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Minoranze etniche nella ex Jugoslavia

La riscossa degli italiani

In tutto sono 30.000, disseminati tra Slovenia e Croazia. Emarginati fino a pochi anni fa, oggi i nostri connazionali che vivono nella ex repubblica sono cittadini a tutti gli effetti.

di Alessandro Marzo Magno

Aveva il sorriso sulle labbra Furio Radin, una volta appresi i risultati delle elezioni parlamentari croate, il 3 gennaio scorso. Lo psicologo di Pola (Pula) sorrideva non solo perché l'Hdz, il partito ultranazionalista del neodefunto Franjo,Tudjman, era stato sonoramente sconfitto - sconfitta poi ripetuta il 24 gennaio alle presidenziali - non solo perché i regionalisti della Dieta democratica istriana avevano fatto di nuovo il pieno dei voti nella penisola (unica regione della Croazia a non aver mai votato per Tudjman e i suoi), non solo perché era stato riconfermato nel suo seggio al parlamento di Zagabria (Zagreb) con il 79 per cento di preferenze, ma anche perché finalmente la minoranza italiana in Croazia, cui Radin appartiene e che rappresenta nel seggio parlamentare specifico, vede la fine di epoca di vessazioni e maltrattamenti.

Gli italiani nell'ex Jugoslavia sono circa 30.000. Di questi, 3.000 si trovano nell'Istria slovena dove godono di un trattamento legislativo del tutto assimilato agli standard che l'Unione Europea pretende per le minoranze etnico-linguistiche. Gli altri 27.000 vivono in Croazia, soprattutto in Istria e - 5.000 - a Fiume (Rijeka). In Dalmazia ne sono rimasti pochissimi. Per tutti valga il caso di Spalato (Split), dove la comunità degli italiani assomma una ventina di persone, tutte anziane, e quindi è destinata a scomparire tra non molti anni. Esistono, poi, altri minuscoli gruppi di italiani che, a differenza di quelli insediati sulla costa, hanno pesantemente patito le conseguenze del conflitto che ha sconvolto l'ex Jugoslavia. In Slavonia, nella zona di Pakrac, c'è per esempio una comunità di un paio di migliaia di persone che discendono da un gruppo di bellunesi portati laggiù ai tempi di Maria Teresa. Parlano un veneto che neanche i veneti sono quasi in grado di capire e vivono a Pakrac, Lipik e Campo del Capitano, paesino, quest'ultimo, che non ha nemmeno mai avuto un nome croato. Durante la guerra, il fronte passava da queste parti e una delle prime vittime della zona si chiamava Bepi Straga. In Bosnia, nella parte che ora forma l'entità serba, non lontano da Banja Luka, c'è un gruppo di italiani di origine trentina. I loro antenati arrivarono, per la precisione, dalla Valsugana, anch'essi per volere di Maria Teresa.

Nazionalismi pericolosi

Di questi trentini non si è saputo nulla per parecchi anni e sono emersi dalle tenebre della guerra solo dopo la pace di Dayton e la fine del conflitto in Bosnia.

Ma torniamo all'Istria e alla Dalmazia. Terre tradizionalmente miste, per secoli latini e slavi vi convissero fianco a fianco e in armonia. Gli insediamenti italiani erano soprattutto costieri e cittadini, gli sloveni e i croati abitavano prevalentemente in campagna e nell'entroterra. Per circa sei secoli Istria e Dalmazia fecero parte della Repubblica di Venezia. La Serenissima, nella sua storia, non ebbe mai nei propri confini conflitti dettati da motivi etnici o religiosi, e Istria e Dalmazia non fecero eccezione. Dal 1797 al 1918 questi territori entrarono nei domini asburgici. Ma nel multietnico Impero austroungarico si svilupparono i nazionalismi che minarono la convivenza anche sulle sponde dell'Adriatico. Secondo il censimento austriaco del 1910, la popolazione totale dell'Istria era per circa il 60 per cento slava - o slovena o croata - ma nelle città gli abitanti erano compattamente italiani. Basti pensare che Pola era la città più italiana (85 per cento) della Venezia Giulia, più di Trieste (poco sopra l'80 per cento) e molto più di Fiume e Gorizia, dove gli italiani superavano di poco il 60 per cento.

Le grandi cesure avvennero prima con la politica della snazionalizzazione attuata dal fascismo, e poi con le persecuzioni anti-italiane perpetrate dagli jugoslavi titini che provocarono la tragedia dell'esodo. Dal 1945 al 1947 (anni della firma del trattato di pace) e poi ancora nel 1954 (quando la zona B passò formalmente sotto l'amministrazione jugoslava - il confine divenne definitivo solo nel 1975) se ne andarono da Istria, Fiume e Dalmazia in centinaia di migliaia: 350.000, secondo gli esuli, 250.000 secondo fonti storiche degne di credibilità. In ogni caso, gli effetti furono devastanti: intere città svuotate. Capodistria, Pola, Parenzo (Porec), Rovigno (Rovinij) si ridussero a gusci vuoti, ripopolati da volontari fatti affluire dalle più povere repubbliche meridionali. Ancora oggi gli effetti dell'esodo sono evidenti. Non tanto sulla costa (seppure nel centro storico di Pola vi siano numerose abitazioni vuote e diroccate), ma nell'interno, dove cittadine e paesi di struggente bellezza non sono mai stati ripopolati: Montona (Motovun), Grisignana (Groznjan), Portole (Oprtalj), Dignano (Vodnjan) portano ancora chiari i segni dell'esodo.

Che se ne andassero, o che restassero, gli istriani ebbero vita grama. Forse quelli che se la cavarono meglio furono i più coraggiosi, quelli che partirono per l'Australia o per il Canada. In Italia furono spesso accolti a insulti e sputi, e bollati come fascisti. I pochi che rimasero erano considerati fascisti, in quanto italiani, dagli jugoslavi, e comunisti, in quanto rimasti in Jugoslavia, dagli italiani.

Ha vinto la tolleranza

Cinquant'anni più tardi gli italiani di Croazia si sarebbero trovati cucite addosso analoghe, scomode etichette. Quando, nell'agosto 1995, i croati si gettarono nell'operazione Çoluja (Tempesta) che portò alla riconquista della Kraijna, nel suo discorso alla nazione, il presidente Franjo Tudjman si scagliò contro il secessionismo serbo e l'irredentismo italiano, così, tanto per gradire. Gli episodi di discriminazione contro gli italiani si sono susseguiti. Alcuni erano comici: il blocco dell'importazione della pasta Zara (revanscista, oggi la città si chiama Zadar), lo stop alla sponsorizzazione della squadra di basket zaratina da parte della Diadora (era il nome della società sportiva della Zara italiana), l'affermazione fatta da Tudjman durante una visita di Stato in Cina che Marco Polo, la cui famiglia era originaria di Curzola (Korcula), altri non era se non il croato Marko Pilic. Su altri, invece, c'era poco da ridere: i tagli dei fondi, la rimozione della targa in italiano dalla sede della Regione Istria, il filtro etnico alle scuole. Molti istriani di etnia croata, infatti, iscrivevano i propri figli alle scuole della minoranza italiana affinché questi imparassero senza sforzo, e bene, la lingua italiana. Tutto ciò, però, appariva poco patriottico ai nazionalisti del governo di Zagabria, che imposero una legge secondo cui solo chi aveva almeno un genitore italiano poteva iscriversi alle scuole italiane. Questo anche con il mal celato fine di far chiudere le scuole per insufficiente numero di allievi. Ora tutto ciò è finito. Il modello di convivenza e di tolleranza, che l'Istria è riuscita a far sopravvivere anche negli anni bui del comunismo titino e del nazionalismo tudjmaniano, alla fine ha vinto.

Volontari per lo sviluppo - Marzo 2000
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