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Thailandia - Usi e abusi del turismo

Trekking tribale

Tre giorni e due notti, formula standard. Ottantacinque mila persone ogni anno. A visitare i villaggi "etnici" sperduti nella foresta e fotografare le "donne giraffa", con i pesanti anelli di metallo intorno al collo. E se le comunità resistono, si assumono degli attori.
Così il mito del buon selvaggio diventa turismo di massa.

di Marco Cordero
da Chiang Mai

Qualche anno fa la polizia di frontiera thailandese arresta nei pressi di Mae Hong Song un imprenditore accusato di aver illegalmente "importato" dalla Birmania 32 donne di etnia Padaung, costringendole a esporsi in un vero e proprio "zoo umano" a uso dei turisti. Il fatto ha risonanza nazionale ma il processo si risolve con un'imputazione di second'ordine. Le donne chiamate a testimoniare dall'accusa in qualità di vittime non esprimono nei confronti del loro carceriere alcun risentimento. "Prima eravamo costrette a raccogliere riso 15 ore al giorno. Lavorando con i turisti non facevamo altro che star ferme ed era sufficiente sorridere alle loro macchine fotografiche e allungare la mano per ricevere una mancia".

Cartoline da Chiang Mai

D'altronde l'immagine delle donne Padaung è da più di trent'anni la cartolina del turismo etnico in Thailandia. Il governo e l'industria dei viaggi se ne servono come strumento di promozione in ragione della loro usanza di portare pesanti anelli di metallo intorno al collo per irrobustire vertebre e costole. E ancora oggi le "donne giraffa" attirano ogni anno nei loro villaggi decine di migliaia di visitatori, affascinati da una pratica tanto crudele quanto fotogenica.
La sorte degli altri gruppi etnici che abitano le colline del nord della Thailandia è stata in tutto e per tutto simile. Il flusso di turisti, che da venticinque anni a questa parte è in costante crescita (circa 85.000 visite l'anno), ha fatto irruzione nei villaggi Karen, Meo, Hakka, Lisu o Yao (per lo meno nei più raggiungibili) per farne un terreno esotico di avventura. Se prima erano pochi i viaggiatori che osavano addentrarsi nelle foreste delle colline, oggi un trekking è alla portata di tutti. Le agenzie turistiche di Chiang Mai (256 legalmente registrate lo scorso anno, per una città che supera appena i 100.000 abitanti) e di Chiang Rai si sono specializzate nel far fronte agli inconvenienti del tenore di vita dei "tribali" (ben al di sotto di ciò a cui un occidentale è abituato) e non fanno mancare niente al turista. E anche il cibo, insieme alle bevande, viene acquistato in città e cucinato dalla guida stessa. Il tribale sarà anche bello, ma diciamolo, è pure un po' sporco.

Nonostante lo sviluppo esponenziale dell'industria del turismo, la Tourism Authority of Thailand ha recentemente deciso di restringere i percorsi del trekking tribale a tre strade principali e ad alcune strade secondarie. La severità del provvedimento ha reso molto più difficile il lavoro delle guide, che hanno dovuto specializzarsi nell'evitare incontri tra i diversi gruppi di turisti (come potrebbero altrimenti le agenzie puntare "sull'esperienza unica dell'isolamento nella foresta"?). Ma ha almeno garantito il controllo dei fenomeni di degenerazione legati al turismo: l'aumento dei furti, l'inquinamento e la scomparsa di alcuni turisti nella foresta. In realtà, la delimitazione dei percorsi del trekking tribale è la logica conseguenza della consapevolezza che le etnie, in quanto "riserva umana" fragile, si contaminano spesso in seguito all'intrusione del turismo. E che è meglio fare un buon uso di una risorsa vulnerabile e soggetta a facile "degradazione".

A casa del buon selvaggio

Una delle strategie pubblicitarie su cui puntano le agenzie di viaggio è proprio l'accentuazione della primitività e dell'isolamento culturale di queste tribù. Secondo Renzo Garrone, autore di uno studio sul turismo tribale in Thailandia, "non sono certo state le tribù delle colline a pubblicizzare se stesse a fini turistici. L'immagine che i visitatori si fanno delle genti che andranno a visitare dipende essenzialmente dalle agenzie thai che abusano della retorica del buon selvaggio e della natura incontaminata". Durante i trekking ("tre giorni e due notti" la formula standard) la guida conduce i turisti attraverso i villaggi di diverse etnie e li costringe a rapidissime visite mordi e fuggi, che precludono qualsiasi forma di scambio con i locali. D'altronde, secondo Erik Cohen, un geografo che da trent'anni studia il fenomeno del turismo in Thailandia, durante l'escursione "l'interazione dei turisti con le popolazioni delle colline non viene incoraggiata, perché rischierebbe di rovinare la loro supposta integrità culturale e la loro utilità in termini di oggetti del paesaggio".
Un'integrità che è già in parte ricordo del passato. I turisti alla ricerca di un modo di vivere lontano dai beni di consumo della modernità, che rispecchi una scelta di semplicità e sobrietà, spesso tornano delusi da un'esperienza che li ha fatti entrare in contatto con un mondo "contaminato" da valori che si credono occidentali. "Speravo di scoprire popolazioni povere ma pure e invece ho incontrato solo persone che chiedevano soldi non appena entravano nel mirino della mia macchina fotografica", è il commento, che purtroppo non sorprende, di un turista israeliano.

Le briciole del business

Secondo Cohen, "i gruppi tribali hanno ormai imparato a recitare la loro parte. Sanno che tocca stare immobili di fronte ai flash, ma si dimostrano estremamente reattivi quando si tratta di chiedere un compenso".
D'altronde queste etnie non hanno alcuna voce in capitolo nella loro esposizione a un turismo che subiscono con rassegnazione. E tentano di guadagnare qualcosa da un business che li coinvolge solo indirettamente, in qualità di fenomeni da circo.
Gran parte dei guadagni di un pacchetto di trekking va infatti alla guida e all'agenzia. Il villaggio, che ospita gli escursionisti in una casa adibita per gli ospiti, spesso non ricava più di 20 bath (1000 lire) per turista. Per questo, accanto all'industria del turismo, proliferano attività più o meno parassitarie (vendita di manufatti artigianali, di oppio, elemosina) che garantiscono qualche ritorno in termini monetari. Come il farsi pagare per essere fotografati.
Eppure non sempre i villaggi tribali si adeguano senza riluttanza all'invasione del turismo. A volte ostentano una resistenza coraggiosa, rifiutando di mettere in vendita la loro cultura. "In alcuni villaggi i tribali sembravano totalmente indifferenti, se non addirittura ostili, alla nostra presenza", racconta una turista olandese, che non nasconde la sua delusione. Questa riluttanza è segno che molti non si rassegnano a chi li vuole costretti in una tradizione immobile, che serve solo a chi la vende. Rivendicano il diritto a cambiare, e vivono con fierezza la transizione a un diverso stile di vita che spesso viene reintegrato nella tradizione.

Il piacere della finzione

Per questo si assiste oggi a un graduale fenomeno di rimpiazzo da parte delle agenzie thai che comprano interi villaggi tribali (Ban Li Moi è solo uno tra i molti) e li popolano di attori, disposti a recitare la parte del perfetto natio tribale. Che non ha nulla da vendere (o comunque lo fa con la dovuta discrezione), non chiede l'elemosina e, soprattutto, sa improvvisare danze e canti. Il turista raramente si accorge della differenza (o perlomeno "fa finta di non accorgersene", secondo Cohen). Più spesso torna a casa soddisfatto di essere entrato in contatto con una parte di mondo lontana dalla modernizzazione, e vicina alla sua idea di buon selvaggio. Tutto diventa più semplice, il mondo cambia ma è meglio non farci troppo caso.

Per saperne di più

Renzo Garrone, Turismo responsabile, Edizioni Ram 1996 (si può richiedere all'associazione Ram, tel. 0185/773061)
Erik Cohen (disponibile solo in inglese), Thai Tourism: hill tribes, Islands and Open-ended prostitution, White Lotus Press, Bangkok 1996, pp.410, 30 dollari

Volontari per lo sviluppo - Agosto-Settembre 2001
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