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Editoriale

Quell'insurrezione popolare contro la guerra

di Sergio Marelli
Presidente Associazione Ong Italiane

Sarà difficile dimenticare l'emozione che ho provato alla manifestazione dello scorso 15 febbraio a Roma quando, salito sul palco per l'evento finale con gli amici e compagni del Comitato promotore, ho lasciato correre lo sguardo su Piazza S. Giovanni e le vie adiacenti. E non immaginavo che, due ore più tardi quando ho lasciato la manifestazione per correre all'appuntamento alla Ambasciata irakena con Tarek Aziz, avrei faticato a risalire controcorrente il fiume di persone che ancora da ogni direzione cercava di raggiungere S. Giovanni in Laterano. Dal palco venivano in continuazione aggiornate le cifre dei manifestanti che in contemporanea, per la prima volta dopo il Vietnam, erano in piazza in oltre 66 capitali del mondo. Milioni di cittadini del mondo uniti per la pace. Penso che sia fuori dalla retorica definire tutto ciò come una vera e propria "insurrezione popolare" contro la volontà di quei governanti che vogliono una ennesima guerra nei confronti della guerra. In Italia, come nel resto del mondo, i sondaggi rivelano una schiacciante maggioranza che denuncia come la guerra sia inaccettabile, inutile, inopportuna e inefficace, ingiusta, oltre che tragedia madre di nuovi drammi. Ma la tragedia irakena deve essere l'occasione per riaffermare il no "senza se e senza ma" a tutte le guerre e a tutti i conflitti armati in qualunque contesto si producano. Cedere alla logica propagandistica, veicolata dai mezzi di informazione e dalla demagogia populista di qualche leader, per la quale si vorrebbero dimenticati gli oltre 70 conflitti attualmente accesi nel mondo, è un rischio che va allontanato con determinazione. "La guerra è la più grande sconfitta per l'umanità", ha affermato Giovanni Paolo II dando coraggiosamente continuità all'appello accorato e determinato della Pacem in Terris della quale ricorre, in questo 2003, il quarantesimo della sua pubblicazione. Quella stessa enciclica che già allora preconizzava la necessità di un recupero della politica, "di un'autorità pubblica a livello internazionale per l'effettiva capacità di promuovere il bene comune universale", per riaffermare il primato dei diritti fondamentali della persona sull'economia. Sappiamo bene che la rincorsa al guadagno e al profitto sono, oggi come ieri, la principale causa dei conflitti, poi fatti risalire artificialmente a lotte tribali, religiose o razziali ai quali si contrappongono "nobili" intenti di difesa della giustizia e dei diritti. È quanto mai impellente tornare a esercitare la responsabilità della politica perché l'affermazione della pace non diventi una mera contrapposizione alla guerra, uno strumento da utilizzare di volta in volta in vista di fini, un valore tra i tanti da sbandierare all'occorrenza. La pace non può essere riducibile al tragico carattere delle scelte: è il bene, è l'essenza dei valori. Riscoprirne le sue profonde radici e operare quotidianamente per il suo compimento deve essere l'obiettivo supremo cui protendere ogni sforzo. La pace rivendica il suo valore di progetto etico: progettare un mondo più giusto è la vera lotta per la pace. È una conquista che si raggiunge solamente seguendo percorsi di giustizia. Non c'è pace senza giustizia perché questa è il senso profondo della pace. Per una tale impresa non si può che scegliere ogni giorno di lavorare per l'affermazione dei diritti di ogni donna e di ogni uomo della terra. Diritto al cibo e all'acqua, alla educazione, alla salute, al lavoro giusto, alla democrazia e alla partecipazione. Non è più concesso scaricare ad altri queste responsabilità che sono di ciascuno.
Cancellare dalla terra la povertà e la miseria perché il Regno cominci davvero a manifestarsi già in questa vita, è la sola "guerra" che ognuno, secondo i talenti e le responsabilità affidategli, deve impegnarsi a combattere.

Volontari per lo sviluppo - Marzo 2003
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