di Marco Bello
Ci sono. Gli organismi geneticamente modificati (ogm) sono tra noi, anche se spesso non lo sappiamo. Anzi. Clamoroso è il decreto legge del governo del 16 ottobre scorso, che consente la presenza di ogm anche nei prodotti alimentari per lattanti. Mettendo così i neonati, il cui sistema immunitario non è completo, alla mercé di prodotti che possono causare allergie e altri effetti non prevedibili. Il consumatore, in verità, non ha neppure il diritto di esserne informato sull'etichetta del prodotto. Già, le etichette. Così familiari ma così sconosciute, che ogni giorno entrano in casa nostra a decine, per tutelarci dagli abusi dei produttori e garantirci il diritto di scegliere, ma che racchiudono molte insidie. Dovrebbero informarci sulla presenza di additivi, di ogm, dirci se il processo di fabbricazione rispetta l'ambiente o se i lavoratori - magari in paesi del Sud - non sono stati sfruttati. Ma non sempre lo fanno.
E cosa dice la legge? "Riguardo gli ogm esistono solo due tipi attualmente
autorizzati in Italia - spiega Michele Mea, avvocato consulente di questioni normative
sull'alimentazione - un tipo di mais della Novartis e la soia Monsanto, mentre ricordiamo
che negli Stati Uniti, Canada, Argentina e Cina la coltivazione di piante modificate è in
continuo aumento e si produce di tutto: pomodori, patate, caffè, fragole, cotone. Ma è
già pronta una lista di candidati all'autorizzazione anche per l'Italia". I prodotti
non autorizzati non dovrebbero per nessun motivo comparire nei nostri piatti. Mentre per
gli altri... "È prevista la cosiddetta "contaminazione accidentale",
ovvero a causa della coltivazione, stoccaggio o trasporto, per la quale gli ogm
autorizzati possono essere presenti fino al limite dell'1% senza alcun obbligo di
notificazione nell'etichetta". Questo vuol dire che stiamo mangiando biscotti,
polenta, formaggi, gelati e chi più ne ha più ne metta contenenti ogm fino all'1%, senza
il diritto di esserne informati. Senza quindi poter scegliere. La soia, infatti, è
presente in grande quantità negli alimenti trasformati, sotto forma dei derivati farina,
olio e lecitina. Alla dicitura "grassi vegetali" corrisponde nell'80% dei casi
olio di soia. "Se si eccede l'1%, e solo nei casi autorizzati - continua Mea - l'ogm
deve essere dichiarato".
Di fatto non è così, ed esistono in commercio prodotti contenenti più alte percentuali
di ogm non segnalati sulle etichette, come denuncia Altroconsumo (giugno 2000),
che con sofisticati test sul Dna trova due lecitine di soia fuorilegge. "La
complessità dei controlli è enorme - dice ancora Mea - è facile se sai esattamente cosa
cerchi, ma stanno entrando in Italia tipi di ogm sconosciuti". C'è una denuncia,
sempre contro la soia Monsanto, per la quale un'intera sezione del Dna è irriconoscibile,
quindi impossibile da identificare nei test.
Greenpeace (www.greenpeace.it)
porta avanti da anni una campagna contro gli ogm perché denuncia: "A causa della
complessità dei sistemi viventi, la transgenesi, che di fatto è un inserimento di un
gene estraneo in un qualunque punto del Dna ospite, può provocare "effetti
collaterali" difficili da prevedere. Possono mettere a rischio sia la salute di chi
li mangia o viene a contatto con essi, sia gli equilibri dell'ecosistema in cui gli ogm
sono rilasciati". Inoltre, nel caso dei prodotti per neonati accusa: "L'uso
alimentare di piante transgeniche potrebbe comportare l'assunzione di composti a cui
l'organismo umano non è mai stato prima esposto per via alimentare, con il rischio di
stimolare risposte allergiche, più probabili in soggetti con scarse difese immunitarie
come, ad esempio, neonati e immunodepressi".
E proprio i prodotti per neonati sono l'ultima frontiera che sta per essere conquistata.
Nonostante il decreto 128 del 1999 vieti ogni presenza di ogm nei prodotti per bambini
fino a tre anni, Greenpeace denunciava già nel febbraio 2000 la soia Roundup nel latte
per neonati Alsoy della Nestlé e Multisoy della Dieterba. Il procuratore aggiunto di
Torino, Raffaele Guariniello, sta conducendo un'inchiesta proprio su questi due alimenti.
Il decreto del governo del 16 ottobre, invece, rema contro ed equipara questi alimenti a
quelli per adulti, portando la tolleranza all'1%, senza che debba comparire
sull'etichetta. "Questo provvedimento crea molta confusione" ricorda Mea, è un
piacere fatto alle multinazionali, in un momento in cui si sta discutendo, a livello
europeo, un pacchetto sull'autorizzazione di nuovi ogm e sugli obblighi per
l'etichettatura.
Ma il problema non sono solo gli ogm. Tra gli ingredienti degli alimenti che mettiamo
nel carrello della spesa c'è sempre una sfilza di "E" seguite da numeri. Sono
gli additivi, che infestano ormai tutti i prodotti alimentari confezionati. Ci sono i
conservanti e gli antiossidanti, necessari per rallentare la deperibilità degli alimenti,
gli addensanti, coloranti ed esaltatori di sapore che servono a rendere più appetibile il
biscotto, più rossi i gamberetti o gustoso il tonno. Possono essere naturali o
artificiali e ne esiste una lista di autorizzati (che sono comunque molti) valida in tutta
Europa. Alcuni sono necessari (i conservanti), altri invece sono utilizzati solo per
coprire carenze del prodotto. La legge stabilisce gli additivi utilizzabili e, in alcuni
casi, la quantità massima. La famosa etichetta deve riportare sempre quali sono gli
additivi presenti.
Alcuni sono meno nocivi degli altri, ma consumarne in gran quantità non è certo
salutare. Altri, come il glutammato (molto utilizzato per esaltare i gusti, quindi non
necessario) hanno svariati effetti collaterali. E ci sono anche altre insidie nascoste.
"Molti additivi sono a base di soia - spiega Michele Mea - che può essere
geneticamente modificata. Quindi ritroviamo ogm nel nostro piatto senza che nessuno ci
avverta". Essendo spesso in quantità inferiori all'1%, i produttori si nascondono
dietro alla "contaminazione accidentale" e non li dichiarano in etichetta.
E intanto compaiono sugli scaffali dei supermercati anche sempre più prodotti
tappezzati di scritte "Bio". Ma cos'è l'agricoltura biologica e come ci
informano le etichette? Da alcuni anni si sta diffondendo anche in Italia questo tipo di
produzione alimentare, che si contrappone a quella industriale intensiva, in quanto non fa
uso di fertilizzanti e pesticidi chimici, di organismi geneticamente modificati, è
attenta all'habitat di piante e animali. L'idea di fondo è produrre alimenti (vegetali e
animali) il più possibile in sintonia con l'ambiente, senza inquinare aria e acqua, né
impoverire la terra. Ma anche qui l'insidia c'è. Occorre distinguere tra il biologico
certificato e quello che non lo è. Nel primo caso, la regolamentazione prevede controlli
accurati che garantiscano il rispetto di alcune norme per tutto il percorso produttivo
dell'alimento, compresa trasformazione e conservazione: dal "seme al piatto". In
Italia ci sono nove enti certificatori riconosciuti dal ministero delle Politiche
Agricole, incaricati di fare i controlli per i 54.004 operatori del settore, tra
produttori agricoli, trasformatori e importatori. Un rapporto del ministero sullo stato
dell'agricoltura biologica nel nostro paese a fine 2000 sottolinea la tendenza all'aumento
di questa produzione. La parte preponderante è occupata da foraggi e cereali, seguiti da
oliveti, alberi da frutto e infine ortaggi e legumi.
La superficie coltivata seguendo queste norme (o in via di conversione) è oggi superiore
a un milione di ettari (circa il 6,5% dell'area coltivabile), prima in Europa per
estensione assoluta produzione. Nasce il dubbio sulla bontà dei controlli: secondo il
rapporto solo 726 sono le irregolarità riscontrate nel 2000, su un totale di 63.914
visite ispettive e 5.692 analisi di laboratorio. Sempre il mensile dei consumatori, Altroconsumo
(aprile 2001), evidenzia come i controlli siano più una verifica formale dei
documenti che veri test sul campo, e come il rischio stia anche nel fatto che i
controllori sono pagati dalle stesse aziende agricole.
Anche in questo caso è l'etichetta che deve garantire una corretta informazione del
consumatore, ed è ancora qui che si nascondono le insidie. Per essere un bio certificato
il prodotto deve riportare la dicitura "da agricoltura biologica", assieme alla
sigla e al codice dell'organismo di controllo (uno dei nove). È possibile poi che non
tutti gli ingredienti siano di tipo biologico. Al di sotto del 95% non si può utilizzare
la denominazione, ma si può mettere un asterisco accanto a ogni ingrediente biologico
sull'etichetta. Ci sono poi i prodotti importati da altri Stati dell'Unione europea:
questi hanno una varietà di simboli e marchi in cui è facile perdersi. Esistono poi, sui
nostri scaffali, prodotti con etichette ingannatrici. Nomi che contengono la parola
"Bio" o immagini che richiamano il rispetto per l'ambiente sono spesso un modo
per camuffare dei falsi biologici.
Ma quali sono i reali vantaggi del bio? "Innanzitutto la salute - spiega Margherita
Sabia, esperta in consumo sostenibile - si tratta di prodotti più sani, che portano a una
reale prevenzione delle malattie più comuni. In secondo luogo per l'ecosistema. Con un
prodotto certificato siamo sicuri di un maggiore rispetto ambientale, e di un minor
inquinamento. In terzo luogo sono normalmente prodotti locali, per cui si sostengono le
economie della zona e si inquina di meno perché si riducono i trasporti". Se
guardiamo però alle nostre tasche scopriamo che il bio è più caro: "Sì - continua
Margherita - ma questo vale per i prodotti certificati. Se come famiglie o gruppi si
riescono a trovare produttori vicini, per esempio nei dintorni delle nostre città, e
verificare il loro modo di lavorare, ci si può poi accordare per forniture periodiche. In
questo caso il prezzo scende". Non si tratta di "agricoltura biologica"
certificata, ma di una specie di ritorno al consumo naturale.
Ma c'è ancora un aspetto importante su cui le etichette non danno informazioni. Alcuni dei prodotti che acquistiamo, specie se arrivano dal Sud del mondo, sono ottenuti tramite lavoro minorile o sfruttamento degli adulti, hanno un impatto negativo su ambiente ed economie locali. Per questo motivo, tre anni fa, il Centro nuovo modello di sviluppo e Mani tese (a cui si sono aggiunti Amnesty International Italia, Aifo e Ctm) hanno promosso la Campagna Acquisti Trasparenti: una raccolta di firme per presentare una legge che prevede, tra le altre cose, un marchio di garanzia sociale da apporre sulle etichette. Un simbolo che dovrebbe dare al consumatore la possibilità di scegliere quelle imprese che garantiscono un trattamento equo ai lavoratori e il rispetto dell'ambiente. "Si stava per discutere in parlamento una proposta mutilata rispetto a quella da noi presentata - dice Francesco Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo - ma poi è cambiata legislatura. Adesso con una maggioranza così aggressiva dove la logica mercato-impresa prevale, non c'è spazio per il sociale". Così la campagna è ferma, e le associazioni coinvolte hanno deciso di sondare altre forze per poi rilanciare l'iniziativa, forse a livello regionale. "Il marchio fornirebbe una corrispondenza tra condizioni di lavoro e prodotto finale: è fondamentale anche per molti generi alimentari" continua Gesualdi. Si pensi solo agli ananas Del Monte e alle banane Chiquita (vedi VpS, dicembre 2000): contro queste multinazionali sono in corso da anni campagne di boicottaggio, a causa delle condizioni in cui costringono i lavoratori, l'impatto ambientale e la politica di corruzione che utilizzano.
Al supermercato ci siamo già persi tra cibi transgenici, additivi, latte per neonati all'ogm, prodotti biologici più o meno certificati. Sono loro, le etichette, che dovrebbero garantire una libera scelta. Ma non sempre è così. Margherita Sabia consiglia: "Dobbiamo stare molto più attenti a cosa compriamo e mangiamo. Abituiamoci a leggere le etichette e scegliamo in base alla loro semplicità: pochi ingredienti e sani, e meno additivi possibili. Privilegiamo alimenti freschi, di stagione e di provenienza locale". Tutto questo richiede più tempo? Probabilmente sì, ma fare la spesa in modo consapevole diventa sempre più un investimento sulla nostra salute e su quella degli altri.
Cos'è un ogm?È un organismo nel quale, tramite operazioni di ingegneria genetica, si riescono a innestare pezzi di Dna di un altro organismo, per creare esseri non presenti in natura e non ottenibili tramite incroci. Nel caso delle piante, come mais e soia, l'innesto di un gene di batterio può creare una specie resistente a un diserbante o all'attacco di un insetto o, ancora, al freddo. Il nuovo organismo, inoltre, è di "proprietà" della ditta che l'ha creato. È il caso, ad esempio, della soia Roundup Ready (la più diffusa nel mondo) della statunitense Monsanto, geneticamente modificata per resistere a un erbicida, anch'esso prodotto dalla multinazionale, che quindi fa affari vendendo l'accoppiata (Monsanto è il numero uno sul mercato degli erbicidi con un giro di 2,6 miliardi di dollari nel 2000). |
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Dicembre 2001
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