Precedente Successiva

Dossier

Chi viaggia vive due volte

Viaggiare. Tutti pensiamo di saperlo fare, ma è proprio così? Rispondono un fotografo, un nomade, un pellegrino, e uno scrittore di successo. Che hanno fatto del viaggio la loro vita.

di Marco Aime

In inglese il termine che indica il viaggio, travel, ha la stessa radice del francese travail, "lavoro", "travaglio". Viaggio come fatica, spesso imposta dagli dei. Poco a che vedere con la nostra idea di svago, di fuga, di ricerca di una dimensione diversa da quella della quotidianità. Nell'Odissea Ulisse diceva sconsolato: "Non altro male è maggiore ai mortali dell'andar vagabondo". Per gli antichi, infatti, il viaggio era spiegato dal fato e dalla necessità, è solo in tempi i moderni che inizia ad esprimere libertà o fuga.
Anche perché è un viaggio "addomesticato" quello che oggi molti di noi affrontano, nulla di paragonabile alle esperienze dei viaggiatori romantici dell'Ottocento. Se per quegli avventurieri la meta era immaginata, sognata, spesso sconosciuta, noi oggi andiamo in posti che già conosciamo. Anzi, ci andiamo proprio perché li conosciamo. Li abbiamo visti nei documentari, ne abbiamo letto sulle guide e sulle riviste di viaggio. Tutti noi ci muoviamo in una sorta di immaginario globalizzato, la cui gestione è spesso affidata agli operatori turistici che scelgono le mete da proporci e cosa raccontarci per renderle appetibili. O non raccontarci, come nel caso di alcune località alla moda pubblicizzate sui cataloghi come "spiagge del Mar Rosso", senza mai dire che si trovano in Egitto.

Esperienza di transito

Nonostante in questo contesto il viaggio finisca per apparire quasi come una semplice "verifica" di ciò che è stato visto prima di partire, l'esperienza "fisica" rimane comunque un passaggio determinante e fondamentale per chi la intraprende.
Oggi il regno telematico del virtuale utilizza metafore come "navigare", "cybernauti", assimilando l'esperienza di chi sta seduto davanti a un monitor a quella dei viaggiatori, ma ciò che viene a mancare è la fisicità del viaggio. La stessa che manca al cosiddetto viaggio mentale o interiore.
Perché il movimento, lo spostarsi, l'andare via mette in moto una nuova percezione dei nostri sensi. Possiamo conoscere a memoria prima di partire le delicate architetture di Sanaa (antica città dello Yemen), ma nessun documentario o nessun libro ci potrà dare la sensazione penetrante che nasce dagli afrori di spezie che emana il suo suq. Né i rumori sgangherati sparati dagli altoparlanti di un rivenditore di cassette africano, né il tuono impressionante delle Cascate Vittoria e neppure le sensuali sfumature delle dune di un deserto che mutano colore durante il giorno. Questo è il valore del viaggio, che è sempre un'esperienza di transito da un mondo a un altro: il viaggio è "tra".
Uscendo dai nostri costumi abituali diventiamo più attenti, i sensi si acuiscono, siamo più propensi a osservare ciò che vediamo. È il movimento a mutare la nostra capacità di percezione. Il viaggiare cambia anche i rapporti con gli altri, cadono molti pregiudizi legati alla stanzialità, perché ci si trova a essere sull'altra sponda: siamo noi viaggiatori a essere percepiti come marginali, estranei. E questo ci porta a riflettere sulla nostra società, sulla nostra cultura. "Un aspetto molto interessante di questa civiltà è che ti dà un'improvvisa visione della tua; è la cosa più simile all'uscire dal mondo ed esaminarlo come un oggetto" scrive la grande viaggiatrice Freya Stark a proposito del suo viaggio in Libano. Ecco perché il viaggio può aiutarci a cambiare. Ma non è sufficiente "andare": bisogna farlo con consapevolezza. "Al momento dell'imbarco, fate che chi sale abbia cura di non portare in viaggio se stesso" ammonisce Seneca, rivolgendosi a un barcaiolo. Oggi si parla molto di turismo consapevole o responsabile. È importante che crescano le organizzazioni che propongono viaggi più attenti alle realtà locali, ma ciò che conta sono la consapevolezza e la responsabilità del turista. Le formule di viaggio possono aiutare, ma siamo noi a fare il viaggio, con la nostra testa.

Il fotografo

Viaggiatore da Guinness

di Marco Bello

Gli occhi chiari di Giorgio Ricatto trasmettono grande serenità. Fa strano pensare che quegli stessi occhi hanno incrociato quelli della gente di tutto il mondo. Eppure è così. Questo tranquillo torinese ha fatto del viaggiare la sua vita, il suo "mestiere", diventando l'unico uomo al mondo a essere stato in tutti i paesi sovrani, ben 192, e in 65 dipendenze (territori non sovrani). Proprio per questo, già nel 1984 è finito nel Guinness dei primati come "l'uomo che più ha viaggiato". E il primato lo detiene, inossidabile, ancora oggi. "Quelli dell'ufficio Guinness dicono che mi mancano sei isolotti - rivela, riferendosi a sei scogli, di proprietà di altri paesi, spersi negli oceani - uno è una base militare Usa cui è impossibile avvicinarsi". Sorride, sotto i folti baffoni bianchi. Ha 66 anni, ma lo spirito è quello dei 25. E racconta la sua storia: "Era il 1961 quando mi licenziai dal mio lavoro di amministrativo, e unendo liquidazione e ricavato della vendita dell'auto, circa due milioni di lire, sono partito con un amico per il viaggio che avrebbe cambiato la mia vita". Imbarcati a Marsiglia sulle navi francesi della Messagerie Maritimes, le stesse usate dai legionari, partirono verso Oriente: India, Indonesia, Giappone, isole del Pacifico, fino ad arrivare ai Caraibi e buttarsi alla scoperta del Sud America. Restano in viaggio più di un anno e mezzo.

Mai più a una scrivania

"Quando rientrai capii subito che non sarei mai più riuscito a restare in un ufficio". Ricatto si ingegna, fa di tutto per ripartire. Eccolo guida turistica, poi commerciante di oggetti d'arte africana. "Ma i turisti dopo un po' pesano". Già allora girava con una Rolleiflex, storica macchina fotografica. Decide di battere la strada delle case editrici. "Ho avuto fortuna. Era il boom del settore geografico e cominciava quello turistico". Diventa fotografo: fa ricerche iconografiche per enciclopedie e libri scolastici, e foto etnologiche. "Oggi è molto più difficile - sostiene - il mercato è saturo. A un certo punto mi sono buttato più sul turistico, perché servivano immagini per i dépliant pubblicitari". È sostenuto dalla sua incrollabile voglia di viaggiare, vedere, scoprire luoghi nuovi, e soprattutto incontrare popoli. "Quello che mi piace di più - confessa - è mescolarmi alla gente. Per questo uso sempre mezzi di trasporto locali, dormo in piccole locande e cerco di evitare gli aerei. Mi piace ascoltare le storie delle persone comuni. È un appagamento che qui non trovo, e lo riscopro soprattutto nei paesi più poveri". Confessa che ci sono voluti almeno dieci anni prima di diventare autonomo con la fotografia. Oggi ha un archivio di 300 mila immagini, da ogni angolo del pianeta: un vero patrimonio.

La foto non è tutto

Nel '71 si sposa con Adriana, anche lei grande viaggiatrice, e subito fanno un altro giro del mondo di 18 mesi. Giorgio Ricatto vende foto in diversi paesi, ma si ritiene prima di tutto un viaggiatore: "Lavoro per continuare a viaggiare, non viceversa. La foto deve essere commerciale, quindi in questo ci sono dei vincoli. Un amatore fa foto migliori delle mie perché può esprimersi come vuole". È semplice e modesto l'uomo che ha messo piede in tutti i paesi del mondo. E forse grazie a questo suo carattere ha grande facilità di approccio con le popolazioni che incontra. Ricatto è soprattutto un uomo libero. "Scelgo io dove andare. Studio il viaggio e riparto - e confessa - Oggi potrei vivere del mio archivio, ma dopo 20 giorni che sto a Torino scalpito per andarmene".

Ci sono stati anche momenti difficili lungo questi 5 milioni e mezzo di chilometri percorsi. Come quella volta che è naufragato in Antartide, o quando è finito in mezzo a uno scontro tribale in Nuova Guinea, o ancora le volte in cui è stato arrestato perché preso per una spia.
L'esperienza di Ricatto sul mondo ha anche una dimensione storica. "In 40 anni tante cose sono cambiate. Come l'aumento della criminalità nelle grandi città del mondo, e l'inasprirsi del divario tra ricchi e poveri nei paesi dove è stato applicato un liberismo esasperato".

Il record man del viaggio è pronto per la prossima partenza, anche se confida: "A volte sono un po' confuso, non so più tanto dove andare".

Il nomade

Paura di stare fermi

di Marco Aime

Se c'è un uomo che i nomadi li ha conosciuti da vicino e ne ha parlato con coscienza di causa, è Theodor Monod, instancabile camminatore del Sahara. A partire dai primi anni '20, questo naturalista, filosofo, umanista fino a diventare profeta, ha percorso in lungo e in largo a piedi, al seguito di carovane di nomadi, le piste sahariane. In un libro da poco ripubblicato in Italia, Il viaggiatore delle dune (Bollati Boringhieri), Monod ci racconta i suoi viaggi tra le sabbie ora roventi ora gelate del deserto. E lo fa con l'ottica del nomade, di quello per cui il viaggio è una condizione normale, non un'eccezione. "Tappe. Bivacchi di una sera in luoghi senza nome, che non rivedremo più. Partenze, eterne partenze senza arrivo che sono l'immagine pregnante del nostro viaggio interiore per non straziarci l'anima. Una fuga senza fine sulla superficie del mondo...".
Il deserto costringe a essere nomadi, ti spinge via da un luogo e poi da quello successivo. Solo con la loro leggerezza le popolazioni che lo abitano riescono a sopravvivere. Una leggerezza che si contrappone al gravare pesante della nostra ricca società di sedentari. Seppur leggero il nomade ha con sé tutto ciò che gli serve, che è ben poco.
Il nomadismo viene spesso visto come un residuo del passato, una tappa evolutiva che ha preceduto la sedentarizzazione. Ma non è così: è per molti popoli il solo sistema di sopravvivere in ambienti fragili, che non consentono uno sfruttamento intensivo delle risorse. Infatti è generalmente legato a economie basate su attività di caccia-raccolta e pastorizia.
Esiste un nomadismo totale, come quello dei Kung del Kalahari, cacciatori-raccoglitori che vivono in piccole bande e costruiscono solo rifugi temporanei, poiché si spostano periodicamente in cerca di territori più ricchi, attendendo la rigenerazione di quelli già battuti. In alcuni casi gli spostamenti sono invece parziali e, come nel caso del seminomadismo pastorale, coinvolgono l'intero gruppo familiare che compie lunghi tragitti alla ricerca di pascoli migliori e di luoghi per l'abbeveraggio degli animali. Ma ci sono anche forme di seminomadismo tra gli orticoltori, come in Amazzonia, dove ci si sposta periodicamente per sfruttare terre nuove.
La vita del nomade è costellata di punti lungo il tragitto. Scrive Monod: "I rari luoghi in cui si ha il diritto di soggiornare, oasi e pozzi, sono come porti o minuscoli isolotti di un arcipelago gigantesco".
Anche il tempo diventa relativo quando si viaggia. Il ritmo è dettato dal sole, dalle stagioni, perché si è sempre all'aperto. Il nomade ha però bisogno del sedentario. Solo grazie a lui egli è nomade, così come il sedentario ha bisogno del nomade per capire chi è. Purtroppo, però, i rapporti sono di complementarità, ma non sempre felici. Spesso ci sono rivalità. In particolare i sedentari diffidano di quegli individui sfuggenti che non stanno mai fermi. I governi di tutto il mondo in genere detestano i nomadi, e cercano di sedentarizzarli. Ma tutti i governi sono fatti di sedentari.

Lo scrittore

Parole in viaggio

di Gianluca Iazzolino

La sua ultima fatica è Mastruzzi indaga, un noir in salsa bolognese in cui i perdenti a lui tanto cari stavolta sono ritratti in italici paesaggi. Quasi un ritorno a casa per Pino Cacucci, uno di quegli scrittori che risvegliano desideri inespressi, cantore della fuga e della rivolta, preferibilmente sotto cieli tropicali. Viaggiatore prima ancora che narratore, vagabonda ormai da vent'anni avendo come meta privilegiata l'America Latina, il Messico in particolare. Autore di romanzi, racconti, reportage di viaggio, ha raccontato la frontiera delle illusioni e delle lotte, soffermandosi, più che sui paesaggi, sugli esseri umani.

Quando nasce il Pino Cacucci viaggiatore?
Vagabondo, più che viaggiatore. Ho cominciato a spostarmi su grandi itinerari tra gli anni '70 e gli anni '80, e non è casuale: non sopportavo più l'Italia dell'epoca, un'Italia che dopo la grande stagione di passione degli anni '70, che io ho vissuto in pieno a Bologna, ha attraversato una sorta di glaciazione. Proprio per insofferenza verso l'Italia della "Milano da bere", non per cercare me stesso o una fantomatica terra promessa, ho cominciato a vagabondare, all'inizio in Europa. Finché sono approdato in Messico e lì è cominciato l'innamoramento con l'America Latina.

Un innamoramento iniziato prima di andarci...
Una volta sul posto capisci perché quei luoghi abbiano affascinato tanta gente. La prima volta che sono arrivato in Messico, nell'82, avevo in testa un magma di suggestioni mutuate dal cinema e dai libri. E anche dalla politica. Era l'epoca della guerra in Nicaragua e il sandinismo, per me come per molti, rappresentava la terza via che mancava, lontana dal socialismo reale e in contrasto con l'Impero. Una volta laggiù ho scoperto le persone. Per qualche anno il Messico è stata la mia casa.

Il Messico continua a essere il vero protagonista delle tue storie.
Sono un viaggiatore abitudinario, perché torno sempre negli stessi posti. Ma il Messico è comunque un paese sette volte l'Italia, con sessanta etnie indigene e tante variazioni del vivere. Ogni volta torno con spunti a non finire, non solo per scrivere ma anche per stare al mondo. Io stesso riconosco che un grande altrove come il Messico non verrà mai compreso pienamente, perché noi come occidentali ci portiamo dietro categorie limitate al nostro mondo. A un certo punto è necessario arrendersi e ammettere: molte cose non le capirò mai. Solo da questo atto di umiltà si comincia a intuire qualcosa. Altrimenti si rischia di rimanere in superficie.

E la scrittura?
Non ho mai vagabondato con l'idea di scrivere. Non ho mai pensato di una persona: questa sarà protagonista della mia storia. Una volta tornato alla base, a Bologna, i ricordi sono filtrati dalla memoria: a tavolino scrivo delle sensazioni, delle persone. Ho una sorta di inconscio pudore a comportarmi da intervistatore o da giornalista a caccia d'idee. Mentre mi muovo, mentre vivo intensamente, non ho voglia di scrivere. Mi interessa ascoltare, conoscere persone che facciano vite diverse dalla mia, in cui possa trovare degli stimoli, per vivere prima ancora che per raccontare. Sono uno che viaggia soprattutto con le orecchie. La mia regola è andare piano e ascoltare molto.

Cosa ricordi degli altri viandanti incontrati?
Mille cose, perché quando ci si incontra tra vagabondi c'è un'apertura istintiva. È proprio la condizione del viaggio che apre i pori della pelle, che ti spinge fuori dal tuo guscio. Soprattutto in America Latina c'è ancora una predisposizione ad aprirsi che noi, incarogniti e ingrigiti, abbiamo perso. Laggiù, nonostante i mille problemi, si può trovare ancora una ricchezza umana enorme.

La fuga è un tema ricorrente dei tuoi libri.
Personalmente ho sempre dato una valenza positiva all'idea di fuga: non come gesto di vigliaccheria ma come spinta a muoversi, a conoscere gli altri. Significa aprire gli occhi sulla propria situazione, capire che allo stato attuale ogni mossa è solo uno spreco di energie. È proprio quando pensi che il mondo sia solo quello che entra nella tua stanza o al massimo nella tua piccola città che è il momento di andar via. Per scoprire che il mondo ha mille dimensioni, mille colori, e non è così grigio come le mura che ti circondano.

Il pellegrino

Strada e preghiera

di Alberto Barbero

Angelo è un uomo di 49 anni con una storia personale non proprio comune, fatta di semplicità e di spiritualità vissuta fino in fondo. Definirlo "pellegrino" lo fa un po' sorridere: "Capisci - mi racconta con la sua parlata piemontese - non si è trattato di una decisione presa da un momento all'altro. È stato un percorso spirituale che mi ha portato in giro per l'Europa a ripercorrere i sentieri della fede, una linea invisibile che mi ha spinto ad una vita di ricerca interiore fatta di incontri, di amicizia, di preghiera, di impegno per la pace... e di strada, tanta strada".

Tutto parte dall'Africa

La sua avventura inizia nel 1979, in Burundi, come volontario del Cisv. "L'Africa mi ha dato molto più di quello che io ho potuto dare a lei - confessa Angelo - ed è lì che ho iniziato a sentire molto forte la spiritualità e la forza della preghiera". E proprio sotto questa spinta, al rientro, incomincia il suo peregrinare per santuari italiani ed europei, prima in autostop e, successivamente, a piedi. "Ricordo la mia prima volta sulla via per Santiago de Compostela - mi dice accennando un sorriso - quando sul passo di Roncisvalle un cartello stradale mi indicava che mancavano ancora 780 km...". Eppure, da allora, Angelo ne ha letteralmente fatta molta di strada. Mi racconta dei tanti incontri con persone di nazionalità e classi sociali diverse, delle motivazioni più disparate che muovono i piedi di questi pellegrini del 2000, dell'ospitalità e accoglienza ricevuta in tutti i paesi visitati. "Quando devi affrontare un pellegrinaggio, prepari uno zaino enorme, che basti per i lunghi giorni di marcia. Man mano che cammini ti rendi conto di aver portato tanta roba inutile, che puoi alleggerire il tuo carico e ti basta poco per vivere bene. A questa grande scoperta - dice Angelo - giunge spesso il pellegrino partito da casa con un carico di problemi personali, il più delle volte artificiosi, che l'incontro, la condivisione, la preghiera fanno vedere finalmente con occhi rinnovati". Certo non nega i momenti di difficoltà, di solitudine, di stanchezza, "ma proprio in quegli istanti di debolezza, con il conforto della preghiera, sento di non esser solo - confessa - e avverto la presenza del mio angelo custode che mi guida e mi protegge".

Gli domando, brutalmente, come fa a sopravvivere durante il suo peregrinare, se trova sempre chi lo può ospitare. "Sono di solito le genti più bisognose quelle maggiormente disponibili ad accoglierti nelle loro case e a condividere con te quel poco che hanno. Personalmente, quando viene la brutta stagione, chiedo ai monasteri o alle parrocchie che sto visitando di poter essere ospitato per un periodo di tempo in cambio del mio lavoro nella comunità".

Sempre in ricerca

Qualunque sia la meta del pellegrinaggio, il denominatore comune che spinge uomini e donne, giovani e vecchi, a piedi o in bicicletta in questa impresa resta il desiderio di una ricerca spirituale che trascende religioni, lingue, culture e confini. "Anche durante un mio pellegrinaggio in Grecia, nei conventi ortodossi sul monte Athos, ho potuto constatare la potenza del dialogo e l'universalità del messaggio divino. Due lingue diverse sembravano dividerci, ma la preghiera ci ha uniti in un unico coro, cattolici e ortodossi insieme". E infine, parafrasando un amico indiano frate cappuccino, conclude: "Perché il pellegrinaggio non è solo muovere i piedi, ma cambiare il cuore".

Volontari per lo sviluppo - Giugno 2002
© Volontari per lo sviluppo