di Silvia Pochettino
"Ci hanno minacciate di morte, abbiamo dovuto abbandonare la nostra casa, sono stati giorni terribili, ma non ci siamo arrese". Capelli nerissimi e look decisamente occidentale, Sabrina Ouared è figlia di una delle più note leader del movimento delle donne in Algeria. "Essere minacciate è comune a tante donne in Algeria - minimizza - è sufficiente lavorare fuori casa per diventare bersaglio degli integralisti." Sabrina, 30 anni ben portati, è attivista da anni nell'associazione "Defence et promotion des droits des femmes" di cui sua madre è fondatrice. "La situazione delle donne algerine è peggiorata in modo drammatico dagli anni '80 a oggi" sostiene.
L'associazione è nata nel 1989 (anno in cui in Algeria è diventato possibile fondare delle associazioni, cosa che prima era illegale) con un obiettivo preciso: emendare alcuni articoli del codice della famiglia, che relegano la donna algerina in uno stato netto di inferiorità. Il codice, entrato in vigore nell'84 come vera e propria legge dello stato, prevede ad esempio che la donna non possa sposarsi senza il consenso del padre o di un tutore, che il marito abbia il potere di ripudiarla e mantenere l'alloggio coniugale, che la donna possa essere buttata fuori con i figli di cui ha la custodia ma non la tutela. "L'applicazione del codice ha significato tornare indietro di secoli per noi" si scalda Sabrina "dopo la guerra per l'indipendenza negli anni '60 le donne, che avevano combattuto a fianco degli uomini come loro pari, si erano emancipate, alcune avevano anche raggiunto posti di lavoro prestigiosi come avvocati, magistrati o insegnanti. Oggi si trovano senza alcun potere tra le mura domestiche, trattate come dei minori."
Così è iniziata la lotta di Sabrina. Una lotta sotterranea, molto pericolosa. Secondo
gli integralisti, infatti, gli articoli del codice sono tratti direttamente dal Corano e
sono quindi intoccabili, sacri. Chiedere di cambiarli vuol dire bestemmiare i testi sacri,
essere non credenti, e dunque meritare la morte. Così è stato per la presidentessa di
un'altra associazione femminile ("Crie de femme") che è stata assassinata
l'anno scorso a Tizi Ouzou, in Kabilia.
Come avere il coraggio di continuare in questa situazione? "L'unico modo per
proteggerci è non parlare troppo dell'attività che facciamo, lavorare nel sommerso. Non
ci è mai stato possibile fare incontri pubblici perché la gente ha paura, così abbiamo
puntato soprattutto sui rapporti personali, ognuna ha preso una lista ed è andata tra i
suoi amici per farla firmare. Un lavoro capillare, di casa in casa. Le nostre famiglie
sanno che facciamo questo, ma anche con loro non ne parliamo mai."
Eppure il lavoro non è rimasto sotterraneo ma ha addirittura travalicato il mare
arrivando anche in Italia dove l'8 marzo scorso è stata lanciata una campagna per la
raccolta di un milione di firme per l'abolizione del codice (vedi Volontari per lo
sviluppo giugno-luglio '97).
Ma da quell'obiettivo si è ancora lontani: "Sul fronte politico i risultati sono
ancora deludenti, nell'ultima assemblea nazionale è stato ripreso in esame il codice
della famiglia, ma sono stati cambiati solo alcuni termini, una pura operazione di
facciata." Visto i rapporti di forza nettamente favorevoli alle forze conservatrici
(non solo islamiche) in parlamento e la grave situazione in cui versa il paese, nessun
governo si arrischierebbe ad aprire un nuovo fronte di conflitto, men che meno sul
problema dei diritti delle donne che viene visto, nonostante tutto, come una questione
secondaria.
"Con il lavoro sul codice della famiglia ci siamo rese conto che la maggior parte
delle donne ignorava totalmente i propri diritti. Molte donne sono analfabete. E solo al
momento in cui hanno un problema con il marito scoprono l'esistenza di queste leggi
discriminatorie."
Oggi "Defence et promotion des droits des femmes" ha anche una sede (rimasta
per molto tempo impraticabile) e offre per due giorni alla settimana un servizio di
consulenza giuridica e psicologica alle donne. Ci sono avvocati e psicologhe che seguono
gratuitamente soprattutto le vittime del terrorismo, anche andando direttamente nei
villaggi là dove sono avvenuti i massacri.
"È importante non lasciare sole le donne e i bambini che hanno perso i propri cari o
che hanno assistito alle stragi. Là dove possiamo portiamo aiuti di prima emergenza,
vestiti, cibo, coperte. In alcuni villaggi abbiamo avviato piccole attività economiche,
soprattutto con le donne vedove; ad esempio abbiamo fornito macchine da cucire per piccole
cooperative di cucito. È fondamentale infatti che le donne possano procurarsi un reddito
per mantenere la famiglia. Tra loro ci sono anche molte "patriote"".
Quest'ultime sono donne che hanno imbracciato le armi contro gli integralisti, costituendo
i "gruppi di autodifesa" (istituzionalizzati con un decreto all'inizio del '97)
e che oggi contano oltre 100 mila unità nel paese.
Negli ultimi anni, infatti, la guerra civile si è allargata a macchia d'olio: dopo le
atrocità dei Gruppi islamici armati (Gia) i servizi segreti dell'esercito, si sono
lanciati in una strategia del terrore, finalizzata a mettere in ginocchio il Fis (Fronte
islamico di salvezza) e ad imporgli le proprie condizioni nell'ipotesi di un negoziato.
Membri delle unità speciali, col volto coperto, arrestano delle persone e le fanno
sparire, senza che le famiglie sappiano mai a quali strutture dell'esercito appartengono i
responsabili di queste azioni.
Come sostiene Lahouari Addi, sociologo algerino di fama internazionale, il potere statale in Algeria è ormai decisamente in mano all'esercito. Il governo non è che un suo emissario. A trentasei anni dall'indipendenza i veri padroni del paese continuano ad essere i militari. E le violenze non si possono ricondurre a un semplice scontro islam-democratici, come molti vorrebbero far credere, ma a un più complesso gioco di potere in cui sono negate le più elementari regole della democrazia (tra cui prima fra tutte la libertà di stampa).
Ma si può vivere sempre nel terrore? "Se veniste in Algeria avreste delle
sorprese. - riprende Sabrina - Tutto sembra calmo, la gente va a lavorare, si diverte la
sera, sembra solo di aver fatto un brutto sogno la notte. Non si può dire che si ignorino
i massacri che continuano ad avvenire, ma si fa finta che non esistano. Forse è un modo
di "resistere", non cedere alla paura. Vorrebbero che non lavorassimo più, che
non uscissimo più di casa; ma il nostro modo di lottare è continuare a condurre una vita
normale."
Così le donne dell'associazione hanno anche preparato uno spettacolo teatrale: si chiama
"Le butan" (il bottino) dall'usanza dei terroristi di portare via delle donne
come bottino di guerra là dove compiono un massacro. Uno spettacolo drammatico e
toccante, scritto da una donna la cui famiglia è stata decimata nelle stragi. Lo hanno
presentato ad Algeri per l'8 marzo scorso, con la sala strapiena dove c'erano quasi più
uomini che donne.
Sabrina sorride: "Un bel successo per noi".
Volontari per lo sviluppo -
Novembre 1998
© ASPEm - CCM - CISV - CELIM - CMSR - MLAL