioco ormai scoperto. Le televisioni dei soliti signori cominciano a indicare Chavez come "presidente a ore". E i sindacati gialli gettano la maschera.
Due mesi fa, se all'annuncio dello sciopero Chavez avesse accettato subito le elezioni, avrebbe rivinto con largo margine, anche se non proprio con i voti della prima volta. Militare dalla testa dura e dalla retorica irrespirabile, ne ha fatto «una questione di principio» favorendo il gioco di chi voleva travolgerlo a fuoco lento. Oggi il Venezuela ha benzina razionata: chilometri di auto davanti ai distributori. Pompaggio e raffinerie bloccate. Petroliere impantanate nei porti per lo sciopero degli equipaggi. Impossibile esportare: sta perdendo milioni di dollari ogni giorno. Mancando i treni, se il traffico su gomma non va, non c'è distribuzione di generi alimentari. E poi black out elettrici, quartieri al buio. Pensioni sociali annullate e strade in eterna agitazione: i capitani delle guerriglie urbane ricevono "rimborsi spese" dal comitato per la democrazia, che è la vecchia democrazia degli ultimi 30 anni. Aumenta la disoccupazione ma un po' di gente disposta a gridare ha trovato uno stipendio. Gli straccioni che si aggrappano a Chavez vedono la loro vita peggiorare ogni giorno. Banche aperte a metà. Bolivar che precipita rispetto al dollaro. Insomma, da paradiso degli emigranti italiani e di ogni altro posto, è diventato un posto in rovina. Ci vorranno anni per rimettere in moto un po' di felicità, ma l'oligarchia non molla sapendo che i disagi allargano la protesta.

Bomba a tempo

Ben consigliato, per il momento il Presidente non ha risposto con lo stato d'assedio: gli permetterebbe di affidare ai militari la ripartenza del petrolio, quindi il ritorno lentissimo a una vita normale. Ma stamperebbe sul suo nome l'anatema che l'oligarchia aspetta: vecchio colpo di Stato senza parlamento. Insomma, dittatura che nessun paese attorno potrebbe accettare.
Ecco il bivio e in più la coincidenza di date che inquietano. Se il 27 gennaio gli ispettori Onu hanno presentato il primo rapporto su Baghdad, rapporto che gli Stati Uniti sono decisi a considerare ultimo, prima della guerra, il petrolio venezuelano diventa più prezioso di quanto lo sia mai stato. Per Washington ma per ogni paese occidentale intimorito dalla crescita di prezzi che soffocherebbero l'economia. Mettere a fuoco i deserti del petrolio bloccando produzione e pipes lines senza avere le spalle coperte da pozzi vicini, sembra una follia. Aggrappandosi alla costituzione, Chavez assicura che si andrà a votare in agosto, metà mandato, come ordinano le carte fondamentali dello Stato. Ma l'impressione è che possa succedere qualcosa molto prima. Per le date che si incrociano, per guerre lontane e poi la gente sta ormai scoppiando. Difficile sopravvivere altri sei mesi nel caos.

Volontari per lo sviluppo - Marzo 2003
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