di Silvia Pochettino
La solidarietà è donna. Vecchio slogan femminista? Non proprio, almeno stando ai dati dell'inchiesta condotta da Volontari per Sviluppo su un campione di 68 ong italiane. Risulta infatti che il 66% dei lavoratori nelle associazioni di cooperazione internazionale (da quelli assunti a tempo pieno fino ai collaboratori occasionali) sono donne, precisamente 411 donne a fronte di soli 212 uomini. Per non parlare dei volontari che offrono il loro tempo gratuitamente: anche qui le donne sono in netta maggioranza, 1.245 su 1.062.
Ma come mai questa "colonizzazione al femminile" delle ong? Secondo Lele
Finardi del Cosv di Milano, "le donne manifestano una maggiore propensione
all'impegno per la solidarietà" e lo conferma il numero delle studentesse che
dedicano la loro tesi di laurea ai progetti delle ong e che poi, spesso, vi restano per
fare volontariato. Ma più disincantato è il commento di Sergio Marelli, presidente
dell'Associazione ong italiane: "Potrei ottimisticamente dire che la politica di
genere ha sfondato nelle nostre associazioni, ma non credo sia vero. Piuttosto il fatto è
che gli operatori delle ong sono sottoposti a un'estrema precarietà di lavoro e di
stipendio, scarsa tutela dal sistema occupazionale italiano. E queste sono condizioni
purtroppo accettate più facilmente dalle donne che dagli uomini". Ipotesi confermata
dai dati sui cooperanti all'estero, il settore più tutelato dalla legge italiana dove,
guarda caso, il numero di uomini e donne si equivale.
Che la "femminilizzazione" delle ong non sia una conquista di genere lo
illustrano bene anche i dati successivi dell'inchiesta: se infatti la maggioranza degli
operatori della solidarietà internazionale è donna, meno del 30% ha ruoli di potere. In
particolare, appena 17 associazioni su 68 intervistate hanno un presidente donna, e solo
il 33% di donne siede nei consigli di amministrazione.
Dati che rispecchiano da vicino la situazione generale della società italiana, ma che
diventano allarmanti se si considera che si tratta di organizzazioni impegnate in progetti
di sostegno alle donne e di emancipazione femminile in varie parti del mondo.
Ancora Marelli: "Dobbiamo onestamente ammettere che c'è ancora un cammino da fare
all'interno delle nostre associazioni. E non credo si tratti di porre delle
"quote" fisse tra uomini e donne, come alcuni propongono anche in ambito
politico, è tutta una cultura che deve cambiare. La situazione italiana è sicuramente
una delle peggiori a livello europeo".
Spesso sono le donne stesse a non candidarsi per ruoli di responsabilità, preferendo
invece collocazioni "tradizionalmente femminili" come la segreteria (79,7%) o la
contabilità (70,7%), mentre direzione e analisi finanziaria sono rigorosamente lasciate
agli uomini. Ma perché le donne non si candidano? Lo abbiamo chiesto ad alcune
lavoratrici di lunga data nelle ong, e tra un "non mi sento adeguata" e un
"non me la sento", la risposta più frequente è sempre quella di Maria,
segretaria da 16 anni nell'Lvia di Cuneo: "non vedo compatibili cariche di
responsabilità con la gestione della famiglia". All'Lvia (oggi con 6 uomini nella
presidenza e 12 consiglieri maschi) ci sono state donne con cariche dirigenziali, ma
"sono durate poco" dice Maria. E lei? Suo marito è molto impegnato nel
sindacato e "uno dei due doveva ben assicurare di tornare a casa con degli orari
fissi". Guarda caso, ha deciso di assicurarlo lei.
"Il rapporto con la famiglia e la gestione concreta dei figli rimane uno dei problemi
principali per le donne che lavorano - commenta Iside Baldini, psicologa, da 16 anni
nell'Acra di Milano - ma non è solo questo: assumersi il potere spesso contrasta con
l'immagine che la donna ha di sé, l'immagine più diffusa nella cultura generale, che è
sempre quella della mamma, votata ai ruoli di "accudimento", nascosti e umili,
anche se importantissimi. Una cultura che la donna è la prima a perpetrare".
Non si tratta solo di difficoltà materiali dunque, ma anche di più profondi
meccanismi inconsci su cui si fonda la stessa identità femminile. "Io non credo
nell'approccio di genere - ci tiene a sottolineare Iside - piuttosto credo nell'importanza
di armonizzare la parte maschile e femminile che è dentro ognuno di noi". Lei,
comunque, ha fatto delle scelte diverse. Coordinatrice dei progetti dell'Africa dell'Ovest
all'Acra, non si è sposata, e viaggia spesso per i diversi paesi dell'Africa a verificare
l'andamento dei progetti e intrattenere relazioni con i partner locali.
"Quando ho iniziato a lavorare all'Acra ero l'unica donna - racconta - oggi invece
siamo la maggioranza. Posso dire che si è verificata una vera
"femminilizzazione" dell'associazione". Guarda caso, però, tutte giovani,
tutte non sposate e con poche intenzioni di farlo. "Avere responsabilità in una ong
è molto impegnativo, anche perché è qualcosa di più di un semplice lavoro, è un
impegno etico, l'adesione ad una causa. Vuol dire non avere orari e viaggiare molto, e
questo non aiuta certo a farsi una famiglia. E poi, diciamocelo, gli uomini scappano
quando vedono una donna troppo intraprendente, si sentono messi in discussione nel loro
ruolo".
Insomma, con tutto il rispetto per i diversi ruoli, tra segretaria e zitella la
prospettiva non è troppo rosea.
Ma è possibile che il mondo del volontariato, che contesta i meccanismi perversi della
nostra società, non sia riuscito in questo campo a partorire modelli nuovi di lavoro e di
ruoli di genere?
Ci sono, certo, le ong "di sole donne", fatte tutte di donne e che lavorano
esclusivamente per le donne. O quelle di settore, che si occupano soprattutto di scuola ed
educazione (campi tradizionalmente in mano al genere femminile). Qui i ruoli di potere
sono tutti gestiti da donne, ma certo non si può considerarla una conquista nei rapporti
di genere. E i problemi di compatibilità con la famiglia rimangono.
Secondo Marelli, "il fatto di ricalcare i ritmi "manageriali" delle
aziende, e quindi i meccanismi perversi legati a questi ritmi, primo fra tutti la
marginalizzazione delle donne, è un'imposizione subita dalle ong, che in gran parte
deriva dalla mancanza di legislazioni adeguate. In Olanda, ad esempio, molti organismi
hanno applicato veri e propri pacchetti di "politiche familiari", che prevedono
la diffusione del part-time, tutele sindacali anche nelle associazioni, riduzioni
dell'orario per motivi familiari, ecc... Ma è il contesto generale che glielo permette.
Un passo avanti si è fatto in Italia con la legge della Turco sulla paternità, ma si
potrebbe fare molto di più". Ad esempio? "Defiscalizzare gli oneri da lavoro
dipendente per il mondo no-profit, questo aiuterebbe molto le associazioni, che spesso non
sono in grado di sostenere i costi delle assunzioni regolari". È chiaro che questo
non risolve il problema culturale di fondo, ma un contesto istituzionale favorevole è il
primo passo perché i cambiamenti culturali possano avvenire senza troppe fratture. Come
sostiene anche Rosina Rondelli, per 9 anni presidentessa del Cisv di Torino, che racconta:
"Sono diventata disponibile a fare volontariato solo quando i figli erano abbastanza
grandi. Credo ci sia una fascia della vita in cui bisogna mettere in conto che l'attività
principale è dedicarsi ai figli, ma dopo le possibilità sono molte. Io sono stata
facilitata dal fatto di avere lo stesso lavoro di mio marito (entrambi insegnanti, ndr)
per cui si partiva da una situazione paritaria, ed è stato un buon gioco di squadra.
Quello che ho comunque verificato è che anche se si riescono a gestire bene gli impegni e
la famiglia, la donna vive sempre sensi di colpa per le sue assenze, che alla lunga
rendono logorante l'impegno". Il Cisv ha comunque fatto qualche piccola scelta
controcorrente in questi anni, come quella di assumere una ragazza mentre era incinta.
"Questo inizialmente ha creato qualche malumore nell'associazione - racconta Rosina -
perché significava avere subito un'aspettativa per maternità e quindi dover cercare una
sostituzione, ma poi è stato accettato da tutti". Anche all'Acra si sono trovati a
fare scelte non sempre facili, come quella di inviare come coordinatrice dei progetti in
Senegal una donna con un bimbo piccolo, e quindi con orari e mobilità ridotta, ma hanno
deciso di farlo, pagando lo scotto di dover riorganizzare il lavoro in modo diverso. E la
cosa funziona. Piccoli gesti, ma che indicano un cammino. Se non si vogliono riprodurre
anche nelle associazioni di volontariato gli stereotipi della donna-segretaria o della
donna-manager (single) vanno sperimentati, oltre a nuovi rapporti tra uomini e donne,
nuovi modi di lavorare per tutti perché la famiglia, si sa, è fatta anche dai padri.
Volontari per lo sviluppo -
Dicembre 2001
© Volontari per lo sviluppo