di Massimo A. Alberizzi
(opinionista e redattore degli esteri del Corriere della Sera)
Il 1998 si era aperto carico di speranze per l'Africa. Si è chiuso, viceversa, con
feroci delusioni. Il numero di guerre invece di diminuire è cresciuto e sono esplose
anche quelle aree che davano maggiori garanzie di stabilità. È il caso del conflitto tra
Etiopia e Eritrea che ha sorpreso tutti. Si pensava che il presidente eritreo, Isayas
Afeworki, e il primo ministro etiopico, Melles Zenawi, (tra i più illuminati e apprezzati
nuovi leader del continente) riuscissero a discutere e comporre le loro divergenze attorno
a un tavolo; invece hanno messo mano alle armi.
Quella tra Etiopia e Eritrea è la prima vera guerra moderna scoppiata in Africa. Per il
resto i conflitti nel continente sono ancora "tradizionali" (guerriglie e
ribellioni) e mostrano il limite dell'organizzazione statale imposta all'Africa al momento
della decolonizzazione. Nel 1960 il Congo K (ex Zaire, K sta per Kinshasa, la capitale e
si usa per distinguerlo dal Congo-B, Brazzaville) è stato il primo Paese ad esplodere.
Quella lezione pare non sia servita a nessuno. Il secolo (e il millennio) si chiude sempre
con il Congo in primo piano, dilaniato da una feroce guerra civile. E c'è ancora chi si
scandalizza se si parla di spartizione del Paese. Il punto focale dei conflitti africani
va ricercato nella costituzione stessa degli Stati del continente - fondati su
conglomerati disomogenei di etnie - all'interno dei quali non esiste un concetto di
nazione, ma quello di appartenenza clanica e tribale. In Europa gli Stati sono stati
ritagliati, più o meno, sulle nazioni. La loro popolazione, in altri termini, è tenuta
insieme dalla stessa lingua, dagli stessi costumi, dalla stessa cultura. In Africa tutto
ciò non esiste: il collante tra le varie tribù avrebbe dovuto essere lo sfruttamento
comune delle risorse, con una spartizione equa, intelligente e razionale. Invece tutti
sappiamo com'è andata a finire. Gli immensi tesori sono stati accaparrati dalle mani
avide di piccole comunità, di singoli clan, talvolta addirittura di un cerchio ristretto
di famiglie. Le maggioranze sono state lasciate in condizioni di sottosviluppo e povertà.
Il prestigioso periodico Africa Confidential, che forse per primo ha invitato a ripensare
l'organizzazione statuale in Africa, critica l'ostinazione a difendere il dogma
dell'intangibilità delle frontiere. Anche se tutti credono (o fanno finta di credere) che
gli stati esistano ancora, in realtà in molti casi sono scomparsi come tali. In Congo-K,
per esempio, il regime di Kabila governa nella parte occidentale; la guerriglia esercita
la piena sovranità sulle province orientali: la sua dirigenza firma contratti di compra
vendita, riscuote tasse, assegna concessioni minerarie, concede visti. Insomma, si
comporta come un vero Stato. Analoga la situazione in Angola e in Sierra Leone.
Il fatto poi che il continente sia ricchissimo aggrava la situazione. L'immenso tesoro
africano fa gola a troppa gente: ai paesi occidentali, alle multinazionali, alle grandi
centrali del crimine... "I popoli dell'Africa sono come un mendicante seduto su una
montagna d'oro", ha scritto tempo fa lo svizzero Jean Ziegler, studioso delle
plutocrazie africane. Per quarant'anni l'immenso tesoro del continente nero è stato visto
come la causa prima (e spesso unica) delle guerre e dei conflitti. Ma gli Stati disegnati
come sono ora hanno favorito cupidigie e avidità, e di questo pochi si sono resi conto.
Satrapi e tiranni (ma non solo, anche le mafie internazionali) hanno bisogno di confini.
Quello che si richiede oggi è una profonda riflessione sull'articolo 1 dell'atto
costitutivo dell'Organizzazione dell'Unità Africana che recita più o meno così:
"Le frontiere coloniali sono inviolabili".
Volontari per lo sviluppo -
Marzo 1999
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