[homepage]

[indice]
[seconda parte]



Prima parte

Prefazione

Maria Grazia Terzi, Stefania Terzi, Silvia Treves

            Etty era una giovane donna aperta, politicamente di sinistra, studiosa delle lingue slave e soprattutto della letteratura russa.
            Lo scopo principale di questo libro è la ricostruzione del percorso umano e delle riflessioni di Etty Hillesum, che si sono sviluppate costantemente, man mano che il piano di sterminio si realizzava.
            Nadia Neri, Un'estrema compassione.

Il 12 maggio 2000, organizzata da C.S. - Coop. Studi e dall'Associazione Culturale Nautilus, con il contributo della Città di Torino, Assessorato Decentramento e Progetti per le Periferie – Ufficio Politiche di Genere, si è svolta una giornata di studio e dibattito su Il pensiero di un'estrema compassione. Raccogliere l'eredità di Etty Hillesum.

Anni fa due redattrici di LN-LibriNuovi (rivista di recensioni librarie edita dalla C.S. e curata dall'Associazione Nautilus) avevano letto Diario e Lettere (tradotte da Chiara Passanti e pubblicate da Adelphi) di Etty Hillesum; nell'ottobre 1999 avevano poi incontrato Nadia Neri, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del Lager, edito da Bruno Mondadori, a Bose (BI) in occasione di una giornata di studio sulla figura di Hillesum, organizzata dalla Comunità Monastica là residente.

L'incontro con Neri e la lettura del suo libro, giunto poco dopo in libreria, mise in contatto le due redattrici con un'altra Etty: figura complessa, protagonista di eventi «eccezionali» e tuttavia «persona normale».

«Leggere Etty Hillesum è spesso ritenuto difficile e molti preferiscono ritrarsi tanto inquietanti e attuali sono gli interrogativi che suscita», dice Neri, spiegando di aver scritto Un'estrema compassione per un sentimento di ribellione all'oblio e alla rimozione e per il desiderio di restituire a Etty il posto che merita nella storia del Novecento. Neri giunge a questa sintesi: «Etty riporta in primo piano virtù di cui ora non si ha il coraggio di parlare»; queste virtù – virtù quotidiane per dirla con Todorov – sono «l'indignazione, la semplicità e la compassione». L'indignazione è per Etty sentimento alternativo all'odio; la semplicità un modo di vivere globale, capace di mettere al primo posto l'essenzialità tanto nelle capacità espressive quanto nelle azioni. «Per Etty la semplicità riguarda anche lo scrivere, la ricerca di uno stile essenziale e diretto»; Etty ci aiuta anche a scoprire il silenzio, tra una parola e l'altra, come dice emblematicamente in un passo. La compassione denota l'atteggiamento più profondo di Etty nei confronti della vita. L'aggettivo «estrema», che compare nel titolo del libro di Neri, «testimonia l'essere al limite dell'umano, come accadde nel lager nazista dinanzi alla morte».

Riflettere su Etty è utile e necessario, secondo Neri, «perché dopo Auschwitz sicuramente non siamo riusciti a costruire un mondo diverso, né migliore». Dopo la pubblicazione delle sue opere in forma parziale Etty è stata emarginata un po' da tutti, principalmente per la sua non appartenenza totale a una «chiesa»: la sua testimonianza di fede ha infatti un respiro universale, che le conferisce un tratto di estrema modernità. «Etty è stata fermata a ventinove anni. Molti di noi possono continuare al suo posto».

Continuare, raccogliere l'eredità lasciataci da quella giovane donna.

Il primo passo fu quello di recensire il libro di Neri per la rivista LN-LibriNuovi; seguì a breve la proposta all'Associazione Nautilus di promuovere un'iniziativa rivolta alla città per favorire la conoscenza di Etty Hillesum attraverso la mediazione di Nadia Neri, che ha frequentato in modo intenso e profondo le opere di Etty in versione integrale e ha potuto incontrare molte persone che con lei vissero ad Amsterdam.

La redazione della rivista e l'associazione Nautilus, impegnate in un'attività culturale a sostegno dell'editoria che pubblica libri meritevoli di «durare», accolsero con entusiasmo la proposta, anche se – sapendo di non avere le risorse economiche per sostenere da soli l'iniziativa – lasciarono aperta la questione della ricerca di contributi per coprire le spese dell'operazione. L'Assessorato Decentramento e Progetti per le Periferie – Ufficio Politiche di Genere si presentò come un naturale interlocutore. Presentammo il progetto all'Assessora Eleonora Artesio che si rivelò un'attenta conoscitrice delle opere di Etty e che condivise con noi il giudizio di opportunità di rendere accessibile alla città la figura di Hillesum attraverso il libro di Neri.

Così il 12 maggio hanno avuto luogo i due incontri con Nadia Neri previsti dall'iniziativa. Il primo, al mattino presso l'Istituto per il Commercio C.I.Giulio, intitolato Il pensiero di una estrema compassione. Raccogliere l'eredità di Etty Hillesum, era rivolto specialmente a studenti dell'ultimo anno e a docenti delle scuole superiori, e si proponeva di portare in luce e approfondire:

    1) l'esperienza e la formazione personale di Etty Hillesum;
    2) le forme del suo pensiero: una visione laicamente religiosa dell'azione umana e sociale;
    3) la questione estrema del male, del dolore, dell'ingiustizia, dell'impegno;
    4) l'eredità da raccogliere e gli interrogativi che essa pone secondo una prospettiva di genere (quali donne/quali uomini), e secondo quella generazionale e sociale (quali vecchi/quali giovani).

Intervenivano, oltre a Nadia Neri, Paolo De Benedetti, teologo, e Alberto Cavaglion, storico dell'Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Torino.

Il secondo incontro, pomeridiano presso la Sala dell'Antico Macello di Po, intitolato Etty Hillesum. Scrittura ed estrema compassione, era rivolto alla cittadinanza e particolarmente alle donne della nostra città, e si proponeva di sviluppare due temi:

    1) il legame tra scrittura e pensiero di Etty Hillesum e le forme nelle quali la sua esperienza ci è pervenuta: lettere e diario;
    2) l'esperienza di lettura delle fonti originarie (diari e lettere) da parte di Nadia Neri, autrice del saggio citato.

Intervenivano Marcella Filippa, storica, e Anna Maria Bruzzone, docente di lettere.

Gli atti dei lavori dei due incontri sono oggi disponibili in questo volume, per chi ha partecipato all'iniziativa e per chi invece non poté farlo. Sono stati preparati partendo dalla fedele trascrizione delle registrazioni dei due incontri, sottoposta agli intervenuti per evitare fraintendimenti o equivoci, ma senza ulteriore impegno da parte loro oltre a quello che già si erano assunti con grande disponibilità. La responsabilità di eventuali errori, imprecisioni e/o dimenticanze è quindi soltanto nostra.

Ringraziamo i relatori, Eleonora Artesio, Assessora al Decentramento e Progetti per le Periferie del Comune di Torino, la Dr.ssa Anna Maria Gallivanone, Ufficio Politiche di Genere, gli studenti e i docenti dell'IpC C.I.Giulio di Torino e tutte le persone che ci hanno sostenuto in quest'avventura.

Un ringraziamento particolare a Nadia Neri per la disponibilità, la passione e la generosità.

Il pensiero di un'estrema compassione.

Raccogliere l'eredità di Etty Hillesum

Maria Grazia Terzi, Paolo De Benedetti, Alberto Cavaglion, Nadia Neri

[MGT] Il tema di questo incontro con Nadia Neri, autrice del saggio Un'estrema compassione, è la sua esperienza di lettura e di analisi dei diari e delle lettere di Etty Hillesum.

Etty è una giovane donna olandese vissuta nel periodo della barbarie nazista, testimone e vittima dell'orrore dei campi di internamento e di sterminio. Non vogliamo proporvi una commemorazione, una lezione asettica di storia, ma l'incontro, il dialogo, con Nadia, una persona che noi, leggendo il suo libro, abbiamo sentito viva e vicina. La dimensione del nostro incontro non è quindi quella della distanza, ma quella dell'ascolto. Che cosa può ancora dire Etty, dopo tanto tempo, a chi ha la vostra età, e a chi ha la nostra età, e magari ha già letto versioni parziali dei suoi scritti? A discutere con noi abbiamo invitato Paolo De Benedetti, teologo, e Alberto Cavaglion, storico dell'Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza.

Partiamo da una frase del diario di Etty:

«Devi restare testimone di te stesso, prendere nota di tutto ciò che accade in questo mondo, non chiudere mai gli occhi alla realtà, devi venire alle prese con questi tempi terribili, cercare una risposta alle molte domande che essi ti pongono. Forse le risposte aiuteranno non te soltanto ma anche gli altri».1

Dopo Auschwitz si è molto riflettuto sulla natura e sull'origine del male, del male estremo. Si sono ascoltate voci complementari e constrastanti: c'è stato chi, come Eli Wiesel, si è chiesto dov'era Dio e chi, come Primo Levi, si è chiesto dov'era l'Uomo. In un saggio di Paolo De Benedetti (Quale Dio? Una domanda dalla storia, Brescia, Morcelliana, 1996) troviamo proprio questo riferimento: «Che Dio sia fragile, proprio perché è amore, è l'unica metafora, o mito, che lo salva dall'assedio del male e della colpa. Ma allora, noi siamo responsabili nei suoi riguardi»(p 26).

Proprio questa frase ci ha colpito, perché è tanto simile a ciò che ha scritto Etty: «Mio Dio sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano [...] Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi».2

È per questa affinità che chiediamo a Paolo De Benedetti di avvicinarci a questo argomento, così grande e così terribile: dove sia Dio e dove sia l'Uomo. Sappiamo che Paolo De Benedetti parla nella convinzione profonda che ciò che è orale deve restare tale. Ma per noi è troppo importante ciò che dirà per perderlo, quindi ci riproponiamo di raccoglierlo, con l'avvertenza che si tratterà di un testo incompleto, di spunti di riflessione proposti a voce e trascritti da noi sotto la nostra responsabilità

[PDB] Preparandomi a questo incontro, ho trovato per caso un articolo di giornale ritagliato quattordici anni fa, un articolo di Edith Bruck, scrittrice ebrea di origine ungherese, che scrive in italiano e che ha vissuto l'esperienza di quasi tutti gli ebrei della sua epoca. Questo articolo è uscito come recensione alla versione parziale del diario di Etty, pubblicato allora da Adelphi. Nella conclusione, Bruck dice proprio quanto ha detto ora Maria Grazia Terzi. Hillesum muore ad Auschwitz il 30 novembre del 1943. Era stata deportata il 7 settembre. Muore dopo due mesi, ringraziando ancora quel Dio che non l'aiuta più mentre lei lo aiuta custodendo dentro di sé, nel più profondo di sé, quell'entità pura e cristallizzata che fin dal principio chiama Dio. Ecco, questo tema, aiutare Dio, mi fa venire in mente subito un versetto della Bibbia (Isaia, 40, 1), che si può tradurre in due modi: il primo, quello che troverete in qualsiasi Bibbia: «Aiutate, aiutate il mio popolo, dice il Signore».

Ma i rabbini hanno proposto, non in sostituzione ma a fianco, un'altra traduzione: «Aiutatemi, aiutatemi, o mio popolo, dice il Signore».

Questo di aiutare Dio è un filone che percorre la tradizione ebraica e che è esploso, in un certo senso, con la Shoà. (Shoà è il termine alternativo a Olocausto, proposto per primo da Wiesel che in seguito se n'è pentito. Infatti «olocausto» è un sacrificio offerto dai sacerdoti a Dio, mentre l'uccisione degli ebrei, non è un'offerta a Dio né le SS sono sacerdoti, quindi oggi si preferisce Shoà, che in ebraico significa «catastrofe»)

Nella storia ci sono stati tantissimi momenti in cui l'estrema sofferenza, l'estrema tragedia poteva indurre a domandarsi «E Dio?», ma il popolo ebraico è stato così fedele al Patto da rispondere sempre: «Se Dio agisce così ha i suoi motivi e noi ce lo meritiamo». Con Auschwitz non è più stato possibile dare questa risposta. Solo qualche super ortodosso lo fa ancora,3 ma è in una posizione marginale, se non altro perché durante la Shoà sono stati uccisi anche un milione e mezzo di bambini ed è chiaro che i bambini non meritano nessuna punizione e non ha senso una prova su di loro. Naturalmente questo ha portato a interrogarsi su Dio in varie maniere, che non intendo esporre ampiamente. Ma anche quando la domanda è quella di Primo Levi: «Dov'era l'Uomo ad Auschwitz?», un credente, ebreo o cristiano che sia e qualunque risposta dia, deve ancora aggiungere, come ha fatto Bernard Malamud, il romanziere ebreo americano: «Perché Dio non ci ha fatti meglio?».

Ora, nel caso di Etty, Dio fa capolino, compare e non compare, perché il caso di Etty, benché spesso affiancato a quello di Anna Frank, è profondamente diverso se non altro per l'età; ci sono dodici o tredici anni di differenza tra loro. Semmai il diario di Etty andrebbe invece accostato a un altro diario, quello di Moshe Flinker, (Diario profetico. Riflessioni di un giovane ebreo nell'Europa nazista, Roma, Città Nuova, 1993), un giovane ebreo religioso (il suo diario è infatti stato scritto in ebraico, non in olandese) che, data la sua formazione religiosa, non poteva non imbattersi subito nel problema di Dio. Questo libro è, tra l'altro, legato a un episodio molto interessante e bello: l'edizione italiana era preceduta da una prefazione solo parzialmente positiva; il prefatore affermava, infatti, «[…] però se questo ebreo avesse conosciuto Cristo…». In sostanza, lo considerava mancante della risposta cristiana. Ci sono state alcune proteste e – questa è una delle poche volte in cui si sia tenuto conto delle proteste dei lettori – l'editore ha sostituito la prefazione con un'altra di tono diverso. C'è poi un altro diario, che io porrei in una posizione intermedia tra quello di Anna Frank e quello di Etty, il diario di un ragazzo polacco, Dawid Rubinowicz (Il diario di Dawid Rubinowicz, Einaudi, Torino, 1960, 20002).

Sono tutte voci spente, anche se accese dentro di noi. Leggendo le pagine di Hillesum e di tutti questi testimoni, mi viene da pensare una cosa in un certo senso terribile. Tutti voi conoscete la storia di Giobbe, nella Bibbia. Giobbe subisce tutte le vicende e i malanni che ha, perché Dio, in cielo, si vanta della bontà di Giobbe e allora il Satana (che non è il diavolo, ma un membro della corte celeste, l'angelo accusatore) dice a Dio: «Stendi un poco la mano a toccarlo nell'osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in Paradiso». Così c'è una scommessa fra loro, ma Giobbe supera la prova.

Nella finzione letteraria, però, chi è a conoscenza di ciò che avverrà a Giobbe? Dio, il Satana e il lettore, noi. Giobbe non lo sa, non sa come andrà a finire, che cosa gli accadrà. La sua è la medesima situazione di questi testimoni, che vivono in una sofferenza crescente. Siamo noi, noi che li leggiamo, che conosciamo la fine della storia. In Etty v'è un certo barlume della morte incombente, ma la sua fiducia nel mondo è tale che le sue ultime pagine finiscono con un arrivederci. Noi lettori sappiamo che non c'è stato alcun arrivederci.

Di tutti questi testimoni, Etty è il personaggio di cui scorgiamo meglio il «funzionamento». Paragoniamoli a un motore, anche se non è riverente: alzando il cofano di una macchina, noi scorgiamo tutti gli ingranaggi che girano, se il cofano resta chiuso non vediamo nulla. Di molti altri testimoni noi non possiamo scorgere il meccanismo di funzionamento, mentre di Etty possiamo seguire il complesso funzionamento del suo sentimento, della sua ragione, del suo inconscio. E a un certo punto, in questo «meccanismo», entra Dio. Etty non era un'osservante regolare di una determinata religione e questo rende molto più interessante l'ingresso di Dio nella sua riflessione. La cosa singolarissima è che lei non si ponga la domanda di Wiesel: «Dov'è Dio?».

Vorrei leggervi un piccolo brano di Pier Cesare Bori, docente all'Università di Bologna, in risposta alla domanda che gli è stata posta: «Vi è dunque una responsabilità che Etty attribuisce a Dio?»:

«A me sembra che questo Dio non sia considerato responsabile del male che l'uomo si trova a patire, semmai l'uomo stesso ne è causa e forse, in definitiva, neppure lui. L'uomo per molti versi è a sua volta schiavo di qualcosa di più grande di lui […] e questo [le grandi catastrofi che Etty sta vivendo] lei non lo ascrive nemmeno a Dio, pensa che sia la condizione naturale del mondo». In sostanza, a differenza di altri, come Wiesel o come Jonas e altri filosofi e teologi, Etty non si domanda perché Dio abbia permesso, abbia tollerato, tutto questo. Credo che la posizione di Etty sia una terza via, situata tra quella dei teologi della sofferenza di Dio e coloro che dicono «Dio è morto ad Auschwitz». Ma la sua è una via non comunicabile, nonostante Etty ce la racconti, perché può essere vissuta solo da una persona ricca e complessa come Etty; salvare Dio (cioè salvare l'idea che noi abbiamo di Dio) dalla domanda «Dov'era Dio ad Auschwitz?» è possibile solo a chi si prepara a morire ad Auschwitz. Nessuno che non abbia fatto questa esperienza ha il diritto di assolvere l'uomo o di assolvere Dio. Il che non significa accusare Dio, ma cambiare l'immagine che noi ne abbiamo. Etty ha vissuto la sua esperienza, prima nel campo di prigionia in Olanda, poi mandata «a est» (come si diceva di chi veniva inviato ad Auschwitz o a Birchenau); dal treno verso Auschwitz ha gettato fuori una cartolina; non sappiamo che cosa sia avvenuto nel suo animo negli ultimi due mesi, ma finché abbiamo la sua testimonianza, che da un certo punto in poi è consapevole della fine, noi vediamo nascere in lei ciò che nella Bibbia è forse il punto più alto, espresso nel capitolo 19 del Levitico, versetto 18: «Ama il prossimo tuo come te stesso», che i rabbini hanno interpretato «Ama il prossimo tuo perché è te stesso». Ecco, questo amore del prossimo è forse ciò che rende l'ultima fase della vita di Etty così unica. Perché molto spesso gli intellettuali amano se stessi più del prossimo o, se non altro, apprezzano se stessi. Invece la sua sensibilità porta Etty a essere sempre più per il prossimo che per sé e questo amore per il prossimo l'ha anche aiutata, perché le ha dato la forza di vedere quei piccoli raggi di luce che poteva far scorgere agli altri.

A conclusione, riporto qui qualche verso scritto da un mio amico, un cosiddetto «figlio dell'Olocausto», nato, cioè, dal successivo matrimonio di un ex deportato che aveva perso moglie e bambina nei campi di sterminio. I figli dell'Olocausto avevano quindi fratelli o sorelle mai conosciuti e che, nella loro anima e nella loro coscienza, apparivano come i «veri figli»; più di uno ha confessato che, quando i genitori li guardavano, avevano l'impressione che vedessero non loro, ma i figli morti. Questo amico aveva, come ho accennato, una sorellina uccisa ad Auschwitz prima che lui nascesse. Di questa sorellina mi ha inviato recentemente una fotografia. Sembra impossibile, guardando le foto di questi bambini belli, curati, pensare che siano poi finiti in fumo. Vi leggerò alcuni versi che l'amico ha scritto,4 perché mi sembrano contenere un messaggio molto simile a quello di Etty:

4. Promettimi

che mi darai la mano

il giorno che arriverò da te.

Perché, sai,

un po' di paura

mi è rimasta...

5. Ora ti saluto, sorellina.

Aiutami a vivere, se puoi.

E anche a morire.

Come ti ho già detto,

spero d'incontrarti un giorno.

E immagino che sarò molto emozionato.

Ecco, forse queste parole riassumono bene il messaggio di Etty e ciò che lei può ancora dirci: ci aiuta a vivere, e, quando sarà il momento, ci aiuterà anche a morire.

[MGT ] Nadia Neri scrive nel suo saggio che il diario e le lettere di Etty, nella loro edizione integrale, descrivono il cammino psicologico, intellettuale e spirituale di una giovane donna dai ventisette ai ventinove anni. La stesura di questi scritti inizia nel marzo 1941 e giunge fino al 1943. È dunque una testimonianza, dice l'autrice, di resistenza esistenziale al nazismo. Etty non è solo cronista dei suoi tempi, è anche una testimone profondamente cosciente del ruolo, che sarà fondamentale, della memoria per il futuro.

Voglio chiedere ad Alberto Cavaglion di aiutarci a inquadrare storicamente Etty e di parlarci dei problemi e delle domande che si devono affrontare per cercare di elaborare e non di rimuovere la Shoà.

[AC] Voglio ricordare alcune cose importanti per un inquadramento generale. Innanzitutto l'età. Etty quando scrive il suo diario, nel 1941, ha ventisette anni e questo diario non è assolutamente paragonabile a quello di Anna Frank, molto più giovane. Etty ha invece competenze non solo in storia della filosofia ma anche nel campo dell'analisi psicologica; ha sperimentato la terapia analitica junghiana, sotto la guida dell'uomo che ha amato di più. Proveniva da una famiglia ebraica non religiosa che come altre dell'Europa centrale avevano identificato nell'Ottocento, nella filosofia idealistica di Kant e di Hegel, la nuova religione che avrebbe sostituito l'antica. E quindi nel suo viaggio nella terapia analitica non vi è nulla della cultura ebraica tradizionale. Questo non le avrebbe impedito di condividere pienamente l'esperienza dei suoi correligionari olandesi (lo sottolineo perché le differenze nazionali sono importanti). E questo suo essere olandese e non italiana, rende assolutamente non confrontabile i suoi scritti con quelli di Primo Levi. Etty sperimenta la Shoà nel campo di Westerbork, che è un campo di transito, su cui ci è rimasto un bel libro: La notte dei girondini di Jacob Presser, che in italiano ha la prefazione di Primo Levi, pubblicato sempre da Adelphi (1976, 19972). È la storia di un campo con specificità diverse da quella dei campi di sterminio tedeschi. Si tratta di un campo dove Etty va volontaria, quando capisce che la situazione sta precipitando e può sottrarsi a responsabilità di tipo civile, per aiutare il prossimo. Appartenendo a una famiglia di tradizione laica e con questo tipo di tradizione, Etty individua soprattutto nella scrittura la propria capacità di reagire al precipitare degli eventi, dal 1941 la scrittura diventa il suo modo di percepire la realtà: «Ciò che scrivo deve essere subito perfetto, mi rifiuto di fare esercizi di riscaldamento, non sono nemmeno convinta dei miei doni […] tutto questo per mancanza di esercizio quotidiano nella cosa per la quale mi ritengo più dotata: la scrittura». Scrivere in una situazione di questo genere (si veda in proposito il saggio Scrittura e persecuzione di Leo Strauss, Marsilio, 1990) porta a elaborare un tipo di scrittura assolutamente diverso da ogni altro. La scrittura elaborata in una situazione di persecuzione è fortemente allegorica, rimanda a qualcosa d'altro anche quando – come fa Etty – parla dei gelsomini davanti alla finestra o dei libri sulla sua scrivania.

Questo rende ragione dello stile della Hillesum, definito fortemente visionario, pieno di riflessioni su cose e oggetti, anche apparentemente insignificanti. Gli elementi di questa scrittura sono però l'individuazione delle virtù quotidiane. Neri ricorda la distinzione di Todorov tra virtù eroiche e virtù quotidiane. Etty rifiuterebbe qualunque definizione di lei come eroina o santa. È una ragazza normale, che fa cose normali, che ama scrivere e che coltiva virtù quotidiane, come l'indignazione, non l'odio. Vi sono pagine del diario contro l'odio e a favore di una virtù quotidiana come lo sdegno, che è un aspetto molto importante della sua scrittura. Ma vi è senza dubbio un aspetto che mi sembra più interessante, e poco indagato dagli studiosi, e cioè come a questo tipo di scrittura si possa pervenire attraverso la terapia analitica. Il percorso di Etty va da una radice fortemente laicizzata (non anticlericale, non atea), a una riscoperta della religione, a un tipo di scrittura che si nutre delle Confessioni di Agostino, di poeti dell'Ottocento e del Novecento che avevano dato grande rilevanza all'esperienza religiosa, come Rilke. Ciò avviene, e mi sembra estremamente interessante, attraverso la terapia analitica junghiana. Noi viviamo in un periodo in cui l'analisi, sia freudiana sia junghiana, non gode di buona stampa. Quindi ci è difficile capire una gioventù che passando attraverso questa forma di analisi sia giunta a una riscoperta della fede o a porsi il problema di Dio. Spesso questo avveniva, allora, attraverso l'affermazione di sentimenti privati, ad esempio l'amore. Etty arriva a scoprire Jung attraverso una vicenda sentimentale, s'innamora del suo maestro e terapeuta. Neri, giustamente, sottolinea come – quando il diario venne pubblicato per la prima volta – certe correnti femministe avessero la tendenza a negare l'influenza di Spier, a forzare l'esperienza di Hillesum, riducendola. Anche sul suo ebraismo e avvicinamento al cattolicesimo vi sono state alcune letture non prive di rigidezza che è opportuno superare. Anche con Freud un grande studioso dell'ebraismo (Yerushalmi) ha tentato una lettura di questo genere, cercando di capire quali fossero le interconnessioni tra l'analisi dell'inconscio e la riscoperta della fede. Questo mi sembra un elemento determinante, che rende unica la lettura delle Lettere e del Diario.

L'altra cosa che rende il diario un unicum è il fatto di essere una testimonianza diretta degli avvenimenti. Anche su questo Neri insiste, perché il diario di Hillesum è un'esemplificazione di un ricordo in presa diretta. Non racconta a posteriori, ma in tempo reale. Si tratta, comunque, di una scrittura che arriva a trasformarsi in una sorta di preghiera laica, le lettere stesse assumono le caratteristiche della preghiera. Che cosa può rappresentare un'autrice di questo genere, un simile esempio, per il lavoro fatto in classe dagli studenti, che senso può avere la lettura dell'opera dif Hillesum in un'età come la vostra? Questo è un concetto che ritengo molto importante.

Devo con molta franchezza esprimere alcune perplessità su questi anni nei quali la Shoà – non possiamo negarlo – è diventata un po' una moda. Io guardo con molta preoccupazione sia nel mondo della scuola, sia nel mondo dell'intrattenimento, del tempo libero, a questo diluvio di libri, di film che hanno il lager come oggetto di indagine. Non ho prevenzioni di nessun tipo, non nego nemmeno alla comicità o alla fiaba il diritto di interrogarsi sul perché Auschwitz o sullo scrivere su Auschwitz. Ho dubbi sull'operazione in sé e sulla moda che sta diffondendosi nel nostro paese, per le sue dimensioni, soprattutto perché molto spesso ci troviamo di fronte a libri o più precisamente a film che tendono ad abbellire ciò che non può essere abbellito. Le storie che i diari di Hillesum ci raccontano, le storie dello sterminio, della Shoà, non possono confortarci, non sono nate per confortarci, sono storie sgradevoli, scabrose, non piacevoli a vedersi né a leggersi. In nessun modo possono essere abbellite e addolcite per confortare noi testimoni e giovani che viviamo la società di cinquanta-sessant'anni dopo. Se abbiamo bisogno di conforto e rasserenamento dobbiamo rivolgerci ad altro. Nessuno ci impone il dovere di testimoniare. Io guardo con sospetto alle richieste per decreto ministeriale – come due o tre anni fa – rivolte alla scuola di commemorare a forza le leggi razziali. In questo il mio residuo sessantottino insorge: dall'alto non si può imporre nulla, nemmeno la testimonianza su cose così alte. Occorre riscoprire in classe la spontaneità di alcune testimonianze e poi giungere alla lettura di testi significativi come il diario della Hillesum o altri, tenendo presente che viviamo in un paese dove le mode vanno e vengono. Oggi la Shoà ci assorda, venti o trent'anni fa sulle leggi razziali era silenzio, nessuno le ricordava. Questa è una caratteristica deteriore dell'ondeggiamento culturale del nostro paese, che ci fa temere che a questa moda seguirà nuovo silenzio. Bisogna guardare con atteggiamento distaccato, freddo se volete, a un argomento che si presta alle forzature emotive. È sbagliato affrontare il tema del lager solo sulla base delle emozioni. Viviamo già in un mondo che gioca con le nostre emozioni: piangiamo per Titanic, per la morte di Lady D, facendoci forse perdere quel senso della ragione e della comprensione che può aiutarci non soltanto a ricordare, ma anche a capire Auschwitz.

[MGT] Etty, mi pare, ci dice cose non alla portata di tutti. Paolo De Benedetti ci ha parlato di questa domanda su Dio, una domanda antica, e ci ha detto che può fornire la medesima risposta di Etty solo chi è come lei. D'altra parte, ci viene detto, Etty è una persona complessa, piena di contraddizioni, che il testo di Nadia Neri mette in evidenza senza abbellimenti. E allora dobbiamo coltivare le virtù quotidiane. Etty non è un'«anima bella», una che si commuove facilmente, è una giovane donna che scava nella vita, che cerca e prende tutto ciò che c'è. Vorrei passare la parola a Nadia Neri, perché ci aiuti ad avvicinarci alla Etty che ha incontrato leggendo le lettere e il diario in edizione integrale. Per capire dove possiamo collocarci noi, che cosa ci può ancora dire questa lettura, nei tempi in cui ci troviamo a vivere e per capire se questo incontro con Etty possa non consolarci – perché non deve consolarci – ma almeno confortarci, nel senso di darci forza, aiutarci a trovare la nostra forza: per esprimere indignazione, semplicità e compassione.

[NN] Parlando per ultima vorrei farvi prima «sentire» e poi riflettere, su quanto ciò che stiamo facendo noi stamattina, ossia parlare a persone giovani di Etty Hillesum, sia importante.

Etty è una persona molto poco conosciuta. Sicuramente prima di venire qui, oggi, voi tutti conoscevate Anna Frank e quasi nessuno Etty Hillesum. Anche se andate ad Amsterdam è la medesima cosa: la casa di Anna Frank è divenuta un museo visitato con commozione e raccoglimento da migliaia di turisti. La casa di Etty è a malapena segnalata da una targa ed è attualmente abitata da altre persone.

Perché Etty è così poco conosciuta? Intanto perché i diari e le lettere pubblicati in Italia da Adelphi (ma è così in molti altri paesi) sono un'edizione parziale di tutti i diari e le lettere che ha scritto. Nell'edizione integrale e critica olandese le pagine sono circa il doppio, più o meno seicento. Ciò che noi leggiamo è quindi soltanto una parte, che rischia anche di deformare il ritratto di Etty, che nella versione integrale appare molto di più come una donna normale; sottolineo questo anche per avvicinarvela, perché se la consideriamo una persona eccezionale, voi uscirete da questo incontro pensando di aver fatto un'esperienza culturale, di un certo interesse, avendo conosciuto meglio una figura poco nota. Invece io ci tengo a farvi compiere l'operazione contraria, cioè a farvi comprendere come Etty fosse una persona «normale», come noi, ossia con grossi problemi psicologici, ad esempio di rapporti con i genitori, di incomprensione, come li abbiamo avuti noi e ora li avete voi. Etty aveva una madre dal carattere molto instabile che le creava difficoltà. Aveva disturbi psicosomatici: nei diari, ad esempio, racconta dei suoi problemi col cibo o di come arrivi a prendere fino a mezzo chilo di aspirina al mese. Etty era una donna che viveva due storie sentimentali contemporaneamente, con due uomini anziani, uno dei quali – Spier – oltre che amico e amante, è anche il suo psicoterapeuta. Non una santa, dunque, ma una donna viva e consapevole, una persona vicina a noi, che si è trovata a vivere un periodo terribile, quello della persecuzione antisemita. All'epoca è una donna giovanissima; ricordo che, appena letti i diari, ho pensato che alla sua età mai sarei riuscita a pensare e fare tutto ciò che lei ha pensato e fatto. Si è trattata di una constatazione, che non mi ha fatto sentire malissimo, e – proprio partendo da questa mia consapevolezza – ritengo importante cercare di capire che cosa voi possiate trarre da questa figura.

Va sottolineato che la maggior parte delle cose che noi studiamo a scuola o che possiamo leggere su quel periodo sono state scritte dopo. Etty invece, si trova a vivere suo malgrado in quel periodo terribile, comprendendo, alla sua giovane età, che bisogna vivere in un certo modo – che ora cercherò di descrivere – affrontare in un certo modo i nemici, i nazisti, le persecuzioni e scrivere per fare memoria, perché è importantissimo ricordare. Etty scrive con ansia, alla ricerca della parola che possa avere un senso evocativo e riesca a trasmettere l'indescrivibile, cioè il senso profondo, l'orrore della persecuzione. E si misura con queste difficoltà in contemporanea, cioè mentre avvengono le cose di cui parla. Fose molti di noi avrebbero semplicemente cercato di sopportarle. Lei, allora si trova nel campo di transito di Westerbork, da dove poi tutti gli ebrei olandesi e in parte gli ebrei tedeschi rinchiusi nel campo venivano mandati a gruppi di duemila persone alla settimana, ad Auschwitz. I nazisti orchestravano abilmente una situazione di tensione terribile esponendo una settimana prima la lista delle duemila persone che sarebbero partite il martedì successivo; per un'intera settimana tutti cercavano – testimonia Etty – di non partire, facendo tutto il possibile, cose lecite e illecite. Etty non lo fa mai, perché, dice, «[…] se io non partissi, partirebbe un altro al posto mio e io sono convinta che, dopo, non potrei reggere ai sensi di colpa». Questa è un'intuizione molto profonda: infatti tutti gli studi compiuti da psicoanalisti freudiani e junghiani, sui sopravvissuti alla Shoà, testimoniano l'irreparabilità della ferita, la loro vita angosciata, in preda al senso di colpa di essere sopravvissuti. È un discorso molto lungo, questo, ma fondamentale, e commuove che Etty abbia compreso questa realtà, senza fare discorsi eroici: lei non ritiene che tutti debbano seguire il suo esempio, parla a livello personale rifiutando, semplicemente di salvarsi a spese di altri. Questo è uno dei discorsi fondamentali che percorrono i suoi scritti. L'altro è che Etty testimonia un'esperienza interessante, cioè il suo cammino, che inizia con una psicoterapia per capire se stessa, per conoscersi, e giunge a fare un uso incredibile, bellissimo, vitale della psicoterapia, cioè dell'importanza di guardarsi dentro. Durante le persecuzioni Etty dice ai suoi amici «non bisogna odiare». Allora, tutti i suoi amici – lo potete immaginare – parlavano contro i nazisti e contro ciò che stavano facendo in Europa. Quando noi parliamo «contro» le dittature, il nazismo ad esempio, ci sentiamo tranquilli, perché difendiamo una causa giusta. Ma Etty sottolinea: «indignarsi è fondamentale, dobbiamo indignarci, ma odiare no, perché odiare rende solo il mondo sempre più inospitale».5 Etty comprende che odiare peggiora il mondo. Psichicamente l'odio è proiettare sull'altro ciò che non vogliamo vedere in noi stessi. La proiezione è il meccanismo base: vediamo nell'altro i problemi e i difetti che non vogliamo vedere in noi. Etty ci dice, in sostanza, di non proiettare sui tedeschi tutto il male che i nazisti stanno facendo storicamente. Ho cambiato termine perché anche Etty afferma: «[…] se anche un solo tedesco non partecipa a questo orrore, noi dobbiamo proteggerlo e salvarlo, non incolpare tutto un popolo». Etty, sottolineo, lo dice mentre è perseguitata e questo non è facile. Ciò che dice agli amici è «Dobbiamo avere il coraggio di guardarci dentro, perché possiamo cambiare il mondo solo con l'introspezione». La sua non è una forma di invito alla passività, all'acquiescenza, né un messaggio simile a quello spesso ripetuto dai media: infischiamocene, pensiamo solo a noi stessi. È invece, al contrario, un invito a non proiettare sull'altro, a capire. Dice, a un certo punto, riferendosi alla realtà degli ebrei nei campi: «Ogni giorno sentiamo dire che non vogliamo sentire, non vogliamo sapere, che vogliamo dimenticare il più possibile. Questo mi sembra molto pericoloso». Questo è un altro punto chiave del suo pensiero. Etty testimonia non solo con i propri scritti, ma – ciò che è molto più difficile – con la propria vita, innanzitutto la necessità di non odiare, e questo è il primo passo, e poi che è importante in una situazione di orrore come quella di un campo nazista, che vi sia chi testimoni un senso di umanità, attraverso gesti di aiuto materiale, come dividere un pezzo di pane, dare una coperta, o di solidarietà psicologica verso chi è disperato; Etty ci ricorda l'importanza di non perdere la nostra umanità quando tutti, carnefici e vittime, sembrano averla persa.

Discorsi come questo spiegano, almeno in parte, perché Etty sia così poco conosciuta: non era simpatica nemmeno a molti contemporanei, perché aveva il coraggio di criticare anche i suoi amici ebrei. Continuare a criticare, a pensare, a denunciare, avere la forza di continuare a scrivere, sono cose che Etty riteneva molto importanti.

Partendo da un'introspezione psicologica Etty arriva alla scoperta della spiritualità, dopo un lungo lavoro su se stessa; questo cammino la porta a scoprire una fede che non è una fede di chiesa. Dalla fine della guerra cristiani ed ebrei tentano spesso di etichettare Etty; dopo le presentazioni molti mi dicono: «Etty era cristiana», oppure «Era poco ebrea» o, al contrario, «Era molto ebrea». Secondo me, le si rende giustizia solo se si capisce che non merita etichette: lei è ebrea e, in quanto ebrea, va a Westerbork e poi ad Auschwitz, e vi muore; resta quindi profondamente ebraica. Ma la sua fede è al di là delle chiese, intese come istituzioni, è una fede profonda, arricchita da letture complesse, ma è soprattutto un'esperienza forte e spontanea di Dio, una rivalutazione della preghiera, del rapporto con Dio. Ho intitolato il mio ultimo capitolo «Aiutare Dio» e vi è già stato spiegato che cosa dice Etty in proposito: non è Dio che deve aiutare noi, ma noi che dobbiamo aiutare Dio, perché egli ci chiederà conto. Etty dice di Spier: «Spier ha dissotterato Dio in me e io, ora, voglio farlo con tutti gli altri uomini». Anche qui mostra il coraggio di esprimere con parole semplici concetti difficili: «Devo amare gli altri perché sono creati da Dio». Questa, di Etty, è una religiosità molto aperta e moderna, che può avvicinare, ancora oggi, molte persone incredule ma alla ricerca di qualcosa, a un discorso spirituale. Etty ci trasmette tutti questi contenuti usando una scrittura molto bella, affascinante. La lettura degli scritti di Etty è in qualche modo inquietante, e ci suggerisce che ciò che lei è riuscita a fare, a comprendere, potremmo farlo e comprenderlo anche noi.

Dibattito

[MGT] Qualcuno di voi conosce la musica e i testi di Meira Asher? È una giovane donna, una musicista che vive in Israele e lavora a Gerusalemme con il Centro per i Diritti Umani e che, invertendo la definizione classica, si presenta come palestinese-ebrea. È la cantante di un gruppo musicale che fa musica acid trasmettendo messaggi molto forti. Tra l'altro ha composto un testo e una musica, insieme martellante e aperta a spiragli di possibilità future, proponendo una risposta alla poesia di Primo Levi Se questo è un uomo. Nel suo spettacolo affianca ai versi che riecheggiano le domande e le ingiunzioni di Levi immagini di orrori, disumanizzazioni degli altri, non escludendo nessuna parte del mondo e ogni volta ripete «[…] e noi non l'abbiamo fatto e…» (ovvero: abbiamo fatto l'esatto contrario…) Ma quelle «e…» lasciano aperta una possibilità. La musica è molto curata e fa un grande uso delle percussioni. Mi sembra un buon esempio di attualizzazione, che non vuole «rendere di moda» un argomento difficile, ma testimoniare una verità che persiste e la necessità di continuare a fare qualcosa in proposito. Durante lo spettacolo a cui ho assistito ho colto chiaramente la sua indignazione. E mi ha colpito anche l'uso di una musica forte – che spesso ha veicolato messaggi «contro» – per capire che cosa fare. Penso che vi potrebbe anche piacere.

[PDB] In un recente recital di Marina Bassani sono stati presentati anche brani di Etty Hillesum. Cominciano a circolare su questo tema anche forme intermedie di spettacolo, non più solo le consuete letture.

[Docente] Farò una domanda da insegnante di storia. Mi ha molto interessato il discorso del professor Cavaglion sulla difficoltà di affrontare questo periodo di storia in classe. È vero, parlando di questi argomenti si è sempre sospesi sul coinvolgimento emozionale, per avvicinare quell'esperienza si presentano film (La vita è bella, Schindler's List, Train de vie) e letture (L'amico ritrovato e tanti altri). Ma questa è una strada rischiosa, perché dopo il coinvolgimento emozionale i ragazzi, che vivono ormai a una distanza temporale molto grande da quegli avvenimenti, sentono naturalmente che è giusto indignarsi, ma anche che tra questa indignazione e la loro esperienza del mondo non c'è contatto. Terminata l'esperienza emozionale, resta la difficoltà di riportare tutto questo dentro la loro vita di oggi e di capire che cosa possa significare per loro. Quest'autunno ho accompagnato la classe ad assistere a uno spettacolo basato su una riduzione de L'istruttoria di Weiss. All'interno dello spettacolo erano state inserite testimonianze di ex deportati, tutti ormai ottantenni, in parte ebrei, in parte ex partigiani, che mettevano in rilievo il fatto che la loro esperienza di allora non è chiusa e definita una volta per tutte. Gli eccidi e gli stermini si verificano tutti i giorni, eppure noi guardiamo con indifferenza le immagini di tutte le guerre di oggi, gli sbarchi degli albanesi sulle nostre coste, o l'arrivo dei messicani che attraversano clandestinamente la frontiera con gli Stati Uniti, eppure la nostra conoscenza dell'esperienza di allora non ci permette di leggere nulla di questo presente. Mi piacerebbe, per loro che sono le generazioni future e che porteranno con sé la testimonianza che noi siamo in grado di lasciare, capire se questo modo diverso di affrontare il discorso, le letture che sono state proposte qui, questa mattina, possono essere uno strumento per aiutarli a comprendere che quel diario, quella testimonianza si riferiscono a un passato che potrebbe divenire un presente. Vorrei che i ragazzi si interrogassero su questo, su come possa essere attuale una testimonianza scritta nel 1943.

[AC] Purtroppo non esistono ricette preconfezionate. La comparazione con altre fonti è indispensabile. Uno dei rischi è quello di collocare Auschwitz fuori della storia, come un'entità metafisica non confrontabile con null'altro, un unicum da venerare. L'unicità, invece, non esclude la comparabilità. Entrambe sono categorie necessarie. Arrivare ad attualizzare è senz'altro importante. Non ho ricette, ma vi sono cose che non si possono più fare. Io ho insegnato per tanti anni, ancora lavoro nel mondo della scuola. Oggi vi sono percorsi non più praticabili, eppure lo erano fino a non molti anni fa. Le adunate oceaniche che si svolgevano in prossimità del 25 Aprile a Torino nelle scuole, per cui davanti a tre-quattrocento studenti si trovavano un ex deportato, un ebreo, un militare, un partigiano, per commemorare dieci minuti ciascuno, davanti a ragazzi che ascoltavano sorpresi. Poi si scoprì che coloro che maturavano pensieri stravaganti quel giorno a scuola non venivano, ma esponevano le loro considerazioni, talvolta poco edificanti, nella solitudine del tema. Allora meglio lavorare nel concreto, con pochi, sui testi. Come questi della Hillesum, testi non canonici, oppure storie apparentemente marginali e dimenticate, come ho cercato di fare raccontando le vicende della famiglia Diena nel mio libro Per via invisibile (Bologna, Il Mulino, 1998). Rispetto a testi che hanno avuto grande ospitalità nelle antologie scolastiche, ad altri, come quelli di Etty Hillesum, di Edith Bruck, di Liana Millu, molti testi di scrittrici, hanno avuto solo rare inserzioni mentre hanno grande capacità di comunicare, ad esempio alle ragazze, la problematica della scrittura femminile, una tematica di genere che altrimenti non ha molti echi. Un'altra cosa che facciamo, come Istituto della Resistenza, è girare per le strade della nostra città, chiedendoci che cosa sia rimasto della Torino di cinquant'anni fa. [A questo punto, Cavaglion mostra una foto scelta come copertina per la guida Torino 1938-1945. Una guida per la memoria – edita dallo stesso Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e dalla Città di Torino, 2000, e dice, N.d.R.] Questo è un pezzo del selciato di corso Re Umberto 9bis, un tratto di strada che Primo Levi percorreva tutti i giorni, essendo non lontano da casa sua, cui ha dedicato un articolo, poi raccolto in un volume, che si intitola Segni sulla pietra. Questo è uno spezzone della bomba che ha tranciato in due un marciapiedi di Torino. Se passate di lì oggi trovate tutto così come allora, quando la città subiva i bombardamenti. Oppure osservate le «R» che indicano che in quella casa c'era un rifugio antiaereo. La cosa singolare che Levi annota nel suo articolo è che si accorge di certi particolari, che altri non colgono, perché «un deportato è abituato a camminare a testa bassa». A Torino vi sono ancora, in Via Verdi edifici che portano i segni dei bombardamenti. In Via Lombroso 13 c'era – uguale a ora – la sede dell'orfanotrofio israelitico della Comunità di Torino. Di lì nel 1943 partirono cinquanta bambini salvati miracolosamente da una maestra di quella scuola, che li sottrasse alla deportazione portandoli fuori, come per una passeggiata e li nascose in una villa in collina. La nostra città non si è trasformata, porta ancora i segni visibili di quegli anni. L'albergo Nazionale, di piazza CLN, porta lo stesso nome di allora e ospita turisti ignari del fatto che allora invece vi risiedevano la Gestapo, le truppe tedesche e vi venivano torturati gli antifascisti.

Questo è un possibile modo concreto di toccare con mano quell'esperienza. Anche qui vi sono pericoli che vanno ben messi a fuoco. Non è comunque semplice fare didattica su Auschwitz. Non vi è dubbio che nessuna esperienza scolastica attiri l'interesse degli studenti come la voce – in una classe, non di fronte ad adunate oceaniche – di un testimone. Resta, ovviamente un punto di partenza, la testimonianza non esime dalla comprensione. Ci vuole la lettura, la ricerca, l'indagine, l'approfondimento. Ma fino a che è possibile la testimonianza resta una grande risorsa.

[PDB] Vorrei aggiungere anch'io qualcosa. Non so se qualcuno di voi ha visto un video prodotto dal CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) che si intitola La memoria. È molto interessante perché è costituito da una serie di interviste a superstiti dei lager. In quell'occasione, però, non sono stati intervistati scrittori, intellettuali, ma gente comune, persone che non esprimono riflessioni di tipo teologico o filosofico, ma raccontano. Ne raccomando caldamente la visione, perché se da un lato abbiamo testimonianze come quelle di Wiesel, Hillesum e Levi, dall'altro abbiamo la parola di persone come queste, che non avrebbero mai saputo scrivere nulla.

I revisionisti, a volte, tirano sul prezzo, dicono «non erano sei milioni, i morti, solo tre», come se potesse esservi una differenza. Ma spesso certe frange affermano: «Gli europei hanno ammazzato ben più di sei milioni di persone durante la loro storia, ad esempio durante la conquista delle Americhe». È vero, la Shoà non è l'unica e neanche la più grande strage della storia ma ha due unicità di altro genere; la prima è che è stata compiuta nel cuore dell'Europa, continente che si considerava più civile e moderno e che si vantava della sua civiltà e spiritualità, a opera di un'assoluta maggioranza di battezzati; la seconda unicità è che nella storia non si è mai verificata, a quanto risulta, nessuna strage, anche più sanguinosa e ampia, che abbia avuto la motivazione della Shoà. Tutte le altre, compiute da chiunque, in qualsiasi luogo, hanno sempre avuto una «finalità»: ti ammazzo perché sei il nemico, perché voglio le tue ricchezze, il tuo territorio. Nella Shoà, invece, la condizione necessaria e sufficiente è «nascere»: poiché sei nato, ti voglio, ti devo uccidere. E questo è un mistero, un mistero di malvagità. La Shoà può diventare – ed è diventata – uno strumento di critica storica per interpretare tutti gli altri stermini. Forse l'unico che gli somigli, è quello di Pol Pot, in Cambogia, dove però non era sufficiente nascere, bisognava almeno saper leggere e scrivere. Questa è l'unicità della , Shoà un'essenzialità negativa che è avvenuta nel culmine della civiltà mondiale. Aggiungo ancora che non bisogna mai dimenticare che c'è un altro emisfero di testimonianze, meno conosciute ma fondamentali: le testimonianze degli assassini. Ad esempio, c'è un libro di Dressen e Ries edito da Giuntina (Firenze, 1984): Bei tempi, lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l'ha eseguito e da chi stava a guardare. È un'antologia curata da tre tedeschi, composta di lettere, memoriali, relazioni di SS e di burocrati. Leggerla è terrificante: ad esempio c'è un generale delle SS che celebra l'eroismo dei suoi soldati, che consiste nell'uccidere bambini ecc. e poi tornare a casa ed essere padri amorevoli. C'è la relazione di due cappellani militari dell'esercito tedesco, un cattolico e un protestante, di stanza in una zona dell'Ucraina occupata. Qui c'è una casa dove sono rinchiusi novanta bambini i cui genitori erano stati ammazzati pochi giorni prima. I bambini, di età compresa tra pochi mesi a sette anni, sono chiusi nel caldo terribile del mese di luglio, gemono e si lamentano incessantemente, cercano di leccare l'intonaco per la fame e la sete. Uno dei due cappellani nella relazione al comando dichiara che non è tollerabile che queste cose siano sotto gli occhi di tutti, perché i soldati ne sono sconvolti. Vede, cioè, la cosa come un pericolo per la psiche dei soldati tedeschi. Il giorno dopo questi bambini furono uccisi tutti. E il comando rispose ai cappellani intimando di occuparsi degli affari loro. Ecco, il libro raccoglie materiali come questo. Io credo che sia indispensabile conoscere anche le testimonianze dell'altra parte, proprio per il dilagare del revisionismo e di coloro che per fini politici negano tutto ciò che è stato.

[Anna Maria Bruzzone] Vorrei fare una domanda agli studenti. Quando voi leggete qualcosa che riguarda la Shoà o lo sterminio compiuto dai nazisti, che cosa provate? Riuscite a trovare un legame con la vostra vita di oggi? Quando vedete un film o ascoltate le parole di un testimone, vi sembrano cose lontane, isolate nel tempo, o ne ricavate qualcosa per la vita di oggi? E dove avete per la prima volta sentito parlare di queste cose?

[D] Spesso in letteratura si scrive di dolore, di consapevolezza della sofferenza. Mi sembra che dal libro di Nadia Neri e dalle opere di Etty Hillesum emerga qualcosa di importante. Questa giovane trova Dio attraverso un'esperienza spaventosa. L'autrice del saggio ci ha detto che è arrivata alla consapevolezza di Dio, alla percezione della Sua presenza nella propria umanità, grazie a una introspezione di tipo analitico. Non vi siete mai interrogati su come sia possibile trovare Dio attraverso la sofferenza? Siete convinti che sia possibile che accada così?

[MGT] Questa è una domanda difficile e lo è anche quella di Anna Maria Bruzzone. Prima mi stavo chiedendo quando ho incontrato per la prima volta questi discorsi. Mi è venuta in mente la lettura, durante la scuola media, di Se questo è un uomo, ma il mio ricordo più nitido è una di quelle grandi adunate di cui si parlava prima, al teatro Alfieri di Torino, quando ero studentessa delle superiori, quindi tra il 1974 e il 1979. Si trattava di un dimensione pubblica, non intima, di un'esperienza fatta in solitudine: non ero più sola a leggere il libro di Primo Levi. Di questo libro non ricordo di aver mai parlato pubblicamente, se non in un lavoro di gruppo formale, a scuola; non ne ho mai parlato con i miei genitori. Ricordo che con loro parlavamo dello zio morto da partigiano e di un altro zio, sempre fratello di mio padre, soldato ribelle morto in qualche luogo della Germania. Questo era quanto mio padre riusciva ad articolare sulla vicenda. Poi sapevo che mia madre, durante la guerra, era sfollata con altri parenti in Veneto. Parlando di questi miei ricordi, voglio dire che esiste una cifra della difficoltà a dire per pudore, per le emozioni che sovrastano, per il senso di responsabilità che provano le persone che hanno vissuto in quel periodo, ma anche da chi è venuto dopo. Perché è terribilmente difficile testimoniare i propri sentimenti su questioni così profonde, in un mondo che non ci offre mai occasioni pubbliche di confronto. È nostra responsabilità di adulti non offrire ai giovani luoghi di confronto che non siano legati a una remunerazione, come la promozione o la carriera. Questo incontro mi sembra un'occasione diversa dalle solite, ma capisco la difficoltà degli studenti a fare qualcosa che nessuno mai ha insegnato loro a fare. E mi chiedo anche se di questi argomenti parlino mai a casa. Mi chiedo se quello che impariamo sia dicibile altrove.

[NN] Quando ho presentato il libro in un liceo di Venezia. gli studenti, al termine della riunione ufficiale si sono fermati tre quarti d'ora a parlare con me e gli altri relatori, ponendo le domande che prima avevano taciuto. Mi ha colpito questa difficoltà di intervenire durante il momento ufficiale. E quando sono stata a Bologna a presentare il libro, mi ha colpito molto il commento di una psicoterapeuta che veniva da una recente esperienza di lavoro in Kosovo. Tra l'altro, mentre scrivevo il libro c'era la guerra in Bosnia, e mentre ne correggevo le bozze, invece, era in atto la guerra in Kosovo, la cosiddetta «guerra umanitaria». Abbiamo accanto a noi un esempio di odio, che ha scatenato una guerra tuttora non risolta. Allora essere croato o serbo significava salvare o meno la propria vita. Nei campi di rifugiati, questa psicoterapeuta teneva gruppi di incontro formati di persone di etnie diverse: serbi, croati, bosniaci ecc. Negli incontri iniziali si avvertiva un odio reciproco, rafforzato dalle esperienze terribili della guerra, ma dopo cinque o sei riunioni la situazione cambiava e i partecipanti al gruppo, tutti giovani, si rendevano conto che l'unico modo di sopravvivere era quello di non odiarsi. L'esperienza raccontata dalla psicoterapeuta è molto in consonanza con i nostri discorsi di questa mattina ed è interessante che proprio dal basso, dai membri del gruppo, nascesse come una creatura nuova la consapevolezza – raggiunta mentra ancora le ferite della guerra erano aperte – che l'unico modo per poter vivere insieme era smettere di odiarsi.

[PDB] Il problema che è stato affrontato da molti, da Primo Levi, da Liana Millu, da Liliana Segre, da Wiesel, da tanti altri superstiti, si può riassumere così: tacere o parlare? La maggior parte di loro, dapprima, ha scelto di tacere perché, dicevano, «Prima di tutto è una forma di ineffabilità negativa ciò che ci è accaduto, non riusciamo a trovare le parole per far capire fino in fondo. In secondo luogo, solo quelli che sono morti potrebbero raccontare il fondo dell'esperienza, noi che siamo sopravvissuti siamo un passo indietro nella tragedia». Alcuni, infine, avevano anche un altro scrupolo, «Scrivendo, noi, se siamo capaci a scrivere, facciamo della letteratura nel senso positivo, estetico del termine». E trasformare la tragedia in letteratura a molti sembrava un sacrilegio. Liliana Segre, deportata a tredici anni, ha deciso di parlare soltanto a sessant'anni, e va a parlare nelle scuole. Wiesel è stato spinto a raccontare da una discussione piuttosto vivace con Mauriac: era andato a intervistarlo ed erano giunti a parlare di quest'esperienza. Irritato Wiesel se n'era andato sbattendo la porta e Mauriac l'aveva raggiunto sul pianerottolo per dirgli con le lacrime agli occhi: «Ma lei deve scrivere!». In tutte queste persone c'è stata una lotta tra il silenzio e il bisogno di raccontare. Mano a mano che il tempo passava si sono convinte che bisogna raccontare, è un ordine biblico «[…] racconterai a tuo figlio […]». Ma la scelta è stata difficile, anche per onestà verso i morti: «Io non posso essere fino in fondo il tuo portavoce perché tu sei morto e io no».

Vorrei parlarvi di una mia esperienza relativa ai morti, che ho fatto a Gerusalemme, l'esperienza più sconvolgente che si possa fare, forse più ancora che visitare Auschwitz: a Yad Vashem, che è il memoriale della Shoà, c'è un luogo chiamato «la galleria dei bambini». È scavato nella roccia, dentro è buio pesto, bisogna reggersi a una ringhiera e nel buio si accendono piccole luci, simili a stelline. E c'è una voce che recita nome, età, provenienza e luogo di morte di un milione e mezzo di bambini. Occorrono due anni per pronunciarli tutti, ma sono morti in molto meno di due anni. Quando ho attraversato la galleria mi sono ricordato di un testo della Genesi (cap. 15) in cui Dio dice ad Abramo «[…] guarda le stelle, tale sarà la tua discendenza». Sono queste le stelle, viene da chiedersi nella «galleria dei bambini»? È un'esperienza che cambia la vita. E, a proposito di domande poste agli studenti: quando frequentavo la prima ginnasio (allora la prima media si chiamava così), erano appena state promulgate le leggi razziali. Gli insegnanti erano tenuti a parlarne in classe. L'insegnante di Lettere chiamò un mio compagno di classe, figlio di uno dei maggiori fascisti della città, e gli chiese: «Sai qualcosa?». la risposta fu: «Sì, so che è stata inventata la razza ebraica». E questo mise fine al commento dell'insegnante. Noi non vogliamo insistere sulle vostre domande, l'importante è che le poniate a voi stessi.

[Studente] Volevo sapere se prima il professor Cavaglion si riferiva al film La vita è bella.

[AC] Anch'io volevo riprendere il discorso. A Firenze mi sono trovato in una situazione simile a questa di oggi, nella quale, cioè, era difficile cominciare a discutere con i ragazzi. Io ho tuonato, in maniera ben più esplicita di quanto abbia fatto prima, contro La vita è bella, un film che ho digerito molto male. Poco ci mancava che venisse giù la scuola, perché a Firenze Benigni è una sorta di santo patronale: toccare il Robertaccio nazionale ha suscitato il pandemonio. Il clima di gelo è diventato rovente come quello di una corrida. Sì, il mio riferimento precedente era proprio a quel film. Genio comico di Benigni a parte, a mio parere, il film si fonda su una sceneggiatura estremamente ambigua e poco verosimile. La poesia di Vogelmann, citata prima da Paolo De Benedetti, come molti altri esempi che si potrebbero fare, dimostrano l'inverosimiglianza dell'operazione. I bambini nei lager facevano ben altre esperienze e l'affetto di un padre se mai si manifestava in altro modo, magari sperando che il figlio morisse presto e avesse meno tempo per soffrire. Giocare sull'affetto paterno, nobilissimo sentimento, applicandolo a quella realtà, illudendo lo spettatore che si tratti di una favola e che l'affetto paterno possa aiutare a superare un'esperienza del genere significa compiere un'operazione scorretta. Penso a quel pezzo di vera bravura che è la lezione sul polpaccio ariano, al momento in cui il bambino esclama «Abbiamo vinto», quasi si trattasse davvero di un gioco a punti… è agghiacciante. Ti illude che con questo sentimento si possa superare l'orrore del nazismo. Ripeto, non è in discussione la bravura di Benigni, anche se, in Napoli milionaria, la comicità e l'abilità letteraria di Eduardo de Filippo mi sembrano superiori. Ma l'operazione in sé e la sceneggiatura sono il segno che chi ha prodotto quel film ha fiutato ciò che dicevo prima e cioè che oggi certi discorsi incontrano successo commerciale e consensi, non solo in Italia ma anche all'estero e in Israele, fuori e dentro le comunità ebraiche. È un segno dei tempi, il desiderio epocale di cambiare pagina, di raccontare quegli eventi senza però tormentarsi troppo, farla finita con i documentari, voltare pagina e dimostrare che si può parlare di queste cose anche scherzandoci sopra.

[S] Però nel film si mostra – nella prima parte – come le leggi razziali siano piombate addosso agli ebrei italiani, che forse non si resero conto di quel che sarebbe successo. E poi quell'«Abbiamo vinto» del finale è un modo per affermare che è un bene essere sopravvissuti all'internamento. Mi sembra che Benigni sia attento a distinguere tra il documento e la storia che racconta. Non dice che questa storia sia avvenuta realmente, o che avrebbe potuto essere così, e lo spettatore lo capisce benissimo. Non credo che nessuno, vedendo il film, abbia pensato che in fondo Auschwitz non era così terribile, anzi.

[AC] Sì. Sono d'accordo con te che la prima parte è ben rappresentata anche se le leggi razziali sembrano cadute dall'alto, inaspettate, in quella situazione un po' surreale. È l'interpretazione più generale della seconda parte che mi suscita preoccupazione e non tanto per il film in sé. Il mio timore, giustificato dalla seconda parte, è stato soprattutto: «Che cosa verrà dopo questo film?».

[S] Mi sembra che lo sforzo fosse quello di un padre che spiega in diretta quello che accade a un bambino. Può sembrare una favola...

[AC] Sì, ma un padre che voleva bene a suo figlio allora dimostrava il suo affetto in mille altri modi. Se gli autori volevano raccontare una favola, dovevano ambientarla in un altro contesto, totalmente «esterno» al lager.

[MGT] Potremmo provare a fare un'acrobazia. Intanto non dimentichiamo le testimonianze. Abbiamo, ci dice Cavaglion, testimonianze agghiaccianti sulla percezione assolutamente innaturale di un figlio che muore davanti ai tuoi occhi o che viene mandato alla camera a gas. Alcune testimonianze, diverse, sono invece diventate disponibili molto tardi. Ad esempio, Imre Kertész ha scritto la sua testimonianza sconcertante molto presto, dopo il ritorno dal lager, ma ha potuto essere letto solo quarant'anni dopo la fine della guerra. Il suo libro è intitolato Essere senza destino e narra la sua esperienza di quindicenne instradato verso i campi di lavoro forzato e poi di sterminio. Kertész è tornato e a chi gli chiedeva dell'orrore dei campi, non negava né trascolorava, ma ricordava – così scrive alla fine del libro – «[…] persino là, accanto ai camini, negli intervalli tra i tormenti, c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali e degli orrori, sebbene per me forse proprio questa sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlar loro la prossima volta che me lo chiederanno, sempre che me lo chiedano e se io a mia volta non l'avrò dimenticata». Lancio una pietra dello scandalo, che non capovolge il discorso di Cavaglion, ma si affianca. Ho letto un libro di Yoram Kaniuk, figlio di ebrei tedeschi emigrati prima del 1934 in Israele, che racconta dell'indicibilità di questo, dell'ostilità nei confronti di chi parlava in lingua tedesca mentre si preparavano questi avvenimenti. Scrisse un libro molto bello, certo, ma di fantasia, intitolato Adamo figlio di cane, titolo in italiano tradotto Adamo risorto, una traduzione che dice molto, a suo modo. Nel libro si racconta la storia di un famosissimo clown ebreo della Germania degli anni trenta che segue il destino del suo popolo e che, nel lager, intrattiene insieme ad alcuni violinisti le file di persone che vengono condotte alle camere a gas. È un problema enorme quello di trovarsi in quel momento di fronte alla scelta di alleggerire per quanto era possibile l'inevitabile e di poter essere accusato da chi è venuto dopo: «Voi collaboravate, non resistevate!».

[NN] Io voglio invece contrapporre un film al film, citando Jona che visse nella balena. Questo film è tratto anch'esso da un libro dove l'autore racconta le sue esperienze di bambino in un campo. Il film rende molto bene la vita nel campo, dove la madre, preoccupata del dopo, un po' come Etty, dice al figlio di non odiare. Pur mandando un messaggio positivo, questo film ha un taglio molto più aderente alla realtà, rispetto a quello proposto nel film di Benigni. Citare Napoli Milionaria, invece, mi trova d'accordo, perché la comicità di Eduardo era una comicità sofferente, che non ci fa sentire di travisare la realtà. Comunque Etty, cinque giorni prima di partire per Auschwitz (ma ancora non lo sa), usa quasi le stesse parole del titolo del film di Benigni, mi sembra con un vissuto diverso: «Com'eravamo giovani solo un anno fa su questa brughiera, Maria. Ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto, siamo stati marchiati dal dolore per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria. Devo ritornare sempre su questo punto». Riuscire a dire la vita è buona nonostante tutto, forse è un messaggio simile a quello che intendeva trasmetterci quel film.

[S] A me sembra, però, che un film come quello di Benigni possa servire ad avvicinare chi non ha vissuto quei momenti storici a ciò che è accaduto, a non far dimenticare quegli avvenimenti, in una forma alla portata di tutti…

[S] Rispetto a quello che ha appena detto: come si riesce a dire «Non odiamo»? Io non riesco a capire come quei ragazzi, gli skinheads, ad esempio, facciano a dire «Non è successo!» quando parlano della Shoà. E come posso io non odiarli? Posso immaginarlo, a parole, ma poi, il sentimento…

[NN] Si, infatti, questa è una domanda chiave. Non dobbiamo cadere nell'equivoco, non odiare non significa «voler bene» al nemico, questo può essere un punto d'arrivo per pochi. Significa indignarsi e lottare; non a caso Etty Hillesum viene considerata un esempio di «resistenza esistenziale» al nazismo, cioè un esempio di resistenza non violenta, per usare un termine noto, attuata attraverso la sua vita, la sua esistenza. Tu hai ragione, il problema non è cambiare parola, ma cambiare sentimento.

Prima volevo chiedervi «Non c'è nulla, oggi nel mondo, che vi indigna, che vi fa provare sdegno?». Io penso di sì. Tu hai detto bene, anche oggi, anche in Italia, vi sono movimenti nazisti, così come vi sono molte forme di antisemitismo. L'importante è indignarsi con queste persone e lottare. Ma odiare è più facile: tutti abbiamo provato a odiare, odiare significa «loro sbagliano, loro fanno del male» e il discorso è chiuso. L'indignazione è come l'odio, ma non chiude il discorso, nel senso che ci spinge a lottare contro queste manifestazioni, anche contro queste persone, ma senza rischiare di fare ciò che fanno loro, senza eliminare il nemico.

[S] Io volevo dire che spesso la storia ci viene insegnata in maniera sbagliata perché ci vengono presentate due categorie, i buoni e i cattivi; questi sono stati cattivi, se la sono presi con questi altri, poverini... Ma questo non ci aiuta a capire come possa essersi determinato tutto ciò che è accaduto. Perché dirmi che i nazisti sono cattivi, che hanno ucciso sei milioni di ebrei, per me non significa nulla, è solo un numero. Io ho provato indignazione per quello che è accaduto quando ho visitato il campo di concentramento di Dachau: ma finché non ci sono stata dentro, finché non ho visto dove morivano, non erano per me nient'altro che numeri. Quindi la storia dovrebbe spiegare i motivi per i quali è successo tutto ciò.

[S] Noi, però, viviamo in un mondo che invece di suscitare solidarietà verso chi è svantaggiato, più debole, incoraggia l'egoismo personale, l'incomprensione. Vorrei riuscire a capire perché e, soprattutto, che cosa si possa fare, nella vita di tutti i giorni, in proposito.

[NN] Per quanto riguarda la risposta alla prima delle due domande, voglio citarvi un esempio di Etty, proprio di quegli anni, rispetto all'insensatezza dell'odio. Etty ricorda un giurista ebreo che viveva ad Amsterdam, una persona così terribile, così autoritaria e feroce con i propri figli che – dice – se fosse dall'altra parte, non solo sarebbe nazista, ma sarebbe forse uno dei peggiori nazisti. Quindi Etty capisce che bisogna superare questa divaricazione tra «buoni» e «cattivi», queste due categorie che sono dentro ognuno di noi. Chiaramente poi c'è tutto il discorso storico.

Passando alla seconda domanda, invece, «Che cosa si può fare?»: per esempio, oggi i «cattivi» sono gli immigrati. Già è sbagliata la categoria che forma il pregiudizio: «immigrato» in quanto «immigrato» = cattivo, portatore di male e di delinquenza. Questa è la forma del pregiudizio. Mi è accaduto pochi giorni fa a Roma di avere in proposito una discussione con una persona. Le ho chiesto: «Scusi, ma prima, la prostituzione non c'era in Italia? Non c'erano prostitute italiane? E la mafia, la delinquenza, non c'erano prima?». Non a caso il pregiudizio si sviluppa attraverso categorie astratte, etichette appiccicate alle persone. La prima cosa che a livello di vita quotidiana possiamo fare è combattere questi pregiudizi e dire «Quella persona, che ha un nome e un cognome, ha compiuto questo delitto, questo reato, ma non in quanto immigrato». E dopo aver discusso, come ora stiamo facendo nel nostro piccolo, credere che portiamo con noi qualcosa di nuovo. Provare a credere che ha senso continuare a discutere, ma senza una particolare animazione, per cercare di capire. Quando sento tutte le cose terribili che vengono dette e fatte, sono stanca, mi sembra di non avere più la forza di controbattere. Io vivo a Roma, dove purtroppo si sentono spesso questi discorsi in autobus, nei negozi, e a volte mi sembra di non farcela più a controbatterli. Invece è importante farsi forza, riuscire a testimoniare sempre questa diversità, questo modo diverso di capire che bisogna lottare sempre contro i pregiudizi. Io credo che fare questo nella vita quotidiana, con piccoli esempi continui, sia come lasciare piccoli semi che poi danno frutti.

[MGT] Io ritengo molto importante il discorso sul metodo. Ad esempio chiedersi «Come si costruiscono passo dopo passo disastri del genere, come si produce la valanga?». Noi, a un certo punto, vediamo gli effetti della valanga, ma prima vi sono stati molti livelli intermedi. Dagli scritti di Hillesum – sia quelli nella versione parziale di Adelphi, sia quelli presentati e interpretati da Nadia Neri – io non mi sento chiamata a essere eroica, mi sento interrogata ad avere cura della dignità delle persone, della mia dignità attraverso la dignità degli altri. Io voglio riprendere il discorso sui meccanismi di resistenza. Mi sembra che possano essere più d'uno. Mi torna in mente un altro libro, L'ultimo dei giusti di André Schwarz-Bart, in cui c'è un personaggio che trovandosi su un vagone diretto ai campi di concentramento insieme a un gruppo di bambini, li culla piangendo, racconta loro delle fiabe e cerca di attenuare la loro sofferenza enorme del disagio fisico di restare per tanto tempo rannicchiati in una posizione insopportabile. Una donna medico gli dice «Ma lo sa anche lei, no, che cosa sta succedendo», e il personaggio risponde: «Sono bambini», rivendicando il diritto a difendere una – non so se si possa usare il termine innocenza – forma di benevolenza che, in qualche modo, senza mentire, alleggerisca la sofferenza altrui. E questo a me sembra, in certi tempi, necessario. Colpisce come, a volte, si sentano dire cose come: «Hai sentito delle violenze dei serbi alle donne del Kosovo? Bisognerebbe andare dalle donne serbe e fare lo stesso». Com'è possibile che scatti un meccanismo del genere, e non lontano, ma nella persona che mi siede accanto sul bus? Queste cose sono vicine, il «male» è molto vicino. E trovare delle forme di resistenza umane, senza cambiare semplicemente di segno al male, per me è un'esperienza molto difficile.

[PDB] Non abbiamo ancora toccato un argomento che ogni tanto salta fuori: perdonare. Bisogna stare molto attenti. Uscirà, a breve, la nuova edizione di un libro importantissimo di Wiesenthal, Il girasole, nel quale si racconta che Wiesenthal, rinchiuso in un campo di sterminio (e bisognerebbe usare correttamente e non come sinonimi i termini «campo di concentramento» e «campo di sterminio»), venne un giorno chiamato da un aguzzino e portato nell'ospedale delle SS, dove trovò una giovane SS moribonda. Qualche giorno prima le SS avevano bruciato in un palazzo novanta ebrei. Questa SS stava per morire e voleva che un ebreo la perdonasse. E Wiesenthal restò a lungo lì, davanti a lei, poi se ne andò senza dire né sì né no. Dopo la guerra Wiesenthal raccontò quest'episodio e chiese a molte personalità del mondo ebraico e non ebraico, religiose e non, che cosa avrebbero fatto al suo posto. Così, dalle loro risposte, è nato questo libro.

Wiesenthal, secondo me, ha fatto bene. Non poteva perdonare a nome degli altri, come dice Enzo Bianchi «Non si porge la guancia dell'altro», non è una questione di religiosità, non si perdona a nome degli altri e i morti non possono perdonare. Nel libro che uscirà la mia risposta è questa: «Solo Dio può perdonare un morto a nome di un altro morto, ma un vivo non potrà mai perdonare chi non ha offeso lui». Quando si fanno i discorsi sul perdono, quindi, bisogna stare attenti a non cadere in un buonismo a buon prezzo.


1 Etty Hillesum, Diario 1941, 1943, Milano, Adelphi, 1985.

2 Ibid, pp. 169-70.

3 Per esempio Ovadia Josef, rabbino di Gerusalemme, a tre mesi da questo incontro ha riproposto questa lettura dei fatti, suscitando indignazione all'interno del mondo ebraico, fuori e dentro Israele [N.d.R.].

4 Si tratta di due delle Cinque piccole poesie per Sissel, brevissime , che Daniel Vogelmann – figlio di Schulim Vogelmann – compose in un librettino che distribuì solo ai suoi amici, cone spiega Paolo De Benedetti in Quale Dio? Una domanda dalla storia, Brescia, Morcelliana, 1996, p.62 [N.d.R.].

5 Questa sua è una parafrasi della lettera di Paolo ai Corinzi.


[inizio pagina]
[seconda parte]

[homepage]