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Seconda parte

Scrittura ed estrema compassione

Silvia Treves, Nadia Neri, Marcella Filippa, Anna Maria Bruzzone

[ST] I promotori di questo incontro – la rivista LN-LibriNuovi l'associazione culturale Nautilus e la CS - Coop. Studi editore della rivista – hanno tra i loro fini sociali la promozione della diffusione e della lettura di testi giudicati particolarmente meritevoli di restare a lungo disponibili sugli scaffali delle librerie. È questo il caso del libro di Nadia Neri, Il pensiero di un'estrema compassione. Raccogliere l'eredità di Etty Hillesum.

L'incontro di questa mattina, rivolto a studenti e insegnanti, intendeva soprattutto ripercorrere la formazione personale e l'esperienza di Etty Hillesum, il suo pensiero, il suo ruolo di testimone consapevole della Shoà, e comprendere quale significato possa avere, oggi, leggere i suoi scritti. Questo pomeriggio, invece, vorremmo seguire il legame tra il pensiero e la scrittura di Etty, studiare le forme nelle quali Etty ce lo ha comunicato, attraverso le Lettere e il Diario, e ascoltare dalle relatrici la loro esperienza di lettura; in particolare vorremmo sapere da Nadia Neri come si è accostata alle fonti originarie, nella versione integrale purtroppo non ancora disponibile in traduzione italiana.

Personalmente, vorrei rendere testimonianza della mia esperienza personale di lettura de Il pensiero di un'estrema compassione. Leggere questo saggio è stato sorprendente. Conoscevo già gli scritti di Etty Hillesum nella versione parziale pubblicata da Adelphi, però attraverso il testo di Nadia Neri ho messo a fuoco con molta maggior chiarezza alcuni aspetti della personalità di Etty che prima non avevo colto e che, sicuramente, non sono quelli solitamente ricordati. Etty viene da molti considerata soprattutto una testimone consapevole. Grazie al libro di Nadia Neri, invece, ho scoperto la sua estrema attenzione alla scrittura, affascinante per un lettore. Ad esempio, ho riscoperto la grande consonanza tra Etty e l'opera di Rilke; un'altra riscoperta toccante è stata l'abitudine di Etty di annotare le parole degli autori che leggeva, in attesa di trovarne di proprie, ovvero di riappropriarsi delle loro parole per trovare una forma adeguata al proprio pensiero, alla propria scrittura. E mi ha veramente toccato, e dato un'ulteriore dimensione della tragedia che Etty – come tantissimi altri – ha vissuto, il fatto che questa sua esperienza, questa sua ricerca attenta delle parole per scrivere, si trasformasse nel tempo sempre più nella consapevolezza della necessità di diventare cronista, di farsi testimone, di trovare le parole per raccontare ciò che apparentemente non era neppure possibile dire.

Nadia Neri riporta nel suo saggio una frase molto bella di Frediano Sessi, proprio sulla scrittura di Etty: «È una concezione etica della scrittura, come quella che perseguono i grandi della letteratura, James, Conrad, Tolstoj, Cechov, Kafka». Questa riflessione, e tutto il libro di Nadia Neri, mi hanno aiutata a mettere a fuoco quale sia il percorso di lettore di ognuno di noi: e cioè come, ogni volta che si leggano gli scritti di altri, prima si riconoscano le parole, poi le si scelgano, e infine come ognuno di noi se ne riapproprii, non necessariamente nella forma scritta, per esprimere se stesso.

Tutti questi elementi, queste riflessioni sulla scrittura e sulla lettura emergono molto bene nel saggio di Nadia Neri.

Proprio da lettrice, quindi, vorrei chiedere alle relatrici come abbiano incontrato gli scritti di Etty Hillesum, quale sia stata la loro personale esperienza di lettura, come quell'esperienza abbia influenzato il loro pensiero e, a Nadia Neri, perché abbia scritto il suo saggio.

[NN] Io ho letto per la prima volta il diario di Etty perché, come molte donne in quegli anni, ero molto affascinata dalla lettura di diari e lettere scritti da donne, da questa letteratura femminile. Poi, nel 1988, sono stata invitata a partecipare a un convegno internazionale, l'unico credo che sia stato organizzato sull'argomento, dall'Istituto Culturale Olandese. Mi avevano chiamato in quanto analista junghiana, per spiegare i rapporti tra Etty e Jung.

Se penso alla me che ha letto e riletto quei testi nel 1988, mi rendo conto di aver seguito – da allora – un percorso di trasformazione molto grande. Nel 1990 sono state pubblicate in Italia Le lettere e io sono stata sempre più colpita dalla figura di questa donna, ma anche dal fatto che quasi nessuno la conosceva: tutti i miei amici e le persone che stimavo, conoscevano benissimo Simone Weil, Edith Stein, ma quasi nessuno conosceva Etty Hillesum. C'è sempre stato in me un trasporto particolare verso le donne che sono in clandestinità, che, per motivi privati o per ragioni obiettive, non hanno ricevuto il giusto riconoscimento. A dimostrazione di questo, ho scritto il mio primo libro sulle donne vissute intorno a Jung, quasi sconosciute in Italia e in altri paesi, pur avendo avuto un grosso peso sulla vita e sulle opere di Jung, donne, insomma, che sono in ombra (il titolo del libro è infatti Oltre l'ombra). Ho provato un trasporto simile (ma anche molto differente, ovviamente) per Etty e mi sono resa conto che mancava un quadro completo che ci restituisse tutte le sfaccettature della sua personalità. Questo, dell'interezza, è un elemento molto importante, perché finora sono state soprattutto messi in luce alcuni suoi aspetti. Questa parzializzazione, in realtà, viene attuata con tutti gli autori, ma in questo caso è avvenuta in maniera più spiccata e non solo in Italia. Ciò che noi possiamo leggere sia del Diario sia delle Lettere è una versione molto ridotta. Questo non viene abbastanza sottolineato, mentre la versione integrale (che in Olanda è stata pubblicata soltanto nel 1986) è lunga il doppio, circa seicento pagine.

Io, allora, ho iniziato un cammino un po' temerario e, pur facendo per professione l'analista ho deciso di dedicare parte della mia vita a ritrovare e mettere insieme tutti i pezzi del mosaico, per dare un'immagine completa di questa donna. Pur possedendo l'edizione integrale olandese, io non conosco l'olandese, ho quindi cominciato a leggere con molti aiuti; mi ha facilitato essere entrata in possesso dei dischetti di una traduzione inglese; ufficiale ma a tutt'oggi non ancora pubblicata a causa delle remore degli editori. Vi racconto le mie difficoltà a raccogliere il materiale, per suscitare anche in voi il mio stupore e il mio interrogativo di allora: «Com'è possibile che vi siano tante resistenze a pubblicare in edizione integrale un'opera così importante?» Ho potuto quindi leggere la traduzione in inglese e anche parte dell'edizione olandese, grazie all'aiuto di una amica. Queste letture, e il confronto con l'edizione ridotta disponibile in Italia, hanno confermato la mia convinzione che Etty Hillesum fosse una donna «normale». Nell'edizione ridotta, che ha subito molti tagli – come vi dicevo – compaiono purtroppo solo i brani ritenuti «importanti», significativi. Il rischio è che Etty vi appaia come una santa, che pensa e scrive solo cose profondissime, importanti, definitive. Non è così, per fortuna, e, forse, vedere nella sua totalità questa persona, conoscerne anche i lati più umani, ci permette di apprezzare maggiormente le considerazioni, le riflessioni importanti che – solo parzialmente – sono pubblicate in italiano.

Spesso io dico che Etty è una donna «normale», che ha avuto i suoi disturbi psicosomatici, che ha sofferto di depressione, per la quale è stato importantissimo l'incontro con il suo psicoterapeuta, lo psicochirologo Julius Spier, un uomo molto più anziano, un tipo particolare; un po' strano, potremmo dire. Nel 1988, quando lo «incontrai» ero più giovane e più severa di oggi verso di lui, ma in seguito ho molto riflettuto. Sicuramente Spier, dal punto di vista tecnico-professionale, era una persona strana, ma anche di grandi capacità, che per Etty e molte altre persone ebbe una funzione di guida. Spier scrisse un libro che forse ci dà il senso del suo insegnamento. Il libro si intitola Diventa ciò che sei, un titolo che ci fa comprendere che la finalità dei suoi interventi psicologici e didattici era quella di spingere le persone a ritrovare la propria essenza, a riconoscere ciò che veramente sono nel loro intimo. Proprio sotto la spinta della psicoterapia con Spier, Etty cominciò a scrivere il suo diario. Di Spier, Etty fu anche l'amante e la segretaria, tutto in contemporanea. Io guardo con molta simpatia a questi aspetti di Etty, sia perché sono «normali», l'avvicinano a noi, sia perché è stata brava, consapevole delle contraddizioni della sua vita. Nella prima parte del Diario Etty spesso riflette sulle difficoltà di questa sua relazione con un uomo più anziano e sul senso di possesso provato in amore. Sono pagine molto belle, sempre che noi riusciamo a non giudicare. Io voglio proteggere queste parti della vita di Etty, perché in tutto ciò che leggiamo in proposito, c'è sempre qualche aggettivo che «bolla» Etty, ad esempio parlando di vita sregolata. Secondo me, non merita assolutamente questi giudizi. La sua è una vita piena di contraddizioni, com'è più o meno la vita di noi tutti, inoltre Etty denuncia onestamente come contraddizioni questi aspetti, anche quando li vive e non può superarli. E non bisogna dimenticare che nel 1941 comincia ad essere attuata in maniera sistematica e capillare la politica antisemitica, cosicché Etty deve affrontare contemporaneamente i propri problemi personali e quelli storici.

Questo suo cammino difficile e contraddittorio rende Etty una persona molto attuale oggi, ma anche molto scomoda e questo spiega la sua scarsa fortuna editoriale almeno in veste integrale (le edizioni ridotte hanno molta fortuna in Francia, Inghilterra, Italia e sono state pubblicate persino in coreano e giapponese). Uno degli aspetti più interessanti e moderni di Etty è che propone un percorso (di cui dà testimonianza nel Diario) di scrittura ma anche fortemente vissuto, che parte da un cammino psicologico, da una introspezione, da un lavoro su di sé, intrapreso per motivi personali, e da moltissime letture (ad esempio di Jung, cui la avvicinò Spier), ma nel frattempo approfondisce le sue riflessioni e giunge a teorizzare un concetto attualissimo come la responsabilità individuale. È brava, perché di Jung prende proprio questa attenzione alla responsabilità, a non cadere – dice lui – negli «ismi» della storia, nel rischio della massificazione, per restare invece individui, proteggere l'individualità e la responsabilità individuale. Così passa – sempre con l'aiuto di Spier – da un cammino psicologico a un cammino spirituale. Fa questo anche grazie a molte letture interessanti e di enorme apertura, tanto più per l'epoca. Legge i mistici, l'Antico e il Nuovo Testamento, e non teme di sembrare cristiana se apprezza e cita spesso il versetto 34 di Matteo «Ogni giorno porta la sua pena, non pensare al domani» che, citato nel contesto in cui Etty viveva, acquista un significato molto particolare. Lei spesso ripete nel diario «Io devo cercare di vivere questi versi di Matteo». Pensate a questa sua apertura, a questa sua capacità di far suoi un verso di Matteo come un brano dell'Antico Testamento o del Corano (una donna così giovane che, allora, leggeva il Corano). Oltre a leggere scritti orientali come il Tao te ching, lei per esempio fa letture «strane», come il libro di Rittelmyer, un pastore tedesco (che poi smise di essere pastore protestante) che aveva fondato in un paese della Germania una comunità che si ispirava ai principi steineriani dell'antroposofia. Come vedete, in Etty confluiscono moltissime letture, sempre mediate da Spier. In una pagina del Diario, lei dice: «Inizio la mattina con Sant'Agostino e Casanova». Sembrano proprio due opposti che convivono.

A proposito della spiritualità di Etty, voglio anche sottolineare questa sua libertà: cioè come Etty sia un esempio, certo non troppo noto, ma abbastanza unico, di persona giunta a una spiritualità così profonda da far dire a molti critici che probabilmente è stata una mistica, e contemporaneamente così intensa nella sua vita carnale, sensuale. Noi sappiamo che questo non mettere tra parentesi il corpo (come invece ha fatto il cattolicesimo) è una delle ricchezze della cultura ebraica, ma è interessante come Etty abbia vissuto entrambi gli aspetti con la medesima intensità.

Uno degli spunti più interessanti di riflessione è la decisione di Etty di andare al campo di transito di Westerbork e di non salvarsi. È un tema che abbiamo già affrontato questa mattina. Etty dice in proposito: «Io sono convinta che poi non riuscirei a vivere con i sensi di colpa, sapendo che un altro è partito al posto mio». In sostanza Etty non fa la sua scelta per un motivo masochistico, ma per lucida consapevolezza.

Un'altra ragione di questa scelta potrebbe essere che Etty sentiva una grande affinità per l'anima russa e junghianamente (diceva), sentiva di voler incarnare l'archetipo di quest'anima. Questo suo sentire era forse anche un tentativo di riconciliazione con l'anima della madre, una donna molto inquieta, instabile, con cui Etty ha sempre avuto rapporti conflittuali. A diciassette anni, la madre era fuggita dalla Russia per scampare a un pogrom; Etty, occupandosi intensamente di letteratura russa, cercava in qualche modo di recuperare il rapporto con la madre. In proposito Etty dice che il russo va fino in fondo alla sofferenza, mentre l'occidentale no. Queste sono le sue parole: «Il russo porta il proprio fardello fino alla fine, si mette all'opera gravato dalla proprie emozioni e soffre molto profondamente. Noi ci fermiamo a metà strada e ci confortiamo con parole, riflessioni, filosofie, trattati teoretici e così via. Noi traduciamo ciò che non possiamo reggere più a lungo in parole sulla sofferenza, sulla bellezza, e ciò accade perché i frutti del nostro intelletto sono più prolifici». Etty sente di volersi differenziare. Questo suo sentire junghiano è testimoniato da un'amica ancora in vita di Etty, che mi ha mandato un suo ricordo personale. Un altro tema di Etty è la sua consapevolezza della necessità di «fare memoria», di testimoniare sugli avvenimenti cui ha assistito e di cui è stata vittima. Purtroppo è andato perduto il quaderno che lei ha scritto a Westerbork, ma abbiamo le sue lettere.

Volevo dare anche un altro esempio dell'esperienza che si fa leggendo l'edizione integrale dei suoi scritti. Si tratta delle ripetizioni che si incontrano spesso, che per noi hanno un sapore un po' infantile o adolescenziale e che sono già state ricordate: pensieri, brani di autori che le sono piaciuti e che, come facciamo noi tutti, ha ricopiato. Etty lo fa anche perché sente di non riuscire ancora a esprimersi con le sue parole. Ma ciò avviene anche perché lei conduce una ricerca molto profonda e sentita della parola che abbia un carattere evocativo, parola che deve esprimere l'essenziale, in una ricerca della semplicità, una delle virtù – con l'indignazione e la compassione (che è la principale) – di cui Etty è portatrice.

Questa sera mi voglio soffermare sulla semplicità, un termine che per noi spesso assume una connotazione addirittura negativa. Sono certa che anch'io, anni fa, non avrei capito l'importanza dell'essere semplici: semplicità come essenzialità, sia nella vita sia nell'espressione. È commovente questa sua ricerca di essenzialità. Nel Diario dice: «Dopo la guerra si dovranno usare poche parole e tra una parole e l'altra ci dovrà essere silenzio». E in una lettera, dice, riferendosi al treno che ogni settimana partiva da Westerbork per Auschwitz, con duemila persone a bordo, «Devo scrivere subito dopo la partenza del convoglio perché altrimenti anche a me sembrerà non vero ciò che ho visto, perché è talmente incredibile». Tutti abbiamo letto la letteratura dei reduci dai campi. Etty esprime, già mentre vive queste esperienze, concetti profondi analizzati e approfonditi dai sopravvissuti solo dopo, a distanza. In questo esempio, descrive la difficoltà di esprimere l'orrore dei campi, anche se Westerbork è solo un campo di transito. E dopo aver posto il problema, suggerisce che forse, per esprimere quell'indicibile, servirebbero delle favole. Non è l'unica ad averlo intuito, ma l'ha fatto mentre viveva quella impossibilità di dire. Nel mio piccolo, anch'io, scrivendo il capitolo su Westerbork, ho provato la difficoltà di trovare parole che non siano retoriche per descrivere che cosa veramente siano stati questi campi e ho sentito come le parole siano inadeguate.

Uno degli amori forti di Etty è stato il poeta Rilke, uno degli autori più ricopiati nel diario. Etty si chiede «Chissà mai se riuscirò ad arrivare alla sua capacità». Voglio leggervi questa frase di Rilke, ripetuta in molte pagine del Diario, e che io ritengo estremamente significativa, considerando il periodo nel quale è stata riscritta da lei: «Io lo imparo ogni giorno, l'imparo tra dolori cui sono riconoscente, pazienza è tutto». Etty dice «Questo dovrebbe essere il mio motto». Qui la ripetitività della frase, una frase più espressiva di tanti trattati teoretici, somiglia al tema di una sinfonia ripetuto in tempi diversi.

Etty scrive queste pagine tra i ventisette e i ventinove anni e sorprende che una giovane donna ripeta così spesso questi concetti: che non dobbiamo odiare, nemmeno i tedeschi, indignarci sì, ma mai odiare, perché proiettare sull'altro ciò che non vogliamo veder in noi peggiorerà soltanto il mondo. Dobbiamo avere il coraggio di partire da noi stessi, dice Etty, di guardare il male che c'è in noi. Mi sembrano intuizioni profonde, fondamentali anche di fronte ai problemi di oggi e che solo pochi di noi, con fatica, riescono a mettere in pratica. Con «pazienza è tutto», Etty si riferisce sia alla vita in generale sia al lungo lavoro per trovare le parole, per diventare un'artista, una scrittrice, come desidera.

Il Diario, poi, come le Lettere, è fitto di episodi e pensieri di vita normale, richieste e informazioni date alle persone, racconti di vita quotidiana. E tra queste, troviamo pensieri importanti sul Consiglio Ebraico, sulla possibilità che anche un ebreo sia «cattivo» (come il giurista ebreo, rigido e feroce), considerazioni coraggiose che certo l'avranno resa antipatica ai suoi compagni e contemporanei.

Un ultimo punto riguarda il suo modo di scrivere: Etty dice: «[…] è inutile scrivere facendo la cronaca di tutto quanto di materiale abbiamo perso: le posate, i mobili... non serve questa cronaca. Noi dobbiamo andare al di là dei fatti […]». E, in verità, molte sue pagine mostrano un aspetto visionario, immaginativo, che mi ha suggerito un confronto tra Etty e la Lasker Schüler. È interessante come Etty, rispetto a Mechanicus, un altro autore poco noto, che ha scritto una cronaca giornalistica dal campo di Westerbork, risulti estremamente differente, riesca ad andare oltre i fatti.

Rispetto ai rapporti con Spier, potrei aggiungere che Etty si trovava a far parte di un circolo di donne e uomini discepoli di Spier al cui interno si svolgevano dinamiche infernali. Ad esempio in una lettera che io cito nel mio libro e che lei scrive all'amica Tideman, si comprende come all'interno del gruppo nascessero grandi gelosie, perché tutti amavano questo grand'uomo, al di là dell'aspetto semplicemente fisico della relazione, come avviene sempre, in questi circoli soprattutto femminili intorno a un maestro uomo di grande personalità. Però era tutto abbastanza chiaro, gestito abbastanza bene. Ci sono effettivamente nel Diario pagine e pagine rispetto a un'amica che quando partecipa al gruppo è noiosa, pettegola. Insomma, in Diario ci sono anche cose di questo genere, e rispetto all'edizione integrale devo confessare la mia difficoltà a scegliere una citazione o l'altra. Questo, per esempio, mi pare molto significativo: «La mia è una famiglia particolare, una volta avrei detto degenere, ma perché usare parole grosse, che non fanno bene? Jaap [il fratello], Mischa ed io abbiamo insieme 26 + 21 + 28 = 75 anni. I nostri partner hanno raggiunto la venerabile età che ammonta a quasi un secolo e mezzo, poiché hanno rispettivamente 42, 40 e 63 anni. Si sarebbe potuto fare il calcolo anche così: i miei 28 anni coabitano con i 123 anni dei miei due compagni, avendo ognuno più di mezzo secolo di età. È strano, ho detto a Spier – nella nostra breve passeggiata lungo la banchina fino a casa sua ieri sera – tutti e tre abbiamo scelto partner con i quali non possiamo avere un futuro».

Anche la scelta di riportare proprio i numeri e l'addizione mi sembra molto efficace. Vorrei ancora citare un altro aspetto di Etty di cui non si parla spesso, perché è un tema molto difficile da vivere. In molti brani assai belli del Diario, Etty dice «[…] io devo prendere su di me il dolore del mondo», un altro modo di intendere «il cuore pensante della baracca», però è qualcosa in più. Etty dice «[…] molti non ce la fanno a reggere il proprio destino, ci aspettano mesi di grande dolore e mi devo preparare a prendere su di me il dolore del mondo». È un concetto apparentemente chiaro che poi è difficile da capire, perché è insieme da capire e da vivere: l'importanza che ci siano nel mondo persone che vivano e sentano dentro di sé il dolore che c'è nel mondo, anche al posto di persone che non riescono a farlo. Secondo me è forse l'esempio estremo, perché agito nel silenzio, sia esterno sia interno, un atteggiamento personale, che pochi riescono ad adottare e che non mi sentivo di tacere, perché mi sembra fondamentale.

Io ho spesso sentito citare la frase «andare cantando incontro alla morte» e su questo ho riflettuto molto chiedendomi se Etty volesse davvero morire. Secondo me no, non voleva assolutamente morire e nel Diario ne ha dato molte testimonianze, riferendosi al futuro, a «più tardi», quando verrà il tempo di costruire un mondo migliore. Che non volesse morire lo prova un dato di fatto, poco conosciuto, ma sottolineato da Philip Noble nell'introduzione all'edizione francese degli scritti: tutti i componenti della famiglia Hillesum vanno ad Auschwitz perché la madre prende l'iniziativa di scrivere da Westerbork una lettera al capo dei nazisti in Olanda per protestare per la partenza del figlio. Appena il capo dei nazisti riceve la lettera si infuria e ordina che l'intera famiglia parta per Auschwitz. Il capo di Westerbork, a sua volta, applica l'ordine alla lettera, obbedendo nella maniera più rigorosa e burocratica, facendo partire anche Etty che non avrebbe dovuto partire in quanto membro del Consiglio Ebraico. Su questa partenza che non avrebbe dovuto avvenire, bisognerebbe riflettere molto.

Per non chiudere il mio discorso nella tristezza, vi racconto un aneddoto, raccontato dall'amica di Etty di cui vi ho parlato, che può darvi un'idea del modo, anche fantasioso, di raccontare di Etty. L'amica ricorda che una volta Etty raccontò agli amici un suo viaggio con Smelik, suo amante e padre del curatore della versione originale dei diari. «Tutti – commenta l'amica – abbiamo immaginato che Etty avesse fatto questo viaggio in una grande carrozza, tirata da cavalli e tappezzata di velluto. Solo dopo la guerra, parlando con Smelik, ho capito che aveva viaggiato in una grandissima macchina americana».

Per concludere vorrei fare un'osservazione che spiega in parte perché ho scritto il mio saggio: c'è stato (e c'è tuttora) in molte persone (ad esempio è molto chiaro in Smelik) il bisogno di parlare al posto di Etty, di raccogliere il testimone della staffetta che lei ci ha passato

[MF] Nadia Neri ha illuminato alcuni aspetti di Etty Hillesum, io cercherò di farne emergere altri.

Uno scrittore francese, Maurice Blanchau, scrive: «C'est le disastre obscur qui porte la lumiere», cioè «è il disastro oscuro che porta la luce». E, il 12 ottobre del 1942, Etty annota sul suo diario «Le mie impressioni sono sparse come stelle sfavillanti sull'oscuro velluto della mia memoria». Credo di poter dire che in effetti Etty Hillesum, come altri personaggi – uomini e donne – emblematici dei loro tempi ma poco noti (e cercherò anch'io di spiegare perché hanno così poca fortuna, almeno qui, da noi) ha «portato la luce». Non soltanto rispetto al proprio percorso di scrittura e di conoscenza ed espressione di sé, ma soprattutto - questo lo dico come storica - sul rapporto complesso e ambivalente tra accettazione e ribellione, uno dei temi più scottanti, di cui spesso si preferisce non parlare.

Personaggio complesso, con un'identità plurima, che è impossibile inserire in rigide appartenenze, soprattutto religiose, Etty è una donna normale, dice Nadia Neri, e io la definirei, riprendendo il tema gramsciano degli «uomini e donne in carne e ossa» proprio una donna in carne e ossa, che ama, che soffre, che piange, che scrive, che ride. Nadia Neri ricordava come la vita della Hillesum sia stata definita da alcuni «una vita sregolata». Io direi invece una vita anticonvenzionale rispetto alla sua epoca, quella di una donna che vive contemporaneamente due relazioni sentimentali, che sceglie, giovanissima, di abortire e sulla sofferenza di questa esperienza scrive passaggi illuminanti.

Nadia Neri sottolineava che Etty è un personaggio scomodo, che ha avuto poco successo. Non è stata la sola: pensiamo ad altre donne straordinarie che ho letto in questi anni, a Margarete Buber-Neumann, una scrittrice che ebbe la sventura di vivere due esperienze uniche: l'internamento in un gulag staliniano, come oppositrice strenua allo stalinismo, e poi l'internamento a Ravensbrück. Margarete ebbe la fortuna di sopravvivere a entrambe e lasciarci le sue riflessioni: sposata in prime nozze a Rafael Buber, figlio di Martin Buber, grandissimo teologo ebreo, andò in Israele, dove narrò la sua esperienza in un libro: Io prigioniera di Hitler e di Stalin. Si tratta di un testo straordinario, inquietante, che mette anche in discussione stereotipi e luoghi comuni di rappresentazione dei gulag e dei lager, che solo nel 1994 è stato finalmente tradotto dall'editore Il Mulino. Mi vengono in mente anche altre donne, come Milena Jesenská, nota quasi solo come «la fidanzata di Kafka», in realtà grandissima giornalista praghese, donna di grande coraggio, a tal punto che, pur non essendo ebrea, volle, nella Praga occupata dai nazisti, portare la stella gialla, pagando poi questa sfida di persona.

Ultimamente su Etty Hillesum sono stati pubblicati altri due testi interessanti, uno di Pascal Dreyer, un filosofo francese, Etty Hillesum, una testimone del Novecento, pubblicato da Edizioni Lavoro, un saggio che parte da una versione meno ridotta di quella pubblicata in Italia, del Diario e delle Lettere. L'altro è un testo in corso di traduzione, sempre per Edizioni Lavoro, scritto da una donna che se non conoscete vi suggerisco di leggere: Sylvie Germain, una delle maggiori teoriche e filosofe viventi. È una biografia che illumina aspetti inediti.

Utilizzerò anche questi testi per introdurre alcuni aspetti di Etty.

Sylvie Germain analizza il linguaggio della Hillesum dicendo di lei – traduco a braccio dal suo testo in corso di pubblicazione – che «[…] lo [il linguaggio] esplora, lo sonda, lo scruta con perseveranza sempre, e con uno stile di scrittura che sarà il suo, sobrio e luminoso nello stesso tempo, un giusto dosaggio fra il detto e il non detto, atto a rendere, con una leggerezza pari a quelli delle stampe giapponesi che ella ammira, tutte le tonalità della vita, tutte le finezze dello spirito e, più ancora, i diversi accenti dell'amore».

I detti e i non detti, i silenzi, mi sembrano una delle caratteristiche più personali della scrittura di Hillesum, che – proprio ispirandosi alle stampe giapponesi viste in una mostra – dirà: «[…] è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole […] mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto […] e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra parole e silenzio: il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme».

Hillesum, quindi, è una giovane donna che ha bisogno di scrivere, come del resto i giovani, soprattutto i giovani di quella generazione. Chi ha lavorato sulla guerra, raccogliendo testimonianze di sopravvissuti, sa bene quanto forte sia stato per quella generazione il bisogno di scrivere, di rendere memoria, anche nel momento in cui vivevano quelle esperienze. Il bisogno di scrittura è sogno e desiderio e anche imperativo, è l'imperativo ebraico «ricorda», che ricorre ben centosessantanove volte – se non erro – nell'Antico Testamento. A questo proposito, e sulle pratiche dell'oblio, vorrei ricordare un saggio molto interessante di uno storico ebreo americano, Yosef Yerushalmi, che riprende il tema dell'imperativo biblico, della necessità di testimoniare, provata dagli ebrei – e non soltanto da loro – di quella generazione.

La scrittura di Hillesum – e questa è un'altra sua grande novità – coniuga cuore e mente. In un passaggio molto chiaro ella afferma che vuole essere «il cuore pensante della baracca», un'affermazione quasi paradossale per l'epoca, ma non per noi che viviamo oggi: molte di noi rivendicano che sia il cuore e non la testa a pensare. È una delle grandi modernità di Etty, questo suo voler essere un «cuore che pensa». Il suo linguaggio è denso e delicato, efficace e pudico, riesce a esprimere grande sofferenza, pensiamo ai passaggi di cui dicevo, dove esprime – prima di tutto a se stessa – la sofferenza dell'aborto.

Ma la sua scrittura è anche conoscenza di sé, come dice Nadia Neri nel suo saggio, scrittura che coniuga introspezione e un percorso spirituale, ma anche scrittura come conoscenza del mondo e degli uomini (Etty utilizza molto questo termine, «gli uomini», oggi noi diremmo «uomini, donne e bambini»). Voglio leggervi un passaggio che citavo su uno dei miei primi libri, scritto insieme a Giorgina Levi, sull'infanzia derelitta e sulla storia della Casa Benefica a Torino, alla metà degli anni ottanta: «Molti uomini sono ancora geroglifici per me, ma pian piano imparo a decifrarli. È la cosa più bella che conosca, leggere la vita degli uomini». Per me, storica, come per molte altre che hanno lavorato sulla raccolta di testimonianze scritte e orali, questa citazione è stata illuminante. E, personalmente, leggo e rileggo ancora Etty in cerca di conforto, sia per il mio lavoro sia per il mio privato.

Una delle caratteristiche più notevoli di Hillesum in quanto scrittrice è proprio questa sua straordinaria capacità e sforzo di inventare una scrittura nuova. Non so quanto sia consapevole questo suo tentativo, forse la sua è una scrittura in fieri, che lei, a mano a mano che procede nel suo percorso di introspezione, di conoscenza di sé, affina. A un certo punto scrive (cito da Dreyer, credo che nella versione ridotta italiana dei suoi scritti questo passaggio non compaia): «Un giorno forgerò una nuova lingua, adatta a questo racconto, avrò di nuovo una stanza tutta calma per me». E quasi inevitabilmente si pensa alle parole di Virginia Woolf, «una stanza tutta per me». In un momento di grande sofferenza e di caos, Etty aspira a un futuro nel quale avrà ancora una stanza silenziosa dove forgiare una lingua nuova.

Quella di Hillesum, è stato detto, è una lingua etica, una lingua salvata, direi, che si esprime in forma memorialistica, semplice, come diceva Nadia Neri. Nella postfazione che ho scritto al testo di Dreyer mi sono permessa di utilizzare proprio questa immagine: «la ricerca del silenzio e della semplicità», uno dei temi fondanti l'identità di Etty Hillesum. La sua è una lingua mai urlata.

Alberto Cavaglion in uno dei suoi ultimi scritti sostiene che il linguaggio della generazione che ha vissuto gli orrori dei lager si può individuare in tre forme, l'urlo espressionistico, il tentativo di coniugare sentimento e ragione e il ritrarsi per lasciare spazio alle parole sommerse (evidente il riferimento a Primo Levi). Credo che invece Etty tenti di rappresentare l'indicibile non con l'urlo espressionistico, la rappresentazione dell'orrore nella sua immediatezza, ma con la lingua dei silenzi, della purificazione, della pulizia interiore, nel senso che Martin Buber ha attribuito a questo termine. Una lingua affettiva, spirituale, intellettuale, ma anche prorompente di fantasia, come dimostra l'immagine della carrozza-auto americana, anche carica di erotismo e di forte senso di sé come donna. Ad esempio del conflitto non risolto di una giovane donna che si autopresenta come una donna che vorrebbe scrivere, intellettuale, ma che, passeggiando per strada, vede altre donne giovani, belle, ben vestite, e si dice: «Chissà come vorrei essere da grande? Queste sono il mio alter ego, ma forse anche modelli a cui forse io potrei aspirare». E lo ammette con tutta tranquillità. È una lingua senza sottintesi, soprattutto senza malintesi, che non gioca con le parole. Il 3 luglio del 1942, Etty dice «Non giocherò più con le parole che creano soltanto malintesi. Per esempio: ho chiuso i conti con la vita, non può più succedermi niente, non si tratta di me e della mia distruzione ma del fatto che si distrugga». Ecco, pensate a quante volte ognuno di noi ha utilizzato frasi del genere […] Etty, con grande coscienza di sé e del dramma vissuto dal suo popolo, afferma di voler usare una lingua senza malintesi.

Etty aspira a divenire scrittrice, dopo la guerra. Non le sarà dato di scrivere il romanzo cui aspirava, ma credo che in proposito noi possiamo utilizzare quella intuizione di Benjamin sul romanzo. Egli dice: «[…] il romanzo è esasperare l'incommensurabile nella rappresentazione della vita umana». E nella scrittura di Etty, credo che vibri quello che Benjamin chiama «l'idea di redenzione».

La modernità di Etty Hillesum. Credo che i suoi scritti possano venir offerti ai giovani, nella loro lingua che ci presenta il dolore e la sofferenza, offerti cioè a generazioni che gli adulti tentano di preservare dal dolore e dalla sofferenza, nonostante – e questo è il grande paradosso – siano bombardati ogni giorno dalla spettacolarizzazione del dolore: guerre, violenze, bambini violati. L'effetto di questo bombardamento è indurre alla ritrazione, al rifiuto, «non vogliamo vedere, perché non vogliamo soffrire».

Servono le favole per descrivere, intuisce Etty. Io pensavo alla capacità di Etty di sentire, anche nell'orrore, il profumo del gelsomino dietro casa, di vedere i gabbiani in volo, o, al di là del filo spinato, un pezzetto di cielo azzurro. Negli ultimi tempi si è molto discusso, a partire dal film di Benigni La vita è bella, sull'uso della favola per parlare di quegli orrori. Io credo che ci sia posto anche per questo modo di raccontare.

Nonostante sia privo di senso etichettare Etty in rigide appartenenze, direi che in lei vi è una connotazione fortemente ebraica, nel senso di vivere la vita ogni minuto, fino in fondo, coniugando la ricerca interiore, la vita spirituale, con la corporeità e il valore profondo che ha il significato del corpo nella cultura e nella religione ebraica, appellandosi alla salvezza, che solo apparentemente è in contraddizione con la scelta finale di andare cantando incontro alla morte. Qui io vedo un'affinità tra Etty e la Jesenská. A ventisette anni, proprio l'età in cui Etty scrive il suo Diario, Jesenská scrive su un quotidiano praghese questa riflessione che io ho citato alcuni anni fa, ricostruendo la biografia di una donna ebrea costretta a lasciare la propria città, Torino, a causa delle leggi razziali del 1938: «Esistono due modi di vivere, accettare la propria sorte, risolversi per essa, adeguarsi a essa, comprenderla, accettarla con tutti i suoi vantaggi e svantaggi, le sue gioie e i suoi dolori, coraggiosamente, onestamente, senza mercanteggiamenti, con magnanimità e umiltà. Oppure cercare il proprio destino. Ma in questa ricerca non si perdono forse solo tempo, illusioni, la giusta e provvida cecità, il senso delle cose. In questa ricerca si perde anche il proprio valore, ci si impoverisce sempre di più». Etty, questa giovane donna, non si rassegna, né abdica alla volontà, oppone l'indignazione morale, rifiuta l'amarezza e il rancore oltre che l'odio e accetta fino in fondo il proprio destino, con esso non mercanteggia. Scrive nelle Lettere, il 26 giugno 1943: «[…] ma non si può forzare nulla, e ognuno deve prendere su di sé il destino che gli viene assegnato, non può essere altrimenti». In questo senso la scelta finale di andare incontro alla morte cantando, si anticipa nei passaggi dei suoi scritti. Etty non fugge, rimane fedele a se stessa, anche se molti amici avevano cercato per lei un rifugio sicuro. Lei non accetta, vuole condividere fino in fondo la sorte del popolo al quale appartiene e in questo la sua identità è profondamente ebraica. Etty, con le sue scelte, mette in discussione la categoria, quella della resistenza attiva, è un esempio di resistenza esistenziale, categoria coniata negli ultimi anni in alternativa a quella troppo rigida di «resistenza» intesa opporsi con la forza, la violenza, le armi, a ciò che attraversa l'Europa di quegli anni. Su questo argomento Anna Maria Bruzzone ha dato un contributo interessante. Ci sono altre forme di resistenza e mi permetto di citare come altro esempio di resistenza esistenziale, un'altra donna della quale non si sa nulla in Italia, Miriam Novich. Era un'ebrea di origine russa, io ho avuto anche l'onore di conoscerla, internata in un lager. Riuscita a scampare, ha fatto di tutta la sua vita, non un'esistenza basata sull'odio, ma basata sulla tutela della memoria non del popolo al quale appartiene, ma degli zingari. È morta a novant'anni e ancora a ottanta, ottantadue, andava in giro per l'Europa ricercando memorie e testimonianze riguardanti bambini zingari. Miriam raccoglie simbolicamente e realmente il messaggio di un grande poeta ebreo, nascosto in una bottiglia e seppellito nel lager dove anche lei era internata e ne onorerà la memoria riscrivendo e pubblicando i suoi scritti.

Vorrei concludere dicendo che il messaggio che Etty ci lascia è un messaggio che probabilmente tutti noi facciamo fatica ad accettare, un invito a prendere il dolore come parte integrante della vita, in particolare a chi lo vuole espungere, ignorare, illudendosi di essere esente dalla sofferenza, pur vivendo nel paradosso di cui dicevo prima. Anche Neri ricorda nel suo saggio di aver scritto il libro mentre era profondamente toccata dalla guerra nel Kosovo e di non aver potuto fare a meno di riflettere, allora, su che cosa stavano passando altri esseri umani. In una società come la nostra, dispersiva ed esaltatrice dell'effimero, Etty ci invita a porre l'accento sulla trasparenza, sulla semplicità, intesa come capacità dello spirito di guardare all'essenziale e a concentrarsi. Cito Krakauer, perché mi sembra che abbia colto questi passaggi tra l'essenziale e il genuino che fa parte della vita, sul «genuino nascosto fra le credenze dogmatizzate del mondo» in quegli interstizi dove molti di noi che fanno ricerca storica sanno che spesso è nascosta la «verità storica», come la chiama Krakauer.

E Hillesum ha cercato di dare un nome a ciò che fino ad allora era innominato, lasciandoci un messaggio di profonda modernità e attualità.

A proposito del dolore, infine, il dolore del mondo di cui ha parlato Nadia Neri, c'è un passaggio fondamentale degli scritti di Hillesum sull'accettazione del dolore: «[…] se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti, non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato tutto inutile». Il dolore inutile non serve, va accettato solo se insegna qualcosa.

C'è anche un altro messaggio di grande modernità in Etty: «Portare l'altro con sé». L'altro che non è solo Dio, l'amato, gli ebrei, ma anche l'aguzzino. È il medesimo concetto espresso da Bernhard, che – più anziano di Hillesum – nel campo di Ferramonti, nel 1943, usa parole e modi molto simili per parlare del rapporto e del riconoscimento dell'altro: il sogno di Bernhard nel quale egli riconosce e accetta l'aguzzino, somiglia molto a quello di Etty nel quale lei, sul tram, riconosce le SS. Etty, di questo rapporto con l'altro dice ancora, usando consapevolmente un termine molto forte, «marciume»: «[…] dobbiamo partire innanzitutto dal marciume che c'è dentro di noi».

[AMB] L'impulso alla scrittura nasce in Etty Hillesum da un atteggiamento che lei stessa definisce «possessivo»: «infelicissima e sola» com'è nel tempo che precede la sua relazione con lo psicochirologo Julius Spier e la ricerca interiore che ne conseguirà, Etty tenta, scrivendo, di «attirare» a sé, «con parole e immagini», i «tesori» che le stanno intorno, dalla bellezza della natura e della poesia alla persona di Spier, per goderne da sola, nascosta agli occhi altrui, e però schiava del suo desiderio «troppo fisico», «doloroso, insaziabile».1

Ma via via il Diario registra il passaggio a una posizione radicalmente diversa, per la quale Nadia Neri ha usato il termine di «profetica»2 e Frediano Sessi le espressioni «concezione etica della scrittura» e «religione della parola»3. «E ora che non voglio più possedere nulla – così scrive Etty – e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa»4 e più avanti: «Se io ho un dovere […] in questo tempo, in questo stadio della mia vita, è proprio quello di scrivere, annotare, conservare».5 Le «catene»6 del bisogno di possesso e della dipendenza che ne deriva si sono spezzate, lo scrivere è divenuto il compito morale che la sua coscienza e il momento storico le impongono: scriverà per compiere una duplice testimonianza, da un lato documentando la persecuzione nazista e dall'altro riflettendo sui modi con cui resistere alla distruzione dei corpi e delle anime che il nazismo persegue.

Tra le lettere inviate dal campo olandese di raccolta di Westerbork ce n'è una, lunghissima (occupa quindici pagine nel testo italiano), in cui Etty descrive una delle notti trascorse nell'attesa della partenza del treno che settimanalmente trasportava ad Auschwitz più di mille persone. È una lettura tanto più sconvolgente in quanto si tratta di uno dei suoi ultimi scritti: due settimane dopo, sul treno per Auschwitz salirà anche lei, con i genitori e il fratello Mischa; i genitori saranno uccisi all'arrivo, in una camera a gas, Etty morirà tre mesi dopo, il fratello le sopravviverà di qualche mese. Anticamera del lager di sterminio, Westerbork era luogo di terribili privazioni e patimenti materiali, di angosce e tormenti psicologici fortissimi. Le settimane erano scandite dalle apparizioni inesorabili di quel treno e trascorrevano nel terrore di essere destinati alle sue partenze e nei disperati tentativi per evitarle, a ogni costo, nella consapevolezza che la propria esenzione avrebbe comportato il sacrificio di un altro. Etty ha passato la notte nelle baracche dell'ospedale, a confortare e aiutare. Traggo dal suo racconto alcune frasi: «Se dico che stanotte sono stata all'inferno, che cosa ne potete capire voi?», «Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli angoli e le fessure della baracca illuminata in modo spettrale, è quasi insopportabile. Nella mia mente affiora un nome: Erode».7

La lettera è uno dei più importanti documenti che Etty ha lasciato. Ne emerge un quadro affollato di creature di ogni età: c'è chi piange, chi supplica, chi trova la forza per incoraggiare gli altri. Una figlia assiste la madre che ha inghiottito del veleno e sta morendo; un vecchio in barella recita, per se stesso, la preghiera per i morenti. La prosa di Etty, affannosa e nitida al tempo stesso, registra quanto più può di quella visione irreale, prima che, per la sua stessa irrealtà, svanisca dalla sua mente.

Alla domanda su come tentare di resistere a tanto male, Etty ha dato da tempo una risposta: «Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi»8 e «Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale».9

La convinzione di Etty che l'unica salvezza consista nell'interrompere la catena dell'odio, che non ci sia dato farlo se non iniziando da noi stessi, che, quantunque giustificato, l'odio proiettato su altri perpetui anziché arrestare sofferenze e orrori, è coerente con la scelta che essa compie, all'incrudelirsi della persecuzione, di non attendere passivamente gli eventi né di cercar scampo per sé, ma di condividere il destino del suo popolo andando volontariamente a Westerbork: per quanto potrà, sarà accanto ai suoi, a lenirne il dolore.

Come definire questa forma che la resistenza assume in Etty? Confesso che la definizione di «resistenza esistenziale» mi lascia perplessa: «esistenziale» mi sembra un aggettivo che possa far pensare esclusivamente o prevalentemente a una tutela della propria esistenza, fisica e spirituale e temo che l'immagine della resistenza di Etty ne risulti impoverita. Oggi, per fortuna, pare che si sia abbandonato l'aggettivo «passiva» per indicare la resistenza non armata – può infatti essere attivissima nell'uso di mezzi diversi dalle armi, si pensi a Gandhi – e si ricorre ad altri attributi. Potremmo chiamare «civile» la resistenza di Etty, facendola entrare nella categoria diffusa alcuni anni fa dal francese Jacques Sémelin10, e ora usata ampiamente anche in Italia. La parola «civile» a me richiama l'idea di una persona che sia civis, ossia che si senta parte di una comunità, ma anche di tutta la comunità umana, e in suo nome e in sua difesa agisca. Come certo agì Etty a Westerbork. Oppure vorrei che, ancora più appropriatamente, la sua resistenza fosse qualificata come «nonviolenta», per l'opera di purificazione interiore dall'odio in cui si inquadra e che l'accomuna alla resistenza dei grandi leader della nonviolenza: principalmente Gandhi, appunto, e Capitini.

Tento ora di descrivere la scrittura di Etty Hillesum da un punto di vista «basso», osservando cioè alcuni dei «mattoni» formali con cui è costruita.

So bene di avventurarmi su un terreno incerto, avendo letto il Diario e le Lettere non nella lingua originale ma in traduzione. In un testo letterario il significante, cioè la forma, è portatore esso stesso di significato. Ma nella traduzione una parte di questo significato inevitabilmente si perde, dato che il significante cambia da lingua a lingua: per esempio, i suoni di una parola non sono i medesimi della parola corrispondente in una lingua diversa. Traducendo, forzatamente si alterano gli effetti del testo: la traduzione potrà avvicinarsi di più o di meno all'originale, ma non ne sarà mai la copia perfetta; potrà essere bellissima, ma costituirà un nuovo testo. E tuttavia, se chi traduce è dotato di viva sensibilità artistica, se si lascia penetrare a fondo dal testo che ha innanzi a sé, mettendosi al suo servizio, se non teme di lavorare sul proprio testo a lungo, buona parte della specifica bellezza dell'originale arriva alla traduzione. Nel nostro caso, possiamo dirci fortunati, disponendo della traduzione di Chiara Passanti: che, per i suoi pregi, credo costituisca un grande dono alla memoria di Etty, degno della sua storia e della sua opera.

Perché Etty, se è vero che chiede continuamente a Dio il dono della scrittura, desiderandolo con tutta l'anima ma spesso dubitando di poter mai arrivare a possederlo, è in realtà, senza saperlo, una scrittrice matura, che maneggia con padronanza assoluta i mezzi espressivi della lingua: matura, a maggior ragione, non avendo potuto sottoporre i suoi scritti all'elaborazione lunga e paziente che la creazione letteraria richiede. In particolare, le lettere scritte a Westerbork di getto, sotto l'assillo di annotare tutto il possibile, non hanno usufruito nemmeno di quegli spazi – la sua amata camera, con la scrivania e l'albero davanti alla finestra – e di quelle ore di sosta di cui Etty disponeva ad Amsterdam. «Ecco, ora si mette un coperchio sul chiasso di questa giornata, e questa sera, con tutta la pace e la concentrazione che sono in me, è mia. Una rosa tea gialla sta sulla mia scrivania, tra due vasetti di viole. L'ora dell'"amaro" è passata. […] Nessuna delle preoccupazioni e delle minacce di questa giornata m'è rimasta attaccata, sto qui seduta alla mia scrivania così "vergine" e appena nata […] Tutto m'è completamente caduto di dosso, nulla ha lasciato una traccia, mi sento così "ricettiva" come non mai».11

È un breve esempio del suo linguaggio: cui dà ali la ricchezza delle figure retoriche – metafore («si mette un coperchio»), personificazioni, similitudini ecc. – che fluiscono spontaneamente, semplicemente, senza parole di troppo: non ricercati abbellimenti del testo, fine a se stessi, ma immagini che con naturalezza svolgono la funzione di ridurre il divario tra scrittura e realtà.

Ad apertura di libro, ecco altri esempi di metafore.

«Non mi porto [Etty si sta chiedendo che cosa farebbe se dovesse partire per la deportazione] ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me».12

«I rami nudi che si arrampicano lungo la mia finestra si sono coperti di giovani foglioline verdi. Un vello di riccioli sui loro nudi e duri corpi di asceti».13

O personificazioni, come la seguente: «Ero andata a dormire presto, dal mio letto guardavo fuori attraverso la grande finestra aperta. Ed era come se la vita con tutti i suoi segreti mi fosse nuovamente accanto, come se la potessi toccare. Avevo la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le nude braccia della vita e ci stavo così sicura e protetta. Pensavo: com'è strano. C'è la guerra. Ci sono campi di concentramento. […] Camminando per le strade io so che in quella casa c'è un figlio in prigione, in quell'altra un padre preso in ostaggio, o un figlio diciottenne condannato a morte. […] Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso».14 La vita si è trasformata in una creatura umana, calda e amorosa: una madre, o un amante.

Due ultime citazioni, ricche di similitudini, questa volta. È appena stato caricato il treno in partenza da Westerbork verso Auschwitz, Etty è riuscita a evitare che i suoi genitori siano destinati a quel treno e scrive: «Mi sento come dopo un parto». Ad Amsterdam, ammalata, in attesa di tornare a Westerbork: «Faccio roteare una matitina come se fosse una falce, ma non riesco a falciare le molte escrescenze del mio spirito. Ci sono persone che mi porto dentro come boccioli e che lascio sbocciare. Ce ne sono altre che mi porto dentro come ulcere, finché si aprono e suppurano».15

E non posso dimenticare il ritmo sapiente, ma anch'esso lontano da ricercatezze, della sua prosa, con l'alternarsi di frasi ampie, distese, lente ad altre brevi e rapide, e di pause ora rade, ora ravvicinate.

In queste forme stilistiche si sviluppa la storia proveniente «dall'interno»16 di un'anima che va in cerca della propria verità e nasce a una vita nuova, grazie al mezzo potente dell'introspezione intrapresa con Spier, ma proveniente anche «dall'interno» del corpo di cui vengono registrate le emozioni, le passioni, le malattie, le cadute e le riprese, perché quell'anima è tutt'altro che disincarnata.

È un «interno» che ne interroga altri, che ininterrottamente parla con loro. Il Diario trabocca di voci: sono le citazioni degli autori cari a Etty, sono i colloqui avuti nella giornata e che lei cerca di trasferire tali e quali sulla pagina. Oppure è il monologo mediante il quale si rivolge, con il «tu», a se stessa o il discorso indirizzato ad amici non presenti. Una volta, dopo aver osservato sul cassettone di Spier il ritratto della sua fidanzata lontana, Etty dialoga a lungo con lei, esprimendo, come sempre senza veli, la piena dei suoi sentimenti contrastanti: rabbia, tristezza, gelosia, compassione.17 Ma, con una conversazione-preghiera sempre più fitta e incalzante, parla anche a Dio, un Dio incontrato nel profondo dell'interiorità, fuori da ogni istituzione.

Il diario comincia quando la persecuzione appare quasi ancora nello sfondo. Etty è una giovane donna di ventisette anni che vuole vincere la fragilità del suo corpo, i malesseri e le malattie sempre in agguato, la depressione, il senso di insufficienza, e attingere da se stessa i doni che intuisce di possedere, sebbene quasi sempre ne dubiti: il dono della scrittura, come si è visto, il dono di saper affrontare la sofferenza e il dolore, il dono di accettare il proprio destino. Parrebbe destinata a spezzarsi di fronte all'immane potenza nazista: riuscirà invece a dotarsi di una straordinaria forza, a essere di appoggio e conforto ad altri. Per capire fino in fondo la grandezza di Etty, è di questi inizi che bisogna tener conto.

Qualche giorno fa, dopo aver letto il libro di Nadia Neri, andando a ricercare certi passi del Diario e delle Lettere trovai nel Diario un ritaglio de «La Stampa», infilato profondamente tra le pagine, di poco posteriore a un convegno, il primo in Italia, credo, dedicato a Etty e svoltosi a Roma.

Un noto collaboratore de «La Stampa» di allora, persona sensibile, studiosa della cultura ebraica e attentissima ai temi della Shoà, in un elzeviro presentava la figura di Etty e ne metteva in luce soprattutto l'ebraicità, interpretando quasi esclusivamente in funzione di questa i principali atti della sua vita. Lo scritto così si concludeva: «Eppure, quando Etty sale cantando con la sua famiglia sul treno per Auschwitz, non è la serena accettazione della morte a ispirarli, ma, si sente, l'indomabile attaccamento ebraico alla vita […] Sono insomma riconoscibili in Etty Hillesum, dietro le maschere costruite dall'ambiente nel quale è vissuta, dietro i travestimenti estetici e mistici dell'esistenza di una ragazza sostanzialmente sola e dispersa, caratteri inconfondibilmente ebraici, presenti e operanti anche suo malgrado. Se Etty insiste a ripeterci che tutto è bello, è perché un'ebraica volontà di vivere fino in fondo vuole questo in lei. Un rivestimento ideale, poetico, ricopre in lei la solida, l'irriducibile, l'intima forza ebraica».18

Un altro ritratto, un'altra interpretazione, ho ritrovato nel libro Di fronte all'estremo, di Tzvetan Todorov, uno dei testi più belli di questo autore (i cui scritti sono stati illuminanti per molti di noi). Di Etty egli dice: «A leggere le pagine che ha lasciato, si ha l'impressione di fare conoscenza con un essere che si vorrebbe frequentare, annoverare fra gli amici, amare. […] A Westerbork è più che mai felice. Soffre soltanto quando deve assentarsi, come se le venisse tolto un privilegio. "Vorrei tanto partire [per tornare a Westerbork] mercoledì, anche se fosse solo per due settimane. […] Com'è possibile che quel pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato, dove si riversava e scorreva tanto dolore umano, sia diventato un ricordo quasi dolce?" Effettivamente c'è in tutto questo qualcosa di misterioso, e si comincia a desiderare che Etty Hillesum sappia anche soffrire della sofferenza, e non soltanto tramutarla in bellezza o in fonte di felicità. Ho tenuto a citare lungamente gli scritti di Etty Hillesum perché ne sono affascinato. Incontestabilmente era un essere straordinario […] L'atteggiamento illustrato da Etty Hillesum non è rassegnazione, ma il risultato è analogo: fatalismo e passività portano in definitiva a favorire il progetto omicida dei nazisti. Per tale motivo, nonostante la sua indiscutibile nobiltà, mi asterrò dal raccomandarlo a tutti gli oppressi della terra».19

Ho citato questi due autori: il primo perché la sua sopravvalutazione dell'ebraicità di Etty e il suo ricorso a vocaboli ed espressioni quali «maschere», «travestimenti», «ragazza dispersa», mi pare che sminuiscano, o addirittura tradiscano, il lungo cammino psicologico e spirituale di Etty, quanto di suo – e non soltanto di ebraico – ci fu nel coraggio con cui scelse di condividere il destino del suo popolo, e inoltre che la sua lettura esemplifichi lo sconcerto da cui è facile essere presi al primo incontro con la figura di Etty, così anomala per l'eccezionale limpidezza e il rigore morale, ma anche per l'apparente inconciliabilità fra i suoi molti amori umani e il suo cammino verso Dio; e il secondo perché ha tracciato un bellissimo ritratto, appassionato e ammirato, di Etty, e tuttavia non si sottrae anche lui, a mio giudizio, a deformazioni (non parlerei di «fatalismo» e «passività»), esasperando alcuni caratteri della sua personalità e attenuandone altri.

Ma molte reazioni di rifiuto anche totale ho constatato: non fui immune neanch'io dalla tentazione del rigetto quindici anni fa, a una prima lettura. Ad alcune obiezioni che continuo a sentire e alle mie di allora cerco qui di rispondere.

Anzitutto ben vengano le reazioni e i combattimenti interni che la vicenda di Etty e la forza di provocazione del suo messaggio sanno destare: sono traumi salutari. Anche per questa sua capacità di scuotere le coscienze Etty Hillesum è tra le persone che, una volta conosciute – non importa se, purtroppo, soltanto attraverso i libri –, non svaniscono dalla memoria e dal cuore e con cui si continua a dialogare. Sto pensando a Marcella Filippa che ha raccontato: «Le parole di quella donna, morta ad Auschwitz all'età di ventinove anni, mi hanno accompagnata nel tempo. Lette e rilette di tanto in tanto, quando ne sentivo il bisogno, ogni volta hanno saputo mantenere intatta la loro forza evocativa e ispiratrice […]».20

Non vedo la sua eccezionale forza interiore e la sua fiducia nella bontà della vita come una conquista raggiunta una volta per sempre che faccia di lei una persona estranea al sentire e al patire comune: umanamente essa conosce, anche quando la sua fede sembra divenuta incrollabile, gli abissi della paura, della stanchezza, della disperazione. Nella lunga lettera che ho già ricordato leggiamo: «Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: "E Dio creò l'uomo a sua immagine." Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile».22

E infine mi pare che il suo messaggio vada cercato non soltanto negli ultimi scritti in cui, «di fronte all'estremo», tende anch'esso a estremizzarsi verso le vette di una fede eroica, ma soprattutto nel motivo guida che percorre tutta la sua opera, nella convinzione profonda che nessun disegno individuale o collettivo di liberazione e di salvezza possa, se vuole essere fruttuoso, nutrirsi di odio. È un messaggio di cui credo che il mondo abbia oggi molto bisogno.


1Etty Hillesum, Diario 1941-43, Milano, Adelphi, 1985

2Nadia Neri, Un'estrema compassione, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 85.

3Frediano Sessi citato in Neri, Un'estrema compassione cit., p. 86.

4Hillesum, Diario 1941-1943 cit., p. 35.

5Ibid., p. 222.

6Ibid., p. 35.

7Etty Hillesum, Lettere1942-1943, Milano, Adelphi, 1990, pp. 132-34.

8Hillesum, Diario1941-1943 cit., p. 99.

9Ibid., p. 212.

10Jacques Sémelin, Senz'armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa. 1939-1943, Torino, Sonda, 1993.

11Hillesum, Diario 1941-1943 cit., pp. 159-60.

12Ibid., p. 165.

13Ibid., p. 114.

14 Ibid., pp. 114-15.

15Hillesum, Lettere 1942-43, cit., p. 91

16Hillesum, Diario 1941-43 cit, p. 238.

17L'espressione non è mia, ma di Béatrice Didier (L'écriture femme, Paris, Presses Universitaires de France, 1981, p. 37).

18Hillesum, Diario 1941-43, cit., pp. 129-32.

19Sergio Quinzio, Etty e la forza di Dio in «La Stampa», 17 gennaio 1989.

20Tzvetan Todorov, Di fronte all'estremo, Milano, Garzanti, 1992, pp. 212, 221-22.

21In Pascal Dreyer, Etty Hillesum, Roma, Edizioni Lavoro, 2000, pp. 163-64.

22Hillesum, Lettere 1942-1943, cit., pp. 128-129


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