di Silvia Pochettino
Nel 1993 la British American Tobacco (Bat) festeggiava la crescita del 25% delle
proprie vendite attribuendo il successo alla "sostanziale crescita del mercato nel
sud est asiatico, i buoni profitti delle compagnie sudamericane e gli ottimi risultati
ottenuti in alcuni paesi africani". Un anno dopo su World Tobacco, giornale
della Philip Morris, compariva un articolo dal titolo "Rosee prospettive per i
mercati asiatici" che stabiliva un obiettivo preciso: "incrementare le vendite
in Asia del 35% entro l'anno 2000". Obiettivo, in realtà, ampiamente raggiunto e
superato. Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), infatti, il
consumo di sigarette nei paesi in via di sviluppo è aumentato di oltre il 70% negli
ultimi venticinque anni. E le morti correlate al fumo (per cancro al polmone, ischemia,
enfisema, bronchite cronica...) cresceranno dagli attuali 3 milioni a oltre 10 milioni
all'anno entro il 2025. Di queste, 7 su 10 saranno nei paesi in via di sviluppo.
In pratica: un disastro annunciato.
J. Longstaff Mackay, consulente dell'Oms per l'Asia, traccia un quadro devastante del prossimo futuro (in The fight against tobacco in developing countries Tuber Lung Dis feb. 1994): i paesi poveri non possono infatti permettersi un tale incremento di fumatori non solo in termini di danni alla salute, ma anche di costi economici, sociali e ambientali, come l'aumento delle spese sanitarie e la diminuzione della produttività. I lavoratori che fumano sono più soggetti a malattie temporanee o durature e molte delle patologie legate al fumo, come il cancro o l'enfisema, richiedono costose tecnologie per essere curate. Le spese mensili per l'acquisto di sigarette superano il 25% del salario medio della maggior parte dei paesi in via di sviluppo; soldi obbligatoriamente sottratti al cibo, alla cura dei figli o della casa. Per non parlare dei costi ambientali, primo fra tutti la deforestazione: nel mondo ogni anno sono sacrificati 2,5 milioni di ettari di foresta per produrre e seccare il tabacco. Nei paesi del Sud del mondo, in particolare, il tabacco è seccato ad aria calda, che richiede un acro di foresta per seccare un acro di tabacco. Così il Malawi ha già distrutto un terzo delle sue foreste, mentre la Tanzania abbatte il 12% dei suoi alberi ogni anno per la cura del tabacco.
Ma il forte espandersi della dipendenza dal fumo nei paesi in via di sviluppo non è casuale. È direttamente correlata alla stagnazione delle vendite in Europa e Nord America, dove le campagne contro il fumo stanno portando i loro effetti. In tutti i paesi industrializzati le vendite di sigarette sono calate nell'ultimo decennio; del 9% negli Usa e in Canada, del 6% in Australia, addirittura del 25% nel Regno Unito. Mentre, guarda caso, sono contemporaneamente salite alle stelle nei paesi del Sud (oltre il 42% in Africa). Dietro le statistiche: le aggressive campagne pubblicitarie delle multinazionali del tabacco che, di fronte ai divieti imposti dalle legislazioni occidentali e alla stagnazione del mercato, si sono lanciate ventre a terra alla conquista dei mercati "poveri". Usando tutti i mezzi proibiti nel Nord: spot televisivi, annunci su giornali, distribuzione gratuita di sigarette all'entrata delle discoteche o dei locali pubblici... Il tutto con un messaggio preciso: fumo uguale emancipazione. Messaggio particolarmente indirizzato alle donne, immenso bacino potenziale (nel 2025 le donne nei paesi in via di sviluppo saranno oltre 3,5 miliardi) e, naturalmente, ai giovani.
Ma le grandi transnazionali del tabacco non risparmiano neanche il ricatto politico per
penetrare nuovi mercati. Nel luglio dell'86 il senatore Usa Jesse Helms scriveva
espressamente al primo ministro giapponese riguardo "la stagnazione al 2% nelle
vendite delle sigarette americane sul mercato giapponese" e concludeva la lettera
così: "I suoi amici del Congresso avranno una possibilità di contenere l'ondata di
sentimento commerciale anti-giapponese se, e quando, daranno un esempio tangibile di
apertura ai prodotti americani. A tal riguardo insisto affinché riserviate alle sigarette
Usa una fetta del mercato giapponese. E mi ripropongo l'obiettivo di un aumento di almeno
il 20% delle vendite nei prossimi 18 mesi". Nel settembre '86 l'amministrazione Usa
preparava una lista di "rappresaglia" di tariffe penalizzanti i prodotti di
esportazione giapponesi. Nell'ottobre dello stesso anno il Giappone eliminava le tariffe
doganali sulle sigarette straniere.
Documentazione simile è stata raccolta da J. Longstaff Mackay per quanto riguarda la
Thailandia e la Cina. E chissà per quanti altri paesi di cui non si trova traccia. Certo
è che in queste condizioni nei paesi poveri le campagne di sensibilizzazione sui rischi
legati al fumo faticano a decollare, anche considerando le scarsissime risorse economiche
che possono essere dedicate a questo capitolo. Con il risultato, conclude l'Organizzazione
mondiale della sanità, che la diffusione del fumo nei prossimi decenni non farà altro
che approfondire ulteriormente il divario tra paesi ricchi e poveri.
Pubblicità occultaMa davvero la propaganda delle sigarette è vietata nel nostro paese? Formalmente sì. Di fatto, le multinazionali del tabacco hanno da tempo aggirato l'ostacolo trovando altre vie per pubblicizzarsi. Con la sponsorizzazione, ad esempio. Basta guardare le corse di Formula 1, tappezzate di marchi Marlboro, o le regate Merit, le barche a vela Kim, gli orologi Marlboro racing watch, e ancora le sfilate di moda Marlboro Classic. Una guerra di spot occulti, che passano, anche se indirettamente, il messaggio di sempre: il vero uomo, sportivo, elegante, vincente, è l'uomo che fuma. |
Volontari per lo sviluppo -
Marzo 2001
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