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Lavoro minorile - Che cosa è cambiato dopo Ginevra

I bambini non lavoreranno più?

A tre mesi dalla fine della marcia globale contro lo sfruttamento del lavoro infantile, tentiamo un bilancio dei risultati. Tra i funzionari c'è grande soddisfazione per i lavori della Conferenza dell'Onu, ma le Ong e il movimento dei bambini lavoratori hanno molti dubbi...

di Elena Ajmone

Il 18 giugno scorso si sono spenti i riflettori sull'86esima conferenza internazionale dell'Ilo (l'agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro) e, con la fine della conferenza, si è spenta anche l'attenzione sullo sfruttamento del lavoro minorile tenuta accesa per qualche tempo soprattutto grazie alla Global March, la marcia contro il lavoro minorile organizzata dalle Ong di tutto il mondo e giunta a Ginevra all'apertura della Conferenza, dopo aver attraversato più di 100 paesi. Ma che cosa rimane del lavoro fatto? I rappresentanti dei 174 paesi presenti alla conferenza hanno votato all'unanimità una "Dichiarazione Internazionale dei principi e dei diritti sul lavoro" attraverso la quale si arriverà il prossimo anno all'approvazione di una Convenzione Internazionale. L'obiettivo è l'eliminazione del lavoro minorile partendo dalle sue forme peggiori: il lavoro forzato e la schiavitù, la prostituzione infantile, la pornografia, la produzione e il traffico di droga, e ogni forma di lavoro o di attività che possa danneggiare la salute, la sicurezza o la moralità dei bambini.
Ma le dichiarazioni, si sa, non sono vincolanti e per vedere gli sviluppi concreti delle decisioni prese a Ginevra si dovrà attendere ancora. Abbiamo comunque tentato di azzardare un bilancio con l'aiuto di tre "addetti ai lavori", Maria Gabriella Lay dell'Ilo, Maria Rosa Cutillo dell'organizzazione della Global March e Manuel Finelli, del movimento internazionale dei bambini lavoratori.

Un importante passo avanti

Maria Gabriella Lay, funzionario del programma Ipec dell'Ilo (International Programme on the Elimination of Child Labour) dà grande importanza alla nuova Convenzione. L'aspetto più rilevante è l'obbligo da parte di tutti gli stati membri, che abbiano o meno ratificato le Convenzioni precedenti, di adottare i principi contenuti nella Dichiarazione Internazionale di quest'anno. Si tratta di un esercizio partecipativo forte, che offre meno scappatoie a quei paesi poco inclini all'accettazione di leggi "esterne" su temi così delicati. Altra.nota positiva: la vasta attenzione che i media hanno dato al fenomeno negli ultimi mesi, anche se non è ancora sufficiente. Secondo la Lay infatti, si deve arrivare ad una collaborazione costante che non punti solo al sensazionalismo, ma che promuova davvero una cultura dei diritti dell'infanzia.

Ma hanno escluso le Ong

Meno entusiasta, ma comunque soddisfatta è Maria Rosa Cutillo, che parla a nome di Manitese, la Ong che ha coordinato la parte italiana della Global March. Anche per lei l'obbligo per tutti i paesi di rispettare i principi della "Dichiarazione" rappresenta un grande passo avanti così come l'inserimento all'agenda dei lavori del problema delle bambine lavoratrici sfruttate fra le mura domestiche. Ma non c'è piena soddisfazione su altri punti importanti. Primo fra tutti il non coinvolgimento degli Organismi non governativi impegnati nella lotta al lavoro minorile, nonostante le forti pressioni. L'opposizione maggiore è giunta dai sindacati di alcuni paesi che hanno addotto come scusa l'impossibilità di cambiare la forma tripartita dell'Ilo (oggi gli interlocutori Ilo sono i rappresentanti dei Governi, dei lavoratori e dei sindacati). Per questo la Global March è diventata un movimento strutturato in comitati regionali che aiuterà a monitorare il molto lavoro che resta da fare. Altro punto dolente della Convenzione è, secondo Maria Rosa Cutillo, il non aver inserito fra le forme peggiori di sfruttamento minorile l'impiego dei bambini in guerra.

Troppe confusioni sul "lavoro"

Manuel Finelli, del comitato di redazione italiano di Nat's, la rivista internazionale dei bambini e degli adolescenti lavoratori, ci dà un'opinione personale in merito alle conclusioni dei lavori di Ginevra decisamente più critica. Secondo Finelli sono molte le ragioni per non appoggiare la nuova Convenzione. Prima fra tutte la definizione che essa dà del lavoro infantile: ogni attività lavorativa svolta da una persona con meno di 18 anni. E i casi trattati in sede di Conferenza: schiavitù, traffico di bambini, prostituzione e attività illecite. Come si può, si chiede Manuel, considerare lavoro questi fenomeni? Non si realizzano progressi verso la soluzione di un problema se non ci si sforza di comprenderne le dovute differenze. In tutta la documentazione non definisce chiaramente quali siano i lavori tollerabili e quali no. Dei primi non si parla mai e va da sé che anche così facendo, forma intollerabile di lavoro infantile finisce per diventare ogni mansione lavorativa quando svolta da un minore di 18 anni senza considerare le diverse situazioni geo-culturali. Inoltre, viene riconosciuto ai governi nazionali un ruolo molto più esteso, ma è piuttosto improbabile che gli investimenti nel sociale vengano incrementati da paesi le cui condizioni sono sempre peggiori a causa dei debiti esteri. Non sussiste innovazione nemmeno dal punto di vista metodologico, in quanto il criterio guida rimane l'effettiva eliminazione delle peggiori forme di lavoro attraverso la rimozione dal lavoro, la riabilitazione e la reintegrazione sociale.
Tutti concetti che si rivolgono ai bambini lavoratori come oggetti di intervento e non come soggetti attivi, spesso già integrati nel loro contesto comunitario.

Il ministro Turco e Cofferati al convegno organizzato dal Cisv

L'impegno dell'Italia contro il lavoro minorile

di Ma.Bel.

Anche l'Italia, dove si stimano in 300 mila i bambini lavoratori sotto i 15 anni, sta facendo qualche piccolo passo per combattere il lavoro infantile. Il 16 aprile scorso, governo, sindacati e imprenditori hanno firmato una "Carta di impegni per promuovere i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza ed eliminare lo sfruttamento". Il ministro della Solidarietà sociale, Livia Turco, presente al convegno di Torino "il lavoro dei bambini", organizzato dal Cisv, dall'Associazione stampa subalpina e dai sindacati, afferma "Accanto alle proibizioni e alla repressione occorre saper offrire alternative concrete a casi concreti". Azione in positivo, dunque, a partire dagli impegni del governo "per una cooperazione internazionale mirata, collaborando con forze sociali e Ong" ma anche "Condizionare gli aiuti alle imprese italiane all'estero alla sottoscrizione di clausole contro il lavoro minorile e di promozione di una cultura dei diritti umani". Occorre però una ricaduta anche a livello di leggi "per stipulare dei codici e dotarsi di un'autorità superiore di controllo e certificazione". Secondo Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil, presente al convegno "non bastano i codici di autoregolamentazione che le imprese adottano, ci vogliono delle regole per il mercato globale, altrimenti il lavoro "sommerso" e illegale crea una alterazione nella competizione". Ovvero chi rispetta codici etici o clausole sociali diventa più "caro" degli altri. Ma l'applicazione delle convenzioni incontra molte difficoltà. Da un lato per un problema culturale, in quanto non accettate né dagli imprenditori del Nord, né dai sindacati del Sud, e dall'altro per motivi pratici. "Noi abbiamo cercato di eliminare gli intermediari in loco, acquisendo direttamente dai fornitori" spiega Martino Troncatti, direttore del personale della Chicco-Artsana, industria di giocattoli che acquista manufatti in Cina e che, sotto la spinta di una campagna di boicottaggio portata avanti da alcune associazioni italiane (tra cui anche Volontari per lo Sviluppo), sembra che oggi abbia scelto la strada "dell'etica". "Imponiamo regole di rispetto dei diritti. Il grosso problema è di controllo e di sanzione. Per far questo coinvolgiamo le organizzazioni sindacali, cosa che le grandi multinazionali dei giocattolo rifiutano". Il lavoro, distribuito dai produttori locali, viene spesso svolto a cottimo, nelle case, dove è impossibile intervenire. Per questo motivo ad Atlanta è stato firmato un accordo tra sindacati, produttori e alcune multinazionali che prevede, ad esempio nel caso del Pakistan, l'impegno a concentrare i lavoratori in centri di produzione, dove le condizioni possano essere monitorate. "Ma il clima non è favorevole" spiega Paolo Pastore di Transfair, organismo che si occupa di certificare i marchi sociali, in particolare per i palloni cuciti in Pakistan "ci sono stati due attentati all'incaricato pakistano addetto al controllo, la sede della sua organizzazione è stata fatta saltare, mentre un nostro inviato è stato sequestrato più volte".

Volontari per lo sviluppo - Settembre 1998
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