di Davide Sighele
dell'Osservatorio sui Balcani
Robert ha lavorato fino a pochi mesi fa come interprete per i militari inglesi della Sfor. È uno dei tanti cittadini bosniaci sfollati durante la terribile guerra dell'ex Jugoslavia, oggi vive a Banja Luka, nella Repubblica Serba. Mi accompagna lungo la statale che collega la sua città a Prijedor, nel centro del paese, conosciuta per i campi di concentramento di Omarska, Trnopolje, Keraterm. Da circa un anno il paesaggio collinare è costellato di piccole luci bianche. Sono lampadine accese tutta la notte davanti alle case unifamiliari recentemente ricostruite. Negli anni della guerra, circa 50.000 musulmani e croati sono dovuti fuggire da questa zona. Le loro case umiliate e rase al suolo, ogni ricordo cancellato. Le vergogne della pulizia etnica nascoste solo d'estate dalla vegetazione rigogliosa. Ma ora già 15.000 persone sono rientrate, caparbiamente legate alla loro terra, e ricostruiscono nonostante le molte difficoltà.
Questo ritorno rappresenta sicuramente un successo delle ong e delle agenzie
internazionali, che in questa regione sono riuscite a coordinarsi bene, a garantire
continuità, ad agire in modo efficace mantenendo un giusto equilibrio tra la necessaria
ingerenza politica e il rispetto di dinamiche e risorse locali. Non è un caso che proprio
a Prijedor si sia radicata una delle più rilevanti esperienze italiane di cooperazione
decentrata, l'Agenzia della democrazia locale. Si tratta di un progetto promosso dal
Consiglio d'Europa con l'obiettivo di creare una rete tra territori. La comunità trentina
ha colto la sfida e negli ultimi anni ha inviato centinaia di esperti, formatori e
semplici cittadini che hanno collaborato a Prijedor su progetti di emergenza e sviluppo.
Nonostante questo la situazione non è ancora rosea, e Robert mi ricorda che
"permangono forti difficoltà". Il suo sguardo si sofferma sulle luci pacchiane
di un distributore a fianco del quale è stato recentemente inaugurato un imponente centro
commerciale. La struttura trasuda cemento e il proprietario è un membro delle famigerate
Tigri di Arkan, gruppo paramilitare che si è macchiato dei crimini più orribili. Nel
giardino si trova una gabbia in cui gironzolano due enormi felini. "Vi sono ancora
connivenze troppo forti da parte delle autorità della Repubblica Serba con questa
gente", dice tristemente indicandomi il centro commerciale.
Se Prijedor può essere considerata, nonostante tutto, un successo della decennale
presenza internazionale nei Balcani, esempi come quello del Kosovo, un concentrato e
rapido ripetersi di tragedie, hanno messo a nudo l'incapacità di interposizione di molte
espressioni della cosiddetta Comunità Internazionale. Oggi abbiamo di fronte agli occhi
la situazione della Macedonia, che dopo gli scontri armati tra albanesi e slavo-macedoni
della scorsa estate cammina su un sottile confine, tra normalizzazione e nuovo scoppio di
una crisi.
Solo considerando le realtà italiane, sono stati migliaia in questi anni i volontari
impegnati nel portare aiuti, ricostruire case e strutture, creare competenze, ricucire
rapporti nei Balcani. Ma una retrospettiva seria sui dieci anni di intervento, senza
disconoscere i successi raggiunti, non può astenersi dal rilevare alcune dinamiche
preoccupanti.
"Per quanto riguarda le ong straniere c'è un problema, legato soprattutto alla poca
flessibilità nella realizzazione dei progetti" sostiene un'esponente di un'ong di
Mostar. Secondo l'attivista, le ong sono poco disponibili a cambiare e adattare il
progetto alla situazione sul terreno, spesso conosciuta poco prima di arrivare a
lavorarci. E Mostar, città che resta divisa nonostante i massicci investimenti
internazionali, è purtroppo simbolo dell'incapacità dell'intervento internazionale nel
modificare realmente la realtà locale.
Claudio Bazzocchi, responsabile dell'ufficio Ics di Mostar dal 1995 al 1998, analizzando
la missione dell'Unione europea nella città bosniaca mette in rilievo il
"sostanziale errore nell'appoggiarsi, per progettare la ricostruzione della città,
esclusivamente alle élite nazionaliste il cui obiettivo primario era quello di mantenere
Mostar divisa ed etnicamente omogenea". Secondo Bazzocchi non sono stati presi in
considerazione la società civile e i leader di fatto emersi dalle difficoltà della
guerra. "Sarebbero stati senza dubbio più rappresentativi - continua - e con loro si
sarebbero potute gettare le fondamenta per una Mostar diversa dall'attuale". La
critica lanciata dal responsabile è mossa non solo nei confronti della missione
dell'Unione europea, ma anche delle moltissime ong che non sono state in grado di mettere
in discussione e fare pressione affinché questa logica mutasse.
L'intervento internazionale in Kosovo ha spinto gli addetti ai lavori a coniare il
termine "circo umanitario" guardando alla situazione di Pec/Peja, città del
Kosovo occidentale, descritta in una breve ricerca curata da Silvia Pandini, attualmente
ricercatrice del centro AAster di Milano, per conto dell'Università di Trento e
l'Osservatorio sui Balcani. In questa città di poco meno di 150.000 abitanti,
all'indomani della fine dei bombardamenti e del rientro della comunità albanese,
operavano 60 ong internazionali. A queste vanno aggiunte le altre strutture internazionali
come l'Unmik, l'amministrazione provvisoria che fa capo alle Nazioni Unite. La maggior
parte delle ong intervistate dalla ricercatrice non hanno saputo fornire un quadro di
presenza che superasse l'anno. Questo purtroppo dimostra l'impossibilità, o
l'incapacità, di lavorare sul medio periodo. La ricerca stima inoltre che tra il 1999 e
il 2001 circa 3.400 locali hanno lavorato per le ong. Vengono anche forniti alcuni ordini
di grandezza degli stipendi ricevuti dai locali e dagli internazionali dai quali si
evincono le forti differenze tra salario medio locale, salario percepito dai dipendenti
locali delle ong e salari percepiti dal personale internazionale.
Nelle conclusioni la ricercatrice mette in rilievo come la presenza internazionale a
Pec/Peja abbia influito in modo rilevante sul contesto locale, rischiando forti
distorsioni sul tessuto sociale ed economico. Il coordinamento è stato solo sommario, e
si sono generate forti dinamiche di competizione e concorrenza tra i vari soggetti
internazionali operanti sul terreno. Lo studio rivela situazioni paradossali in cui i
progetti si "rubavano le case da ricostruire".
Il problema che emerge è il predominare degli interventi legati all'emergenza, e
l'incapacità di far seguire a questi una prospettiva di medio e lungo termine. Senza
dimenticare il rapporto, sempre più subalterno, tra il mondo non governativo e
l'intervento istituzionale dei governi e delle organizzazioni internazionali: i
finanziamenti governativi rischiano di annacquare la capacità di critica e di proposta
politica delle ong. Pochi hanno saputo opporsi a finanziamenti offerti, rischiando così
di non distanziarsi dalle forti ambiguità implicite nel concetto di "guerra
umanitaria".
È quindi necessario guardarsi indietro, bloccare la foga e l'urgenza dell'agire per
analizzare cosa è successo in questi dieci anni. È necessario aprire e stimolare un
dibattito. Anche perché i Balcani, come afferma la filosofa croata Rada Ivekovic,
insegnante presso l'Università Parigi VIII, "non sono sostanzialmente
diversi dall'Europa, di cui sono una regione: sono il suo rimosso, il suo inconscio, il
suo specchio e, in un certo senso, la sua interiorità e la sua verità".
Cooperazione imbrigliataA fine luglio di quest'anno, il governo ha reso pubbliche le linee di indirizzo per l'attuazione della legge 84 del marzo 2001, quella che regolamenta le attività di cooperazione per la ricostruzione dei Balcani. Immediatamente le Regioni, per bocca del presidente della Conferenza dei presidenti delle Regioni Enzo Ghigo, hanno manifestato il loro dissenso vista la mancanza di precise indicazioni sul loro coinvolgimento. Due i punti: il primo è che la mancanza degli "accordi quadro" tra le Regioni e il Ministero degli Affari Sociali impedisce nella pratica di utilizzare i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo (mentre per la stessa legge, denuncia l'Osservatorio sui Balcani, gli accordi tra il Ministero delle Attività Produttive e le nostre imprese all'estero sono stati stipulati immediatamente). Il secondo riguarda direttamente i fondi. La Legge 84 infatti risulta mal formulata: da una parte prevede le attività fino al 2003, dall'altra il Fondo finanziario è previsto solo per il 2001 e 2002. |
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Ottobre 2002
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