di Silvia Pochettino
da Rio de Janeiro
A Tuiuti non c'è nessuna strada che arriva. O meglio, qualche anno fa il governo ne ha
costruita una, ma è quasi sempre sbarrata dai trafficanti di droga che preferiscono
controllare un territorio senza auto. Così ci si deve inerpicare a piedi per ripide scale
incuneate tra file di casupole stratificate a più piani, sempre in attesa di qualche mese
di lavoro precario per completare un tetto o comperare una porta.
Ovunque bambini vocianti e seminudi si fermano attenti al passare dei gringos,
cioè noi, rigorosamente accompagnati da una persona fidata della comunità, onde evitare
di trovarci di fronte i laranja, ragazzini di 12-15 anni col mitra spianato,
l'ultimo anello della catena del traffico, che controllano chiunque entra o esce.
Tuiuti è una delle 664 favelas che si avvinghiano ai colli di Rio de Janeiro, e lo
circondano in un'immensa periferia povera che conta oltre 10 milioni di abitanti.
Considerata una delle zone più pericolose, Tuiuti si trova quasi nel centro di Rio. Cidade
maravilhosa (città meravigliosa), come la chiamano loro, con le sue spiagge mitiche
e le baie interne, la foresta tropicale e la vista mozzafiato dal Pan di zucchero e dal
Corcovado. Una specie di sogno da manuale turistico, turbato però dagli agglomerati di
baracche fatiscenti che si alternano a macchia di leopardo alle ricche zone residenziali,
a grattacieli e shopping center. Colonizzati in modo abusivo a fine Ottocento dagli
schiavi liberati - e oggi dalle masse di disperati senza terra provenienti soprattutto dal
Nordest, la regione più povera del Brasile - i morros, le colline della città,
sono teatro della nascita incontrollata di nuove aggregazioni urbane, di città nella
città. Una situazione esplosiva: le favelas crescono 5 volte più velocemente della
città formale. E la Mata Atlantica, la foresta che si affaccia sull'oceano, una delle
bellezze naturali di Rio, perde 4 metri quadrati al giorno di quel 40% di vegetazione
originaria che ancora le resta, usurpata da baracche di cartone e legno, che nel tempo
diventano mattoni e cemento, fino ad assumere i contorni della favela.
Il Brasile è così. I contrasti tra miseria estrema e ricchezza sfacciata si colgono a
colpo d'occhio, le ingiustizie sono radicali, le lotte sociali evidenti. E anche questo,
forse, ne aumenta il fascino.
Ma su questi argomenti donna Regina non dice niente, lei è nata a Tuiuti, in favela,
cinquant'anni fa, e da allora non è quasi mai uscita - "ho visto Copacabana una
volta sola nella vita" - Un marito ciclicamente disoccupato e cinque figli a carico
(più una nipote), è riuscita nonostante tutto a costruirsi la sua casetta di mattoni,
rigorosamente abusiva, con allacciamenti ad acqua e luce abusivi e due tv in bella vista.
Una conquista sociale importante. Per questo donna Regina non lascerebbe mai la favela.
"Qui si sta bene, nessuno ti entra in casa per rubare, non si pagano tasse. È il mio
angolino, in cui sto tranquilla". È assurdo, ma è così: la favela è regno del
crimine, e della tranquillità. A Tuiuti non esiste legge, i cittadini "normali"
non entrano e neanche la polizia, se non per riscuotere la tangente che le versano
regolarmente i trafficanti. Eppure esiste una forma di legge ancora più stringente,
quella del narcotraffico. Giustizia, conflitti terrieri e familiari sono gestiti dai boss
locali. Nessuno si sognerebbe di rubare, o molestare una donna. Non esistono bambini
abbandonati, tutti hanno un riferimento, anche se non sono i genitori biologici. E la
solidarietà sociale è molto forte.
Donna Margherita ne è un esempio. Ha 73 anni ed è forse una delle più anziane abitanti
di Tuiuti. Da quando aveva 13 anni organizza pasti per i bimbi poveri della favela. Ma non
dà loro solo da mangiare, li fa giocare e, aiutata da alcune ragazze, li porta in gita
fuori dalla favela. "Quando andiamo in città - racconta - prendiamo il pullman, è
un gran divertimento. L'ultima volta avevo 96 bambini. Quando è così li chiamo con il
nome della madre, è più facile, perché ogni donna ha cinque o sei figli, anche otto,
così devo ricordarmi meno nomi". Adesso il governo ha aperto un asilo a Tuiuti, ma
fino a pochi anni fa non c'era niente e i bambini passavano la giornata in strada. Chi si
occupava veramente della loro educazione era donna Margherita, aiutata dalla chiesa e da
alcuni benefattori. Ci porta in cucina per mostrarci i cibi pronti per il giorno dopo;
riso con i tipici fagioli neri, farofa (farina di manioca) con verdure e carne.
Poi abbassa la voce: "una volta non era così - sussurra - non c'erano armi in
favela. Sì certo, ogni tanto volava qualche coltello nei litigi, ma armi no e neanche
droga". Ricorda i tempi felici in cui il boss era José, un "vero
gentiluomo". "Non ha mai fatto ammazzare nessuno, José; erano i suoi fratelli a
uccidere. Lui era gentile con tutti e manteneva l'ordine". Fu ucciso in un'imboscata
della polizia, che l'ha scambiato per il fratello, dice la leggenda. E "tutta la
favela ha pianto". Così oggi "ci sono questi ragazzini con i mitra in
mano".
L'età media dei trafficanti di droga non supera, in effetti, i 15 anni. Pochi arrivano
ai 30, molti muoiono prima. All'interno della favela sono forti e rispettati, ma fuori di
lì la loro vita non vale nulla. La ragazza che accetta la corte di un trafficante è uma
mulher que cheira de defunto (una donna che puzza di morto), se il suo uomo viene
ammazzato lei non potrà più tornare a una vita normale, dovrà passare a un altro
bandito. Probabilmente non le mancheranno mai cibo e benessere, ma ha già perso la sua
libertà. Regole di mafiosa memoria.
Ma la realtà di una favela è molto più complessa di quel che sembra.
"Non bisogna cedere allo stereotipo del mondo senza leggi, "far west" del
crimine, dove c'è una guerra infinita tra clan - sostiene padre Orazio Anselmi,
missionario della Consolata, che per ben 10 anni ha vissuto in favela - questo è il luogo
comune che trasmettono i mass media brasiliani, aumentando così la diffidenza e la
distanza abissale con i cittadini ricchi. In realtà la maggioranza dei favelados
sono persone che lavorano onestamente, spesso sfruttate e sottopagate dai signori della
città, e guadagnano quel poco che li fa vivere con sforzi ammirevoli". Donne di
servizio, muratori, carpentieri, tutti i mestieri umili sono svolti dai favelados,
pagati in nero o con il minimo del salario sociale (180 reais, circa 180 mila
lire al mese), licenziati senza preavviso in qualunque momento. E più si sale sulla
collina, più le zone sono scomode da raggiungere, più si trovano i poveri tra i poveri.
Come donna Enie, che dal 1978 vive in una baracca di cartone e lamiera con il marito e i
quattro figli. Non più di 6 metri quadrati, un letto singolo, un gas, uno scaffale e
l'immancabile tv. Due dormono sul letto e quattro per terra, a turno. L'acqua sta in un
bidone esterno collegato con un tubo abusivo ad altre tubature abusive. Il bagno non oso
chiederlo. Enie non è mai riuscita ad avere i materiali da costruzione, mattoni, cemento,
sabbia, che periodicamente il governo fornisce per "l'urbanizzazione" delle
favelas. Una politica recente, che ha sostituito la precedente tendenza alla semplice
"rimozione forzata". "Ma non si tratta di vera urbanizzazione - chiarisce
padre Orazio - piuttosto di una sistemazione temporanea, che in genere coincide con il
periodo elettorale".
La strana commistione di crimine e onestà quotidiana si ritrova nella vicina favela
della Mangueira dove la "boca de fumo", il centro di spaccio e fulcro di tutte
le attività criminali, si trova nella stessa piazza della cappella Nossa Senhora da
Glorìa e delle aule del catechismo. Fuori dalla stanzetta dove sono raccolti i bambini a
parlare di Gesù, impazza la vendita di coca ed erba. Sembra il mercato del pesce, i
venditori gridano le ultime offerte, sacchetti bianchi sparsi ovunque e molte facce
assenti di consumatori appena soddisfatti. Nessuna preoccupazione di nascondersi, la
favela è un ambiente protetto, intoccabile, entro i limiti controllati dai ragazzini
armati.
La Mangueira è forse la più famosa delle favelas carioca (termine con cui si chiamano
gli abitanti di Rio), divenuta simbolo del senso di appartenenza e dell'orgoglio dei favelados
soprattutto grazie alla sua scuola di samba, che ha vinto per molti anni il carnevale di
Rio.
Vincere un carnevale in Brasile (e soprattutto il carnevale di Rio) ha un significato
enorme. Il carnevale è il cuore della vita brasiliana, è arte, festa, riscatto sociale e
impresa economica. In quei giorni tutto si ferma e intorno alle caratteristiche sfilate di
carri allegorici, dedicati ogni anno a un tema diverso, girano migliaia di persone e
milioni di reais. Con una media di 4 mila ballerini alle sfilate, oltre 5 mila
tra decoratori, costumisti, meccanici, artigiani, e tecnici vari impiegati nell'indotto
del carnevale, le scuole di samba sono una vera industria, la più amata del Brasile. E
non solo questo. Spiega ancora padre Orazio: "Ballare il samba per il povero della
favela ha un significato in più: è coscientizzazione, conoscenza delle proprie origini
africane, delle ragioni profonde della propria miseria passata e presente". La scuola
di samba, in effetti, analizzando un tema diverso ogni anno (le prove vanno da settembre a
febbraio, ma già da giugno iniziano le selezioni del tema) come la schiavitù nera, gli
elementi della creazione, la magia, la pace, ecc., permette alla gente di imparare pezzi
di storia e di cultura, non sui banchi di scuola, ai quali ha ancora pochissimo accesso,
ma nell'allegria della festa e della danza. E la scuola della Mangueira ha fatto di più,
creando intorno al tempio del samba un progetto sociale di enormi proporzioni, segno
tangibile che il traffico di droga non è l'unica realtà della favela. Nato nel 1987 e
sviluppatosi con l'appoggio di diversi finanziatori stranieri, "Mangueira do
amanhã" (la Mangueira di domani) si presenta oggi come un complesso olimpico di 35
mila metri quadrati che offre ogni anno a 4.500 bambini e adolescenti uno spazio di
salute, piscina, palestre, campi da calcio e un Centro integrato di educazione popolare
con biblioteca e corsi di computer. Requisito per chi vuole usufruire delle strutture
sportive: andare a scuola, e presentare le ricevute delle tasse scolastiche.
La scuola di samba della Mangueira è stata visitata da personaggi famosi come Clinton,
Mandela, Cardoso, Pelé, nel centro olimpico sono cresciuti atleti come Luciana Paula
Mendes, arrivata 12ª negli 800 metri ad Atlanta, o Fabio de Abreu, che ha rappresentato
il Brasile nei 400 metri a ostacoli nelle ultime olimpiadi.
Non si può dire, dunque, che la povertà sia l'unica realtà della favela; fantasia, creatività e voglia di riscatto sono ugualmente presenti: "Questi poveri hanno nel Dna la grinta per la vita" dice padre Orazio. Eppure, entrare alla Mangueira fa paura. I soliti ragazzini con mitra e pistola sbarrano l'inizio del Burraco quente (il "buco caldo"), la via principale di entrata alla favela e centro di tutte le attività lecite e illecite della comunità. Mura crivellate di colpi testimoniano che "polizia e trafficanti si sparano solo quando non si mettono d'accordo sulla tangente". Intanto i bambini stanno uscendo dal catechismo, e calpestano il tappeto di sacchettini di coca vuoti che ricoprono la piazza. È come entrare in un mondo a parte, distante mille miglia dal centro di Rio, e dal resto del mondo. Come entrare in un film di Francis Coppola, senza essere troppo sicuri di uscirne.
Volontari per lo sviluppo -
Agosto-Settembre 2001
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