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Caro diario

Interviste nicaraguensi

Partiamo su una vecchia motocicletta che a malapena fa i 50 km l'ora. Chepe guida lentamente e cerca di evitare le buche. Di fronte a noi si staglia il vulcano Telica, uno dei tanti del Nicaragua.
Chepe, tra i promotori sociali del progetto, è un uomo mite con folti baffi neri, la pelle scura. Come un bambino estasiato, mi fa notare gli alberi, i frutti, il riso verde e rigoglioso.
Le comunità non sono distanti da Leon, ma lo stato drammatico delle strade rende ogni viaggio un'avventura. Lasciamo la carretera principale e imbocchiamo un sentiero di terra battuta, la moto sobbalza tra avvallamenti e buche, più volte devo scendere per uscire dal pantano.
La gente ci aspetta nella scuola della comunità, ci sono il leader, i brigatistas de salud, la partera e uno stuolo di bambini e ragazzi. Alla lavagna appendiamo i fogli colorati che illustrano il progetto, tutti siedono intorno a noi. È difficile spiegare a questa gente i nostri intenti e l'importanza della loro collaborazione. Troppe volte hanno visto delegazioni di progetti di cooperazione arrivare, raccogliere dati, fare promesse e sparire per sempre.
Il gruppo è diviso in due, Chepe va a intervistare gli adulti, a me spettano bambini e adolescenti.
Le domande del questionario sono difficili: "Quanti bambini non studiano in questa comunità? Perché? Quanti di voi lavorano? Che attività vi piacerebbe?".
Non funziona, los ninos mi guardano stupiti, intimiditi. A poco a poco metto a punto una strategia fatta di giochi e contatti diretti. Mi faccio raccontare le loro giornate, chiedo nomi, età, distribuisco fogli per disegnare. La carta bianca intimorisce meno che la mia faccia bianca. Sono affascinati dalla mia presenza, mi accarezzano i capelli, studiano attentamente l'orecchino al naso, mi prendono per mano. Hanno bisogno, come tutti i bambini, di attenzione e affetto. Scrivo il meno possibile, tengo tutto a mente e una volta a casa compilo il questionario. L'intervista termina giocando a nascondino o a uno, dos, tres estrella, il momento più bello della giornata.
Qui le comunità sono vaste e disseminate sul territorio. È normale che i bambini facciano chilometri a piedi per raggiungere la scuola. Le maestre e le aule sono insufficienti, così si fanno due turni, uno di mattina e uno di pomeriggio. Nelle comunità c'è quasi sempre la scuola elementare e il presolar, la secondaria non è assicurata. Il 70-80 % dei bambini tra i sei e gli undici anni studia, man mano che l'età aumenta il tasso di scolarizzazione diminuisce. Le ragioni per cui molti bambini non studiano sono sempre le stesse, il papà non ha i soldi per comprare il quaderno e la penna o per pagare la merenda al figlio. A volte i genitori sono analfabeti e non capiscono l'importanza dell'istruzione, il figlio serve a casa o nei campi per contribuire al reddito familiare. Tutti i bambini, quando non sono a scuola, lavorano. Le ragazzine aiutano le madri a cucinare, a lavare, vanno a prendere l'acqua o vendono la cuajada, un formaggio fresco, per strada. I bambini collaborano in casa, lavorano nei campi o portano le vacche al pascolo.
L'intervista è terminata, è ora di tornare. Lo stuolo di bambini ci accompagna, ci saluta, ci prende in giro. Mi porto via i loro sguardi, l'energia della loro età, i sorrisi sdentati e le tante mani sporche sulla pelle.

Giovanna Fortuni
Ceiba Chachagua (Nicaragua), ottobre 2001

Guerra tra poveri

A Sololo i bisogni sono immensi. Non ci sono risorse (le uniche date dagli animali sfumano con le ricorrenti siccità), domina la logica della violenza o del lasciarsi vegetare.
I più deboli, come sempre, soccombono.
Quelli ancora legati al passato, ormai una minoranza, sembrano morire con la cultura tradizionale, trasmessa oralmente. Sono impreparati al nuovo, disorientati.
D'altro canto, il nuovo contesto culturale di matrice occidentale, che la gran parte della popolazione sembra abbracciare, non decolla. Non ha le risorse per farlo. Manca tutto: acqua, cibo, salute...
Ecco allora l'emigrazione verso la metropoli, il traffico con la frontiera, il banditismo... tutto va bene, legale o illegale: si tratta di sopravvivere.
La mancanza d'acqua è l'elemento più destabilizzante. Gli scontri per averne l'accesso sono interpretati altrove come guerre etniche; ma sono scontri con popolazioni altrettanto disperate in fuga da contesti simili.
Ogni giorno si assiste a una guerra tra poveri che si svolge al rallentatore.
Ogni giorno nuovi episodi, tante piccole battaglie di cui è impossibile prevedere la fine.
Il nostro intervento, con risorse limitate, è anch'esso una guerra persa in partenza?
Se possiamo solo tenere la trincea in attesa che i generali nelle stanze dei bottoni decidano la strategia e inviino i rinforzi, si può anche pensare di farcela; purché l'attesa sia ragionevole.
Noi sentiamo la responsabilità del venditore rispetto al datore di lavoro. Siamo "piazzisti di povertà" per conto dei Borana e dobbiamo battere la "concorrenza" di altri venditori forse migliori di noi. Anche la nostra è una guerra tra poveri...

Pino Bollini
volontario Ccm
Sololo (Kenya), Ottobre 2001

Arrivi & partenze

Il 25 settembre, Riccardo Laurelli ha raggiunto Salinas Grande, in Nicaragua, in qualità di coordinatore di progetto di sviluppo rurale del Mlal.

Nel mese di agosto è rientrato, dopo tre anni in Brasile, Micheles Sales, educatore nel progetto Mlal nella città di Recife.

Daniela Armani ha prorogato il contratto per il progetto Mlal Esmeraldas Ecuador fino all'agosto 2002. Continuerà la sua esperienza di medico specialista di medicina tropicale, con funzione di formazione del personale locale, sia medico che infermieristico.

Sempre in Ecuador Danila Pancotti proseguirà per un altro anno, fino cioè all'ottobre 2002, la sua esperienza di operatrice socio-educativa nel progetto del Mlal a Jatunpamba.

Auguri ai volontari Cisv Dario e Genilza: dopo aver celebrato le nozze a Rio de Janeiro lo scorso ottobre, sono ritornati in Italia. Entrambi hanno lavorato per un anno in una comunità di ragazzi di strada nella periferia di Rio.

Paolo Ferrari, veterinario di Mondovì, a novembre ha concluso il suo impegno con l'Lvia. Rientra dopo 23 mesi trascorsi in Burkina Faso in qualità di assistente tecnico nel programma di cooperazione dell'ong.

Un altro rientro: Lorenzo Cristoni, medico, è rientrato a luglio dalla Guinea Bissau, dopo due anni d'impegno in un progetto Lvia.

Etiopia: l'incubo Aids

Devo parlare con il dottor Ferewe, direttore dell'ospedale di Bahir Dar.
Entro nel reparto di pediatria, subito la mia attenzione è attratta da un piccolo fagotto che piange sommessamente. È una bimba di circa due mesi, che appena nata è stata "abbandonata" dalla mamma, un'adolescente di 15 anni, scomparsa nella notte.
Il suo pianto è sommesso, ma inarrestabile, come se per un verso avesse paura di disturbare, ma nel contempo richiamasse l'attenzione del suo esserci e del suo diritto ad esistere. Mentre la cullo, il dottor Ferewe mi spiega che, con la collaborazione degli Affari Sociali, stanno cercando una famiglia cui affidarla, ma è molto difficile poiché tutti hanno paura che sia sieropositiva.
Passa un mese di faticosi e tristi tentativi, alla fine riusciamo ad affidarla alle suore di Madre Teresa di Calcutta.
Il 20 ottobre è deceduto Girma, un collega con cui ho lavorato sette mesi. Aveva 31 anni, era laureato in Lingua e letteratura inglese, lavorava come esperto di comunicazione nell'ufficio del Cvm di Bahir Dar. Spesso ci incontravamo dopo il lavoro e parlavamo delle nostre esperienze, della nostra vita, di speranze e prospettive future. Aveva più volte espresso il desiderio di venire in Europa, per conoscere una cultura "altra".
I primi sintomi della malattia si sono manifestati a luglio, e il decorso è stato velocissimo. Quando è partito per Harar, sua regione nativa, il quadro era quello tipico di un malato di Aids: perdita di 15 kg in due mesi, spurgo sulla lingua, desquamazione della pelle, polmonite con tubercolosi, diarrea e salmonella.
Nonostante l'evidenza dei sintomi, ha continuato a negare, e fino al giorno prima di partire da Bahir Dar mi ha ripetuto di non preoccuparmi del lavoro, che sarebbe tornato presto.
Due immagini emblematiche, una vita che inizia con l'Hiv e una vita che si spegne con l'Aids.
In entrambi i casi emergono gli aspetti di quella che qualcuno ha definito "peste del 2000": la paura, il silenzio, lo stigma. La malattia, i cui veicoli di trasmissione sono lo sperma, il latte e il sangue, fondamenti della vita nella sua totalità, viene negata perché sovverte i valori che alimentano la dimensione del vivere, soprattutto comunitario.
Lo stigma, la paura e il silenzio sono anche frutto di errori compiuti in passato, quando, a diversi livelli, la malattia è stata presentata come un mostro dai mille tentacoli, o come una punizione divina.
Ancora una storia. Quella di Asmach, una donna di 34 anni che, fino al gennaio scorso, viveva una vita "normale": un marito con un lavoro in un ufficio governativo, una casa di proprietà, quattro figli, quattro mucche.
Nei primi mesi di quest'anno il marito si ammala e muore di Aids. Asmach decide di sottoporsi al test e scopre di essere sieropositiva.
Qualche tempo dopo, come in una catena inarrestabile di eventi che segnano per sempre i destini di una famiglia, muore anche il bestiame.
Quale prospettiva per una donna che deve sfamare quattro bambini e che la malattia del marito ha lasciato completamente priva di mezzi di sussistenza?
Non tutte le storie vere negano i finali positivi, qualche volta un piccolo e parziale miracolo si compie, e alimenta la fiammella della speranza.
Asmach infatti è diventata presidente dell'associazione "Alba della Speranza" (Dawn of Hope) che al momento ha circa 60 iscritti, tutti sieropositivi. Questa gente ha deciso di testimoniare la possibilità di convivere con il virus, mantenendo la dignità di persone, vivendo il quotidiano con serenità, e contribuendo in prima persona a dare un volto umano alla malattia, attraverso le loro testimonianze.
Grazie al loro coraggio e alla loro abnegazione il muro del silenzio si sta lentamente sgretolando, la paura assume connotati razionali, e i valori su cui poggia questa cultura millenaria tornano a essere i binari su cui viaggia il treno della vita. L'accoglienza, la solidarietà, la condivisione, il prendersi cura del "fratello" si riaffermano: questi sono gli elementi che permetteranno all'intera comunità di agire sinergicamente contro un mostro che può essere debellato.
Il fatto che i ragazzi dai 6 ai 14 anni sono colpiti in minima parte dalla malattia ci induce a orientare la nostra azione di prevenzione sulla fascia che viene definita la "Finestra della Speranza". Saranno gli adulti di domani, gli eredi di un mondo uscito da una strage senza precedenti, se i dati di proiezione, che parlano del 60% di morti tra i 15 e i 40 anni nei prossimi 10 anni, si attualizzeranno.

Mina Viscione
volontaria Cvm
Etiopia, ottobre 2001

1° dicembre, giornata mondiale contro l'Aids

I numeri del contagio

Su 36,1 milioni di persone che vivono nel mondo con l'Hiv/Aids 25,3 milioni si trovano in Africa sub-sahariana.
Nel 2000, ci sono state 15.000 nuove infezioni al giorno, che hanno colpito:

abitanti nei PVS per più del 95%;
1.700 bambini sotto i 15 anni;
13.000 persone tra i 15 e i 49 anni (47% donne, di cui più della metà ha un'età tra i 15 e i 24 anni).

L'Africa sub-sahariana, rispetto alla situazione globale, gode di ben tristi primati:

il 70% di persone con l'Hiv/Aids
il 78% di casi di Aids
il 68% di nuove infezioni

(Dati 2000)

In Etiopia, dal 1984, in cui si registrava lo 0%, si è arrivati al 2000 con il 7,3% di casi.
Dei circa 2.6 milioni che hanno contratto il virus dell'Hiv, nel 2000:

2.4 milioni sono adulti
250.000 bambini

Una delle conseguenze che l'Hiv/Aids porta con sé sono gli orfani e i bambini di strada. In Etiopia sono circa 800.000; 4.000nella sola città di Bahir Dar.

Quanti sono mille miliardi?

Quanti sono i mille miliardi che l'ex-Ministro Visco ha chiesto alle mille società più ricche del mondo per aiutare i paesi poveri? Quanto sono il miliardo e trecento milioni di dollari che i G8 hanno recentemente deciso di stanziare per un Fondo Globale di lotta all'Aids, alla malaria e alla tubercolosi e in merito al quale il ministero affari esteri sta consultando l'assemblea delle ong Italiane? Mille miliardi sono qualche centesimo della millesima parte dei fatturati di quelle società. Sono la duecentesima parte dell'appalto assegnato in questi giorni dal Pentagono alla Lockheed per il nuovo aereo da usare nella guerra afgana. Mille miliardi sono qualche percento del patrimonio personale di un solo cittadino del nostro paese (che non cito per ragioni politiche). Mille miliardi sono poco più di 600 lire per ciascuno di quel miliardo e 400 milioni di uomini che vivono sotto la soglia della povertà estrema.
La carità ha un valore positivo anche quando è soltanto simbolica. Ma temo che in questo caso l'offerta serva unicamente ai governi del G8 come giustificazione per non attuare provvedimenti più utili a favore dei paesi poveri.
All'inizio dello scorso anno, l'anno del Giubileo, Giovanni Paolo II si è fatto promotore della cancellazione del debito dei paesi poveri. È passato un anno e la proposta del Papa non ha avuto alcun seguito. Ho l'impressione che nessuno dalle parti del G8 e del Fondo Monetario Internazionale ci abbia mai fatto neppure un pensierino. Le affermazioni di alcuni autorevoli esponenti dei governi ricchi, secondo i quali l'offerta dei mille miliardi andrebbe "oltre la cancellazione del debito", come suonava il titolo del documento, e in particolare, la proposizione "se non si fa qualcosa per cancellare la povertà, questi paesi sarebbero di nuovo indebitati entro quindici anni", sembrano andare nella direzione non della cancellazione del debito ma della cancellazione della proposta di Giovanni Paolo II.
Giustamente il G8 intende, nella gestione dei fondi raccolti, dare la massima priorità al settore della sanità e alla distribuzione dei farmaci. Questi sono prodotti quasi esclusivamente da pochissime imprese che sviluppano e producono nei paesi del G8, per un mercato da più di 800.000 miliardi di lire, 800 volte di più dei mille miliardi che si raccoglierebbero in virtù della munificenza delle mille imprese più ricche. Così, i mille miliardi ritornerebbero subito alla base, ossia ai paesi del G8, o meglio alle multinazionali, prevalentemente americane, che in modo più o meno occulto, più o meno consapevole, definiscono la politica del G8, del Fondo Monetario Internazionale, dell'Organizzazione del Commercio Mondiale.
Molto più semplice da attuarsi e enormemente più utile ai fini della sopravvivenza di milioni di ammalati dei paesi poveri sarebbe la rinuncia da parte dei governi dei paesi ricchi ai famigerati Trips (Trade Related aspects of Intellectual Property). Sono i diritti di brevetto, in forza dei quali le multinazionali del farmaco si stanno appropriando della cultura medica più antica e dei frutti della moderna ricerca collettiva, e in nome dei quali le potenti nazioni ricche non concedono ai paesi poveri il diritto di produrre in proprio i farmaci di prima necessità, neanche ad esclusivo uso interno e senza fini di lucro.
"Medici senza frontiere" ha denunciato che milioni di uomini muoiono ogni anno in nome della difesa della proprietà intellettuale, un principio astratto che nella società dell'informazione ove le conoscenze sono strettamente interallacciate, non è attuabile in pratica ed è sostanzialmente iniquo, perché privilegia i ricchi e i potenti. A differenza del provvedimento dei mille miliardi, la rinuncia a rivendicare quel principio astratto sarebbe un autentico gesto di solidarietà, e il segno che i governi del G8 non sono condizionati dalle multinazionali della globalizzazione.

Angelo Raffaele Meo

Volontari per lo sviluppo - Dicembre 2001
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