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Incontro con Magalie Marcelin

Ribellarsi è un'arte

Fiera di essere donna, nera e haitiana. Inizia giovanissima la militanza politica. Le sue armi: il teatro e la danza vudù. Con cui scardinerà 30 anni di dittatura ad Haiti.

testo e foto di Marco Bello
da Jacmel

I capelli intrecciati schizzano in aria in tutte le direzioni, porta un semplice vestitino di jeans, fino al ginocchio. I piedi scalzi. La pelle nera e lucida non fa trasparire i suoi 38 anni, che riaffiorano invece negli occhi, scuri e profondi. La voce è bassa, quasi cavernosa. Magalie Marcelin entrò giovanissima nel movimento che avrebbe scalzato 30 anni di dittatura dei Duvalier ('57-'86), padre e figlio, e portato Haiti alle prime elezioni democratiche e a larga partecipazione popolare, nel dicembre 1990. Lo ha fatto attraversando una porta che l'accompagnerà per tutta la vita: l'arte.

Gli inizi

"Quando avevo tredici anni ascoltavo molto la radio. C'era allora un movimento indigenista, si valorizzava il creolo (lingua di Haiti, ndr) e tutto ciò che era di origine africana. Mi sentivo bene nella mia pelle, sentivo di essere haitiana. Imparavo tutte le canzoni popolari, i ritmi vudù". Era la metà degli anni '70 e i gruppi più attivi nella lotta contro la dittatura erano artisti e giornalisti, uomini e donne di teatro e scrittori. Magalie inizia a recitare in una compagnia clandestina. "A ogni occasione facevo del teatro. Non si trattava solo di valorizzare l'identità culturale, ma di reclamare certi diritti. Si faceva "coscientizzazione". Riuscivamo a dire quello che non osavamo neanche sussurrare in una stanza chiusa di una casa, per paura che qualcuno di passaggio ci ascoltasse e pensasse che c'era qualcosa di politico". Le libertà di espressione e associazione non esistevano. Le commedie non si rappresentavano in pubblico. Nel '79 scatta ufficialmente la censura e gli intellettuali sono perseguitati.

Secondo Magalie non si trattava delle speculazioni di un'élite: "Osare dir di no a un ordine instaurato contro tutto un popolo è un interesse collettivo. Il lavoro va fatto poco a poco, tramite un lungo periodo di presa di coscienza". In un paese a forte percentuale di analfabetismo (intorno al 55%), un ruolo importante è ricoperto dalla comunicazione orale, che aiuta a far capire i meccanismi di ingiustizia. "Il processo richiede tempo, occorrono decenni per arrivare a coinvolgere tutte le categorie della popolazione. Non è spontaneo".
In quell'epoca, ricorda Magalie, il regime era arrivato a un punto in cui c'erano abusi anche quando non si faceva politica, bastava un diverbio con qualcuno, "guardare uno sconosciuto troppo a lungo su un tap tap (mezzo di trasporto locale, ndr)" e questi, se conosceva un macoute (le milizie personali di Duvalier), ti faceva arrestare per vendetta.

L'esilio

La censura dà maggiore coesione al movimento e gli incontri informali di riflessione si moltiplicano: "è stato come se dopo tre generazioni che hanno vissuto la dittatura, a un certo momento la nostra avesse detto basta. È stata una ribellione orchestrata informalmente da giornalisti e commedianti". Ma anche la repressione aumenta e nel novembre '80 scattano una serie di arresti. Magalie è catturata e costretta all'esilio. Non ancora ventenne approda prima in Venezuela e poi a Montreal, in Canada, dove la comunità di dissidenti haitiani è storica. Qui entra in un gruppo di haitiane militanti. "Era un gruppo di donne coscientizzate, politicizzate. Alcune femministe".

"Fin da piccola avevo capito che le ingiustizie non si eliminano con azioni di carità, ci vogliono altri tipi di interventi. Bisogna rigettare la concezione che ci possono essere dei poveri perché "Dio ha creato le cinque dita che non sono della stessa lunghezza", come recita un proverbio creolo. C'è tutta un'ideologia che fa accettare le disuguaglianze sociali, le fa vedere come normali. Invece si tratta di sfruttamento, conflitti di interessi, controllo di una categoria su un'altra. Molto più tardi, ho capito che ci sono disuguaglianze anche tra uomini e donne".

Magalie inizia a sviluppare una sensibilità particolare per i problemi delle donne e le discriminazioni in base al sesso. Ma le priorità sono altre: "Preponderante era la lotta per liberarsi dei dittatori e contro la povertà. Non riuscivamo ancora a rispondere alla domanda: come articolare le rivendicazioni specifiche delle donne in quelle globali?". Intanto studia diritto all'università, si forma sulle cooperative e in andragogia (educazione degli adulti). In esilio, mette al mondo una figlia di cui va fiera, Mailé, con l'ex marito giornalista, anche lui espulso dal paese.

"La militanza, gli studi, la disperazione dell'esilio: vivevamo una quotidianità molto pesante, non eravamo mai soddisfatte, avevamo sempre la testa ad Haiti e il corpo in esilio. Non agivamo nel presente per assicurare il nostro avvenire in Canada, ma tutto quello che facevamo era in funzione del ritorno. C'erano attività politiche quotidiane. Seguivamo tutto quello che succedeva ad Haiti e organizzavamo manifestazioni per far pressione contro la dittatura".

Siamo a Morne la Porte, montagna che sovrasta Jacmel, nel sud dell'isola. La vista è splendida: tutta la baia fino all'orizzonte del Mar dei Caraibi; la vallata rigata da tre corsi d'acqua e le montagne più a nord; la città degli artisti adagiata sulla costa. Da queste parti ci sono poche abitazioni, semplici, con il tetto in lamiera, sparpagliate. La casa di Magalie è diversa dalle altre, ha pianta esagonale e tetto quasi a pagoda. È piena di oggetti artistici e insoliti. Le sedie sono di ferro battuto e cesellato secondo una tipica scuola haitiana: raffigurano alcuni coloratissimi pesci tropicali; le griglie alle finestre sono rappresentazioni di vevé, i disegni rituali del vudù; in un angolo c'è una grossa radice multiforme, scolpita in una miriade di piccoli volti e simboli strani; "ci vogliono giorni per scoprire tutto quello che nasconde quel pezzo" ride Magalie.

La rivolta

Mentre c'è chi lotta dall'esilio, ad Haiti il movimento popolare è cresciuto e Jean-Claude Duvalier è costretto a fuggire il 7 febbraio 1986. Si susseguono giunte militari e massacri fino alle prime elezioni democratiche, nel dicembre '90, che portano al potere l'ex salesiano Jean-Bertrand Aristide. "Jean-Claude era partito, ma c'è sempre una mano invisibile che ristabilisce il controllo della situazione - Magalie si riferisce agli Stati Uniti, che considerano Haiti una loro colonia degradata - Non ci sono stati tribunali per i torturatori che restano impuniti. Tutto questo mi dava molte inquietudini sull'avvenire delle popolazioni più povere e sulla costruzione di questa nazione".

Magalie può rientrare nel paese e si unisce all'organizzazione femminista Kay Fanm (la casa delle donne), di cui diventa portavoce. Affianca alla militanza la vita professionale, lavorando per ong internazionali nel campo dei diritti umani. Ma non vuole mischiare attivismo politico e lavoro.

Nei primi anni ci sono divergenze all'interno dell'organismo per i suoi orientamenti strategici. "Era chiaro che volevamo essere un'organizzazione di massa, di pressione. Ma per arrivare a cosa? Lotta alla povertà, educazione, diritti umani, pulizia nelle istituzioni pubbliche. Delle donne, non se ne parlava".

Ancora sangue

Sette mesi dopo l'investitura di Aristide, l'esercito guidato dal generale Raul Cédras manda a segno un colpo di Stato, che si saprà essere orchestrato dalla Cia. La repressione è durissima. In tre anni sono almeno 5.000 i morti. I leader popolari sono ammazzati o invitati ad andarsene. Gli uffici e le realizzazioni delle organizzazioni devastate. L'obiettivo è distruggere il movimento popolare di Haiti: un esempio di partecipazione troppo "pericoloso" per il continente.

"Io mi sono detta che non sarei tornata in esilio e mi sono organizzata, come altri, per "l'esilio interiore". Cambiavamo città, ci nascondevamo, dormivamo ogni sera in un posto diverso. Intanto continuavamo a resistere attivamente, a lottare, per arrivare a un ordine costituzionale". Il periodo di massima crisi fa nascere una riflessione profonda nell'organismo: "durante il golpe abbiamo potuto ridinamizzare l'associazione, ristrutturarla". Le militanti di Kay Fanm approfondiscono la problematica delle donne, le discriminazioni fondate sul sesso, il controllo da parte degli uomini, l'ideologia patriarcale. I tre anni di colpo di Stato registrano violenze sistematiche nei confronti delle donne, svariati stupri collettivi. L'allora ambasciatore Usa a Port-au-Prince giustifica queste violenze perché "fanno parte della cultura haitiana". "Abbiamo fatto delle dichiarazioni per denunciare che questo non è vero - ruggisce Magalie, visibilmente alterata - Per farlo capire alle missioni Onu".

Gli Stati Uniti negoziano con Cédras il ritorno di Aristide e la sua fuoriuscita in un esilio dorato. A fine ottobre '94 riportano il presidente, invadendo il paese con 20 mila marines. Aristide ha amici molto potenti tra i democratici Usa ed è diventato multi miliardario. È l'inizio della fine per il movimento ormai decapitato. "In quel momento ho capito che c'era stato un tradimento. Un presidente eletto, riconosciuto internazionalmente, non può chiedere all'Onu appoggio per ritornare. Quei paesi manterranno il controllo su di lui. Non sarà più un potere popolare. Diventa imposto da fuori, se ne perde la sorgente, il popolo, che quindi ne sarà escluso".

Sotto le ceneri

Malgrado le delusioni Magalie continua la sua lotta, tra Jacmel, Port-au-Prince e l'estero. Lo scorso aprile ha fondato con altri leader storici il collettivo Socialismo identità e libertà, definito uno spazio di discussione, di riflessione per un'alternativa. Segnali di ricostruzione del movimento.

L'attivista guarda al futuro, coerente con il suo approccio alla vita. "Molto presto ho concepito la mia esistenza al di fuori degli spazi di potere, fuori dalla civilizzazione. Ho capito la necessità di salire su un albero, per ritrovare la mia sorgente di energia e poi ridiscendere tra la gente per continuare a vivere e lavorare con loro. Quando sono qui tutta sola posso riflettere, sentirmi libera e parte dell'universo. Devo mantenere uno spazio personale, cosa che stupisce la gente, ma è soprattutto questo la vera me stessa".

Volontari per lo sviluppo - Agosto-Settembre 2001
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