di Riccardo Moro
(Economista, consulente di Volontari nel mondo-Focsiv)
Tutti coloro che si sono occupati del debito estero del Terzo mondo, o che lo hanno
subito, sanno molto bene che questo problema strozza da quasi vent'anni le possibilità di
sviluppo della maggior parte dei paesi poveri del pianeta. Il debito non è solo una
cifra, una questione finanziaria, ma ha il volto dei bambini a cui è negato il diritto di
andare a scuola, dei giovani senza lavoro, di interi popoli costretti alla fame. Oggi con
forza si alza la voce di chi vive accanto a questi popoli e, cogliendo l'occasione
dell'appello del Papa, chiede una soluzione della questione entro l'anno 2000, anno del
Giubileo biblico.
Ma le ragioni di questa richiesta non sono tutte concordi, ci sono almeno tre tipi diversi
di impostazione.
C'è chi parte da una considerazione egoistica. I paesi indebitati partecipano in forma scarsissima al commercio mondiale. Liberarli dal peso del debito consentirebbe loro di destinare a investimenti produttivi le risorse oggi usate per la restituzione e il pagamento degli interessi. Un rilancio della produzione darebbe nuova possibilità di accedere con vitalità al commercio mondiale ottenendo come risultato una maggiore domanda anche dei beni venduti dal Nord. In sostanza cancellare il debito comporta vantaggi non solo per i debitori, ma anche per i creditori, e vantaggi duraturi.
C'è chi, invece, sostiene che si tratta prima di tutto di una questione morale. Le
condizioni di povertà in cui versano molti paesi indebitati è scandalosa. I creditori
ricchi non possono rimanere impassibili vedendo il tipo di vita condotto dai debitori e
continuare a ricevere da questi il pagamento degli interessi. Qualunque coscienza
eticamente sensibile non può rimanere indifferente. Questa leva, quella morale, clamorosa
nella sua evidenza, è quella che ha consentito di arrivare oggi a parlare di
cancellazione del debito, sia pure parziale, anche negli ambienti delle istituzioni
finanziarie internazionali come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.
Ma vi è una terza considerazione che sostiene le ragioni della sanatoria, ed è una
considerazione che fa leva sulla giustizia piuttosto che sulla solidarietà. Sostiene, in
sintesi, che non si tratta di "condonare" il debito dei paesi poveri perché
questo, in realtà, è già stato pagato. È la posizione meno dibattuta, ma che contiene,
a mio avviso, la maggiore forza.
L'indebitamento dei paesi poveri nasce con l'acuto rialzo dei prezzi del petrolio avvenuto negli anni settanta. Dopo il primo schok petrolifero, nel '73, i paesi produttori di petrolio, avendo quintuplicato i prezzi, riversarono un'ingente massa di denaro nelle banche dei paesi ricchi. Queste, spinte dall'esigenza di far fruttare il capitale, fecero a gara nel concedere prestiti ai paesi del Terzo mondo, a tassi di interesse bassissimi. Ma il secondo schok fu accolto dalle politiche neoliberiste di Ronald Reagan (e di Margaret Tatcher in Gran Bretagna), che fecero impennare i tassi di interesse e aumentare incredibilmente il valore del dollaro. Fra il 1978 e il 1982 la valuta americana ha accresciuto il proprio valore da due a quattro volte rispetto a tutte le monete del Nord (in Italia il dollaro è passato da circa 500 lire a 2.200). Rispetto alle valute dei paesi in via di sviluppo l'aumento è stato ancora più sensibile.
Così, se l'aumento dei tassi di interesse aveva reso il servizio del debito
particolarmente oneroso, l'impennata del dollaro (poiché tutti i prestiti ricevuti erano
stati sottoscritti in valuta americana) lo fece diventare insostenibile. Ad esempio per
pagare un debito di 1000 dollari all'inizio del periodo occorrevano circa 500.000 lire, ma
dopo l'apprezzamento erano necessari oltre due milioni! I paesi debitori si sono trovati
così a dover restituire, a fronte della stessa quantità di dollari, un ammontare in
valuta locale drasticamente aumentato, moltiplicato in scala geometrica. Si è verificato
insomma un fenomeno, provocato volutamente dalle scelte politiche americane, che ha
penalizzato gravemente i debitori e avvantaggiato i creditori.
Se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite utilizzando come unità di misura
non il dollaro, ma un paniere di monete, che tenga conto delle variazioni di valore anche
delle monete locali dei paesi poveri, si ottiene che per quasi tutti i paesi il debito è
stato già restituito completamente e in qualche caso anche più volte.
Tutte tre le considerazioni esposte qui in breve non sono necessariamente in alternativa, ma anzi per molti aspetti complementari; tutte tre dimostrano chiaramente la necessità di una cancellazione del debito internazionale. Ma è la terza quella che guarda con più autenticità alle donne e agli uomini del Sud e fa chiedere con maggiore autorevolezza di sanare la contabilità del debito. Non si tratta infatti di essere magnanimi, ma di correggere le distorsioni di una contabilità perversa che usa sempre l'unità di misura del Nord e mai quella del Sud. La questione riguarda la giustizia, prima della solidarietà. Il debito non va cancellato perché c'è un debitore che non sa essere autosufficiente, ha fame e tende la mano. Le scritture del debito vanno stornate perché il debitore, con dignità, ha già pagato.
La polemica - Dal Governo italiano a una banca svizzera 1400 miliardi di creditiHanno "svenduto" il terzo mondo?Nel mese di ottobre ha avuto una corta risonanza sulla stampa nazionale (Avvenire,
Corriere della Sera, La Stampa, ecc..) la denuncia fatta dai missionari italiani della
vendita da parte dei governo italiano di quote di debito estero dei paesi in via di
sviluppo sul mercato finanziario internazionale. Non sono mancate, però, considerazioni
imprecise che rischiano di far male intendere quali sono i veri problemi da affrontare.
Che cosa è accaduto esattamente? Verso la fine dell'anno scorso il Ministero del Tesoro
ha venduto 1400 miliardi di crediti della SACE (la Società Assicurazioni per il Credito
all'Esportazione) sul mercato finanziario internazionale. Una banca d'affari straniera, la
Swiss Bank Corporation Warburg di Londra, ha acquistato il credito pagandolo circa l'80%
dei suo valore nominale. L'operazione è legittima; l'interesse del governo italiano
chiaramente era quello di avere un incasso immediato a fronte di crediti che sarebbero
stati incassati solo successivamente. Si è gridato allo scandalo dicendo che il governo
italiano aveva venduto, pur di realizzare, il debito di paesi poveri. Si è detto che le
banche d'affari nel chiedere la restituzione dei debito sono più determinate e rigorose
di un governo e non tengono conto di esigenze di sviluppo, ma anzi puntano alla
spoliazione dei pochi beni dei debitori, richiedendone la proprietà in sostituzione dei
mancato pagamento dei debiti. Personalmente non ritengo che questa operazione sia
scandalosa. I crediti venduti non sono certo quelli di paesi con gravi difficoltà a
pagare. Nessuna banca d'affari è così sprovveduta da acquistare quote di credito
inesigibile, tanto più all'80% del valore nominale, cioè ad un prezzo molto alto. In
particolare nessuno rischia 1400 miliardi di lire senza essere certo del pagamento del
debitore. Ma la denuncia dei missionari (e anche nostra) era molto più rigorosa e
circostanziata di come è apparsa sui giornali. Riguarda due aspetti fondamentali della
questione del debito, emersi chiaramente in tutta questa vicenda; la "rinuncia"
a fare politica estera del governo italiano, l'assenza di trasparenza delle operazioni
finanziarie e in generale l'utilizzo di meccanismi di finanziamento discutibili per lo
sviluppo dei paesi nel sud dei mondo. |
Volontari per lo sviluppo -
Novembre 1998
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