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Colombia - Viaggio nella zona "liberata" dalle Farc

Finché c'è coca c'è speranza

Un'area di 42 mila chilometri quadrati governata dalla guerriglia, in piena Amazzonia, dove la gente sopravvive coltivando coca. Per gli Usa e il governo la soluzione della crisi è militare. Ma un'ong italiana scommette su una proposta alternativa.

di Javier Schunk
da San Vicente

San Vicente del Caguan, sperduta cittadina nell'Amazzonia colombiana. È la capitale del Caquetá, ma anche il capoluogo della zona controllata dalla guerriglia, l'area smilitarizzata o "liberata" dalle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Per arrivarci, in 150 Km di una bella strada asfaltata, si passano quattro posti di blocco. Due sono dell'esercito regolare e due dei ribelli. Qui sorprendono le ragazze guerrigliere: uniforme militare, kalashnikov a tracolla e granate appese alla camicia, mentre si rifanno le unghie e l'acconciatura.

Coca e violenza

Da primo paese di raffinazione ed esportazione della cocaina, la Colombia diventa, negli anni '90, anche il principale produttore di coca, che contribuisce al 4% del prodotto interno lordo (ma i profitti maggiori restano nei paesi consumatori, Usa in testa). Il business fa crescere l'aggressività delle bande che lo gestiscono, così come la forza militare delle guerriglie (oltre alle Farc, l'Eln, Esercito di liberazione nazionale) e, sul fronte opposto, delle bande paramilitari (riunite sotto la sigla Auc, Autodefensas unidas colombiana), alleate dell'esercito governativo. Tutti traggono nuovi benefici dal traffico - arrotondando anche con i sequestri - mentre crescono i massacri ai danni dei civili, accusati di appoggiare l'una o l'altra fazione (secondo la Commissione colombiana dei giuristi, il 49% delle uccisioni extra combattimento sono attribuite alle Auc e l'11% alle guerriglie). Aumentano gli sfollati: negli ultimi 5 anni un milione di colombiani ha lasciato le zone rurali per le città; ma ci sono anche gli emigrati a causa della crisi economica (nel '99 la recessione, per la fuga di investitori, ha ridotto il prodotto interno lordo del 4,5%) e della disoccupazione che raggiunge il 20%.

La situazione esplosiva ha portato il presidente Adrés Pastrana al tentativo di accordo con le Farc, da cui nasce, nel 1999, la zona smilitarizzata, despeje. Un'area grande quanto la Svizzera, nel cuore del paese, in cui le Farc hanno controllo formale ed effettivo. Uno Stato nello Stato, esperienza unica nel continente. Pastrana e l'anziano capo guerrigliero, Manuel "Tirofijo" Marulanda, si sono incontrati ancora lo scorso febbraio a Los Pozos, in zona liberata. L'intesa siglata punta a velocizzare il processo e arrivare a un cessate il fuoco, ma di fatto l'intensità del conflitto è in aumento. Il presidente continua a perdere credibilità a livello nazionale e internazionale, mentre si prepara a uscire di scena. A maggio 2002, infatti, ci saranno nuove elezioni e la campagna elettorale è già cominciata. I candidati sono addirittura 14, segno di un'atomizzazione politica e di una disillusione dell'elettorato.

I tre poteri

A San Vicente i guerriglieri popolano le vie della cittadina assopita. C'è il loro ufficio, il negozio dove si trovano gadget - come le spille delle Farc - a fianco di pubblicazioni politiche e libri su Simon Bolívar (uno degli eroi dell'indipendenza sudamericana dalla Spagna, che voleva creare un grande Stato andino). Molte auto giapponesi nuove di zecca, senza targa. Sono grosse jeep delle Farc, che si dice siano rubate o chieste ai proprietari terrieri locali.

La piazza centrale riassume la storia di questa terra: da un lato il municipio, che oggi non conta (perché le figure istituzionali dello Stato colombiano non hanno potere); dall'altra l'ufficio delle Farc; al terzo lato, la cattedrale, a simboleggiare il potere della chiesa, legata alle istituzioni ufficiali ma rispettata dalla guerriglia.
Al centro della piazza (e dei tre poteri) troneggia un tronco alto un metro con un'ascia piantata nel mezzo: è il monumento al tumbe (l'abbattimento), simbolo e orgoglio del colono, l'abitante di questi luoghi. Sì, perché il popolo del Caquetá, del Putumayo, del Guavire è gente sradicata, che viene da lontano, coloni appunto. Arrivati in Amazzonia, attratti dai vasti spazi, si sono fatti strada nella foresta distruggendola.

Vita da coloni

In tre ore di navigazione sul rio Caguan, e un'altra di cammino, si arriva a una vereda (piccolo villaggio). Nella casa di legno e lamiere Carlos, un contadino di mezza età, racconta la sua storia. "Nel 1981 ho lasciato il Pendio (località colombiana, ndr) perché là, lavorando in campagna, non c'era la possibilità di mantenere la famiglia. Avevo sentito dire che nel Caquetá si potevano fare i "milioni" coltivando coca. Una volta trasferiti ci siamo resi conto che le cose non stavano proprio così". Oggi sono cinquanta famiglie e hanno costruito anche due scuole elementari. Non sempre però si ha abbastanza per vivere. "Noi possiamo contare su tre ettari di coca. Tutti qua si mantengono così". In alternativa ci vorrebbero 50-60 capi di bestiame, ma pochi possono permetterseli.

Miguel vive in un'altra vereda a due ore di cammino. Come gli altri è arrivato fin qui in cerca di fortuna. "Adesso riusciamo a produrre quello di cui abbiamo bisogno per nutrire le nostre famiglie. Ci interessa ricevere formazione e orientamenti per migliorare la nostra salute". Questo villaggio è composto da 36 gruppi familiari. Si sono organizzati in comitati: per l'agricoltura, l'ambiente, la salute. Alcuni, arrivati agli inizi degli anni Ottanta, sono riusciti a mettere qualche soldo da parte e a ritornare nei luoghi di origine. Molti altri no. Secondo Miguel, "la coca non è abbastanza redditizia. Il capitale non cresce".

Un ettaro piantato a coca produce un guadagno netto di circa 600 mila lire ogni due mesi. Le foglie sono strappate e lavorate localmente per produrre la pasta base, risultato intermedio della lavorazione con cui si ottiene la cocaina. Ogni 45 giorni si può raccogliere, per otto anni, poi bisogna seminare nuove piante. I coloni si rendono conto che questa attività, al loro livello, basta appena per sopravvivere e cercano alternative. A fianco dei loro ettari a coca custodiscono le vacche dei grandi proprietari e cercano di acquistarne di proprie.

Invece di puntare sulle alternative, le autorità, supportate dagli Usa, combattono la produzione con la fumigazione dei campi. Piccoli aerei spruzzano prodotti chimici nordamericani, usati come diserbanti, su vaste aree. Prodotti che nessuno conosce e che distruggono ogni tipo di piantagione, provocando anche bruciature sulla pelle. "Un ettaro di fumigazione costa circa 15 milioni di pesos (equivalenti alle lire, ndr) - dice sicuro Miguel - Se mi offrissero metà di quella somma sarei disposto a tornare nella mia terra di origine!".

Cercando l'alternativa

In zona smilitarizzata si vedono enormi cartelloni di propaganda contro il piano Colombia (vedi VpS dicembre 2000). È questa la ricetta Usa per la soluzione della crisi, lanciata nel dicembre scorso. Un budget di 7,5 miliardi di dollari (4 miliardi dalla Colombia) in tre anni, di cui l'80% costituito da armamenti dell'esercito nordamericano in disuso, e il 20% dovrà essere utilizzato per opere di assistenza. Il pretesto ufficiale è la lotta al narcotraffico, ma in realtà gli Usa puntano ad annientare la guerriglia. Un piano molto criticato dai paesi latino-americani e da quelli europei, perché potrebbe portare a un intervento militare diretto dei nordamericani nel conflitto (veterani Usa sono già all'opera come consulenti di guerra). Si temono anche ondate di sfollati e l'esportazione di piantagioni e guerriglia nei paesi confinanti. Proprio per questo anche Ecuador e Brasile sono contrari al piano.

Ma le alternative non sono impossibili. E partono dal basso. Ci hanno scommesso il Cisv e l'associazione Impegnarsi Serve di Torino, potenziando un progetto di sostituzione della coltura di coca, insieme con il Cifisam (Centro de investigación, formación, información para el servicio amazonico), ong locale legata al vicariato cattolico di San Vicente. Progetto sostenuto dal Ministero degli Affari esteri italiano. "La strada che si vuole seguire è quella della coscientizzazione dei contadini, che devono analizzare la loro realtà e cercare alternative", spiega Fernando, responsabile del progetto in loco. "Si tratta di un processo a medio-lungo termine, nel quale si lavora sull'uomo piuttosto che su parametri tecnici". L'abbandono di questo tipo di produzione, infatti, non è cosa facile e, soprattutto, è legata a meccanismi di mercato internazionali. L'idea base è di accostare la coltivazione della coca con altre colture e allevamenti, fino a ottenere, in tre anni, un reddito paragonabile a quello derivato dalla pasta base. Sarà allora che il contadino avrà l'opportunità di abbandonare la coca.

Così, Fernando ha iniziato a lavorare come coordinatore di animatori sul territorio. Questi operano direttamente con i coloni, per sviluppare in loro una coscienza critica e le possibilità economiche, attraverso formazione tecnica, concessione di crediti, consulenza nelle diverse attività agricole e di allevamento.

Il guerrigliero

Il Cisv, per ottenere il benestare delle autorità sul progetto, ha dovuto incontrare i guerriglieri. Stimate in ventimila effettivi armati, le Farc hanno un peso militare tale da portare perfino il presidente in questo luogo sperduto per negoziare. "La nostra è una lotta politica, vogliamo un nuovo progetto per modificare le condizioni di potere in Colombia, un sistema profondamente antidemocratico" sostiene il comandante guerrigliero incontrato a San Vicente. Sulla cinquantina, vestito in mimetica, la voce è tranquilla ma ferma. "Chiediamo segnali a livello nazionale, non combattiamo per noi stessi o i nostri figli, né per la zona liberata, ma per tutta la Colombia". Una guerriglia che cerca anche di coinvolgere la popolazione. Nel '99 crea il Movimento Bolivariano, illegale, per cercare un legame con la base che ancora manca, e far partecipare anche chi non vuole prendere le armi.

In un contesto così complesso e delicato, dove la gente non osa parlare per non rischiare la vita, resta impressa la frase di un colono: "La vita qui è dura e vorremmo cambiare, però, al momento attuale, finché c'è coca c'è speranza".

Volontari per lo sviluppo - Agosto-Settembre 2001
© Volontari per lo sviluppo