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Storie di medici sulle piste africane

Bisturi e fango

Operano in capanne di paglia. Praticano la "chirurgia essenziale", sconosciuta in Italia, e vogliono diffondere la professione nei villaggi più sperduti dell'Africa. Per salvare alcuni di quei 500 mila morti all'anno di "povertà estrema"". Non senza frustrazioni.

di Marco Bello

"Non fare il mio nome. Non vogliamo essere pubblicizzati, se no roviniamo un po' quello che facciamo". Con molta semplicità, il chirurgo che mi sta di fronte racconta: "Occorre una certa riservatezza. Condividiamo rischi, disagi e una porzione di sofferenza di alcuni uomini". Da pochi mesi in pensione, più di vent'anni fa l'Africa è entrata nella sua vita. Da dieci va regolarmente in Sudan e organizza per il Ccm (Comitato di collaborazione medica di Torino) missioni chirurgiche intensive nel sud del paese.
Si tratta di équipe mediche che intraprendono il lungo viaggio, fino a volare su un piccolo bimotore dalla frontiera con il Kenya, per raggiungere uno dei posti più sperduti dell'Africa. Staranno tre o quattro settimane negli ospedali di Billing, Rumbek o Aidor nella regione del Bahr el Ghazal. Qui tutto è essenziale: dalle capanne in cui si dorme alle strutture nelle quali si opera, tucul con le pareti di fango e il tetto di paglia foderato in teli di plastica. L'illuminazione è la torcia frontale da minatore, nel caso migliore una lampadina. Il gruppo di medici non solo opera a ritmi serrati per il poco tempo e il gran numero di casi (talvolta i pazienti hanno percorso 400 km a piedi per arrivare all'ospedale) ma cerca di formare personale locale. Organizza servizi di medicina comunitaria di base, per il controllo delle malattie più comuni come malaria e dissenteria.
"Si va in Africa con due valigie, una piena e l'altra vuota - continua - Nella prima ci sono le nostre conoscenze e la buona volontà. La seconda si riempirà di tante cose che impariamo. Questo non vuol dire che si parte per far "pratica" o soldi, oppure per evadere dalle nostre insoddisfazioni. È una scelta di servizio".
Il Ccm è un'ong molto discreta, che si fa poca pubblicità. I suoi progetti, in prevalenza di carattere sanitario, si trovano in Kenya, Sudan, Burundi, Etiopia e Uganda. Una trentina di persone (senza contare i gruppi di appoggio) dà impulso all'organismo, che offre ai volontari internazionali diverse possibilità di impegno. Da missioni brevi di chirurgia (come quelle in Sud Sudan) a progetti che durano qualche anno o anche molto di più.

Una scelta di coerenza

È il caso di Pino Bollini, medico esuberante di Merate, dallo scorso marzo al Catholic Hospital di Sololo in Kenya. Pino ha scelto di restare "senza particolari vincoli di tempo". Per capire bisogna guardare la sua storia. Sedici anni fa arrivava in Kenya con la moglie e due figli di 8 e 10 anni, per lavorare in un progetto di due anni e mezzo. Rientrato in Italia ha continuato a occuparsi d'Africa con missioni brevi. Ma non era più lo stesso. "Non farmi dire cose che non riesco a esprimere. Non è il mal d'Africa, è l'incapacità a stare in Italia" sostiene e si spiega: "Le ingiustizie ci sono qui come là. Di fronte a certi problemi, per esempio presentati alla televisione, puoi reagire in modi diversi: non puoi fare nulla, allora cambi canale; puoi dare mille lire, le dai; puoi fare di più: ti ci butti". Ed è quello che ha fatto lui, a due anni dalla pensione si è dimesso dal posto di responsabile del pronto soccorso di Merate, dopo 24 anni di servizio e ha cercato un'occasione. L'ha trovata a Sololo.
"Nell'ottica di restare per lungo tempo anche i problemi pensi di risolverli con un orizzonte diverso" pensa a sua moglie che non ha ancora potuto raggiungerlo in Kenya. Mi dice (in modo molto colorito) che Sololo è un posto difficile. Sperduto vicino al confine con l'Etiopia, c'è la siccità, c'è una guerriglia tra tribù che coinvolge i due paesi. Ti piace? "Se mi piacesse sarei masochista". E allora? "È una scelta di valori, la mia storia si consuma nel tentativo di coerenza".
La figlia maggiore, laureata, sta frequentando un master sulla cooperazione internazionale "Io non centro". Pino allarga le braccia. Il figlio è all'università. "Li ho messi in condizione di andare avanti, poi ho detto loro "Adesso faccio il medico povero"".
Il metodo che predilige è quello di "mettere l'uomo nelle condizioni di fare delle scelte, dargli il diritto a vivere e alla salute". Ascoltare, cercare di capire il problema. Per poi proporre diverse soluzioni, dando loro la libertà di scegliere. "Certo non vado a portare la mia civiltà - il medico si scalda, quasi si arrabbia - ma solidarietà, conoscenza e scambio reciproco". Non mancano le storie più incredibili. Come quando Pino fece partorire una donna in gravi condizioni su una pista di terra, in piena notte, tentando di raggiungere un ospedale. Alcuni giorni dopo, in una lettera, ricordava gli stati d'animo del momento: "I miei calcoli, anche i più ottimistici, sono saltati tutti. Non so rispondere. Forse prego; forse mi chiedo perché mi trovo in una simile situazione da incubo. Cosa ci faccio qui, di notte in mezzo al deserto?".

La chirurgia non è un lusso

La medicina nei paesi poveri è molto diversa e la chirurgia è ritenuta un lusso. Secondo il coordinatore delle missioni in Sudan questo non è vero: bisogna saperla adattare. Esiste una "chirurgia essenziale" per la quale, tenendo in conto alcuni accorgimenti, fortemente legati al posto in cui si interviene, in qualsiasi ambiente si salvano vite umane: "In Sud Sudan, eliminata la spora del tetano con un'autoclave all fuel (semplice sterelizzatore che funziona con qualsiasi combustibile, ndr.), si può operare anche tra pareti di fango, infatti i microbi non sono resistenti come quelli dei nostri ospedali". Sono 500 mila all'anno nel mondo a morire per cause legate alla maternità. Casi spesso risolvibili con la chirurgia essenziale. Il nostro chirurgo va oltre. "Bisogna insegnare queste tecniche anche nei posti più periferici, la formazione è fondamentale. L'obiettivo è che si diffonda la professione e si ottenga un certo livello di autogestione". Per questo lui, quando è in Italia, fa esperienze in altri campi della chirurgia, per ampliare la sua preparazione e poterla poi trasmettere.
Gli ultimi dieci anni di Sudan danno ragione alla sua tesi. Racconta di Abel, un giovane dinka di Rumbek, che dopo nove mesi di scuola come aiuto infermiere ha sviluppato un'abilità chirurgica manuale e di percezione da "fuori classe". O ancora Philip, che è stato formato per la preparazione del malato e degli strumenti, rivelando gran delicatezza e finezza. "Sono questi soggetti che ti fanno capire che ci sono possibilità di raccogliere dei frutti. Un'enorme volontà di imparare, anche per cercare una dignità personale".
Il nostro interlocutore ha invece difficoltà a spiegare queste cose alle persone e ai colleghi in Italia "La medicina dei ricchi e quella dei poveri, come i due mondi, sono così lontane che non si parlano". Nonostante questo è riuscito a coinvolgere una quindicina di medici, oggi volontari che si avvicendano nelle missioni di chirurgia intensiva.

Nessun tempo di adattamento

Dario Andreone, chirurgo di Torino, dal '96 impegna le sue vacanze (e a volte i suoi soldi), in queste missioni. Sulla quarantina, con il sorriso furbesco e la battuta pronta, Dario ricorda un avventuriero d'altri tempi. "Per fare queste esperienze occorre un cocktail di altruismo, egoismo, follia e incoscienza. Ci vuole spirito di adattamento e una discreta conoscenza di sé, per mantenere un certo equilibrio in situazioni a rischio che si possono sempre verificare". Serve anche una dose di coraggio per lasciare il nostro mondo e tuffarsi in una realtà totalmente diversa, molto spesso ignota. Egoismo? "Si, perché in parte cerchiamo anche una gratificazione".
Fare missioni brevi ha inoltre la difficoltà di non poter contare sui tempi di adattamento, sia all'andata sia al ritorno, quando appena tornati magari ci si deve buttare in una sala operatoria. "Andando in Africa senti la differenza, poco a poco molli le difese e ti avvicini di più al rapporto con l'essere umano. Ci sono grosse difficoltà linguistiche ma scopri che aumenta la possibilità di comunicazione. Riesci a lavorare con calma, tranquillità, anche se in condizioni disagiate" racconta Dario. Nonostante il poco tempo (tre, quattro settimane) e la gran quantità di lavoro concentrato, si costruiscono legami. "Ripartendo ti porti dietro i rapporti affettivi nuovi e quelli che hai ritrovato. Ti resta dentro la condivisione di gioia, diffidenza, gerarchia e lotta per la sopravvivenza". Adesso Dario ha gli occhi sbarrati, come se guardasse qualcuno che nella stanza non c'è.
C'è anche un lato frustrante. Non sempre le persone su cui si investe danno i risultati sperati: "A volte, anche dopo mesi di insegnamento, quando partiamo loro si adagiano. Tanto sanno che noi torneremo con un'altra missione. Allora preferiscono aspettarci".
Andando ad operare in condizioni così diverse, alcune patologie si curano con metodi ormai sorpassati in Europa. Questo perché si tratta di tecniche più riproducibili dai medici locali e in ogni caso efficaci. Sembra quindi che per la professione non sia un arricchimento. Non la pensa così Andreone che ha cambiato il suo rapporto con i pazienti: "L'Africa è un grosso insegnamento di vita, professionale e umana. Ti aiuta a raccontarti al paziente. In Italia siamo distratti da molte variabili. La semplicità e la genuinità di queste persone permettono un dialogo più schietto e viene fuori questa caratteristica umana primitiva".
Contatti, scambi che marcano e che diventano parte di te. Come alcuni episodi che ci affollano la mente: "Avevo operato di gozzo nove ragazze nuba, che aspettavano un chirurgo da quattro mesi. Il pomeriggio della partenza sono andato a controllare i punti e a salutarle. Non riuscivamo a parlarci, perché non c'era possibilità di capirsi, ma abbiamo scherzato. Stavo andando via, avevo già lo zaino in spalla, quando una di loro ha intonato un canto, quasi un lamento. Le altre l'hanno seguita come in una corale. Mi sono girato e sono rimasto paralizzato. Volevo piangere ma non riuscivo, anche il pianto era paralizzato. Un ringraziamento stupendo."

Alcuni corsi per cominciare

Corso di perfezionamento "Medicina tropicale e salute internazionale"
Università degli studi di Brescia - Facoltà di Medicina e Chirurgia
Via Valsabbina 19 - 25124 Brescia
Tel. 030/394467, fax 030/303061
Internet: http://www.med.unibs.it/didattica/perfez/maltrop.html

Corso di aggiornamento in "Malattie tropicali"
Informazioni presso Medicus Mundi Italia (vedi oltre)

Chi invia medici in Africa

Ccm - Comitato di Collaborazione Medica
Corso Giovanni Lanza, 100 - 10133 Torino
Tel. 011/6602793, fax 011/3839455, e-mail: cmedica@arpnet.it

Cuamm - Collegio Universitario Aspiranti e Medici Missionari
Via S. Francesco, 126 - 35121 Padova
Tel. 049/8751279, fax 049/8754738, e-mail: cuamm@windnet.it

Aifo - Associazione italiana amici di Raoul Follerau
Via Borselli, 4/6 - 40135 Bologna
Tel. 051/433402, fax 051/434046, e-mail: aifo@iperbole.bologna.it

Cvm - Centro volontari marchigiani
Piazza Santa Maria, 4 - 60121 Ancona
Tel. 071/202074, fax 073/4903323, e-mail: cvm@popcsi.unian.it

Mmi - Medicus Mundi Italia
Via Marinengo da Barco, 6/a - 25121 Brescia
Tel. 030/3752517, fax 030/43266, e-mail: medicusmundi@numerica.it

Intersos
Via Nizza, 154 - 00198 Roma
Tel. 06/4466710, fax 06/4469290, e-mail: intersos@tin.it

Volontari per lo sviluppo - Marzo 2001
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