di Silvia Pochettino
da Elbasan
Un uomo schiaffeggia una donna in grembiule. Voce fuori campo: "Voi donne che siete maltrattate, non dovete tacere". Segue numero verde, e l'immagine di una donna in tailleur, che telefona. È lo spot che per un anno è passato ogni giorno alla televisione albanese Etv, emittente locale della regione di Elbasan, nel centro dell'Albania. Spot oggi interrotto, perché i finanziamenti sono finiti. Ma ha lasciato un segno, all'interno di un progetto sociale più ampio, finanziato dal dipartimento Affari Sociali italiano e realizzato dall'associazione Cefa di Bologna, che fa di Elbasan un'esperienza pilota per tutta l'Albania, con un consultorio per i problemi femminili, una casa-rifugio per donne maltrattate, un programma di sensibilizzazione e prevenzione al trafficking in città e nei villaggi circostanti. Perché il dramma del traffico di donne per il mercato del sesso italiano non si può separare dalla condizione generale della donna albanese.
"La prostituzione è solo la punta dell'iceberg" spiega l'avvocatessa Vjollca Meçaj, del Centro di advocatura delle donne, studio legale che segue gratuitamente i casi di donne maltrattate o trafficate. "Nel '90, caduto il regime di Enver Hoxha, l'80% della popolazione aveva la scuola superiore e anche nei villaggi il livello d'impiego delle donne era alto. Certo, il regime "usava" l'emancipazione femminile a fini politici, e non ha portato un vero cambio di mentalità. Così, con la sua caduta e la drammatica crisi economica che ne è seguita, la donna è ripiombata in una condizione di subordinazione totale". È stata lei la prima a perdere il lavoro (il tasso d'occupazione femminile è crollato dal 77,5% dell'89 al 59,5% del '99) e a smettere di studiare (solo il 28% delle ragazze in zona rurale sono iscritte alla scuola superiore), e sono riemerse tradizioni patriarcali prima sopite, con un tasso impressionante di violenza domestica. Secondo l'associazione femminile Refleksione, di cui il Centro di advocatura fa parte, il 63% delle donne intervistate ha subito maltrattamenti dal coniuge o dal fidanzato, ma pochissime hanno denunciato il fatto alle autorità competenti. Mancano leggi specifiche, nel codice penale albanese lo stupro del coniuge non è un crimine, e anche se le donne hanno "tecnicamente" il diritto di denunciare le violenze, "polizia, giudici e pubblica accusa tendono a considerarle un fatto privato, in cui le parti hanno pari responsabilità" si scalda l'avvocatessa.
"In genere le donne hanno scarsissima consapevolezza dei propri diritti all'interno della famiglia" ci chiarisce Idanna Milani, psicologa, volontaria italiana del Cefa a Elbasan, "e hanno una gran capacità di sopportare il degrado, il che fa di loro vittime facili, anche per il traffico". Elbasan, terza città in Albania per abitanti (260 mila circa), un'ora e mezza d'auto da Tirana, appare anni luce lontana dalla capitale. È domenica; le ragazze, tirate a festa, camminano per strada rigorosamente accompagnate da un parente. Alle nove di sera è il deserto: "Insomma - continua Idanna - qui è normale che un marito picchi la moglie, e la donna che divorzia è segnata a vita, perde la casa (la donna, in genere, dopo il matrimonio va a vivere con la famiglia del marito, ndr), non ha lavoro, non è in grado di mantenere i figli". E se riguardo il trafficking lo Stato albanese ha dimostrato una certa attenzione, sulla violenza domestica resta sordo. Se ne occupa solo il privato sociale; associazioni per la difesa delle donne, nate un po' in tutta l'Albania (solo a Tirana se ne contano 46) oppure ong straniere come il Cefa, che ha creato una "casa-rifugio" per donne maltrattate, dove sono state accolte finora 14 donne e 23 bambini, tra cui cinque ex prostitute, vittime della tratta. "La prima cosa è aiutare le donne a ritrovare la dignità e la fiducia in se stesse - continua Idanna - recuperare un rapporto sereno con i loro bambini. Ognuna è seguita dal punto di vista psicologico, legale ed economico". Qualcuna ce la fa, come Sofia, 37 anni, che oggi vive in un appartamento in affitto con i suoi quattro bambini. Sofia è arrivata alla casa-rifugio proprio grazie allo spot televisivo, per anni è stata picchiata dal marito alcolista, che non le permetteva di uscire di casa. Quando le violenze hanno cominciato a rivolgersi contro i figli ha deciso di andarsene. "Ma sono ancora poche, pochissime, le donne che hanno questo coraggio" dice Idanna.
Più ci si allontana dalla capitale (dove peraltro le violenze domestiche sono molto
presenti, soprattutto nei quartieri periferici in cui si ammassano migliaia di persone che
abbandonano i villaggi), più la situazione è difficile.
Come a Gramsh (25 mila abitanti), ai piedi del monte Tomorit, che è stato uno dei centri
di massimo reclutamento per i trafficanti. Anche perché sede della fabbrica nazionale dei
kalashnikov, saccheggiata dalla furia popolare dopo lo scandalo delle piramidi finanziarie
nel '97. "Tutti avevamo armi in casa in quegli anni - racconta Laurena, 25 anni,
operatrice del Cefa che, come la maggior parte degli albanesi, parla perfettamente
italiano - mio padre aveva preso una cassa di proiettili, una di bombe a mano e quattro
kalashnikov". (Consegnati poi nel '99 alla missione Undp per il disarmo, ndr).
"Era l'anarchia, non esisteva Stato, chiunque si poteva corrompere per pochi lek (moneta
locale, 1 euro pari a 125 lek, ndr)". In quegli anni tante ragazze sono finite
in mano ai trafficanti, abbindolate da false proposte di matrimonio, o rapite con la
forza. Ogni famiglia ha una storia da raccontare. Comunque, "tornare no. Non è
tornata nessuna. Come potrebbero? Tutti in paese sanno che hanno fatto le prostitute. E
nessuna madre accetterebbe in casa una figlia così".
I trafficanti non sono scomparsi, in paese tutti li conoscono, c'è più coscienza del
pericolo e sono costretti ad andare a reclutare nei villaggi sui monti, dove le ragazze
sono più ingenue, e povere. Proprio in alcuni di questi villaggi il Cefa cerca di fare
prevenzione, e organizza attività per le giovani, dallo sport all'educazione sessuale.
Visitiamo uno di questi centri, a 40 minuti da Gramsh, le ragazze stanno raccogliendo
l'acqua, che arriva solo mezz'ora al giorno, la strada è un susseguirsi di buche e fossi,
ma sulle baracche troneggia l'immancabile selva di antenne paraboliche, che permette di
vedere ogni giorno la tv italiana. "Qui tutti hanno visto almeno tre volte Pretty
Woman, (film in cui una prostituta è riscattata da un uomo bello e ricco, ndr).
Quel film avrebbero dovuto vietarlo in Albania" commenta Lara Giurato, volontaria
Cefa da due anni a Gramsh. In effetti, e questo è l'assurdo, in Albania la prostituzione
non esiste, almeno per strada. Per le ragazze è impossibile immaginare cosa significhi
veramente. Così c'è anche chi parte volontariamente, per sfuggire a violenze familiari e
povertà. Spiega Lara: "Con le ragazze lavoriamo sulla coscienza del corpo, il
rispetto di sé e dei propri sentimenti". Ma la situazione nei villaggi è dura. A
15-16 anni le donne sono già sposate, i matrimoni sono combinati dalle famiglie e la
ragazza non ha alcuna possibilità di scegliere il compagno. Negli ultimi due mesi, cinque
ragazze della provincia hanno tentato il suicidio, uno è andato a segno.
"Al momento del matrimonio - spiega Lara - l'uomo paga la dote alla famiglia della
donna. Di fatto, passa l'immagine di "comprare" la moglie, che diventa un bene
del marito. Una volta ho incontrato sulla strada due uomini con una ragazza massacrata di
botte. Si trattava del padre e del fratello che erano andati a riprenderla dal marito. Mi
dissero testuali parole: "la riprendiamo perché il marito non la usava
bene"".
Da qui al trafficking, non ci passa poi molto.
Cosa dice la legge italianaUscire dal giro è possibileIn Italia, per aiutare le donne straniere trafficate a uscire dal racket, c'è
l'articolo 18 del Testo unico sull'immigrazione Turco-Napolitano (DL 286, luglio 1998).
Prevede il rilascio di un permesso di soggiorno di 6 mesi "per motivi di protezione
sociale" alle donne che decidono di uscire dal giro, anche senza denunciare lo
sfruttatore. L'articolo 18, unico al mondo nel suo genere, permette alle associazioni a
favore degli immigrati di accogliere le ragazze offrendo loro cure mediche, sostegno
psicologico e accoglienza nelle oltre 60 "Comunità di fuga" segrete, sparse nel
paese. |
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Giugno 2002
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