di Pier Paolo Eramo
da Asmara
Asmara sembra soddisfatta di stare così in alto. I suoi 2400 metri, il cielo vasto e
quasi sempre azzurro, un clima da estate sulle Alpi e gli ampi viali alberati la
distinguono maestosamente dalla terra bruciata dei bassopiani e dai calori umidi di
Massaua.
Un po' Tunisi un po' Asti, la capitale eritrea riserva molte sorprese a chi si aspetta i
ritmi e gli odori dell'Afrique de l'Ouest e quel disarmonico e rumoroso disordine
che fa Africa nell'immaginario collettivo. Ad Asmara le strade sono pulite, il traffico è
ordinato, la gente non va contromano (neanche in bicicletta), non vedi né violenza né
nervosismo e la notte si cammina sicuri in quartieri semideserti. I vigili, di una
severità ben superiore alla latitudine, non ti fanno la multa per andare a bersi una
birra, ma ti sequestrano la patente (e qualche volta la macchina) per ricostituire un
ordine violato. Spesso ti sembra di essere tra montanari nostrani, cortesi ma duri, e di
poche parole.
Paese bilingue (tigrino e arabo), l'Eritrea sta poco a poco abbandonando l'eredità
culturale e linguistica italiana a favore dell'inglese (che è per esempio la lingua
veicolare della scuola secondaria), più spendibile a livello regionale e internazionale.
Il tempo della colonia ha comunque lasciato sulle insegne dei locali (il bar Torino,
il cinema Dante, il ristorante Milano) e sulla bocca della gente una
quantità enorme di parole italiane. Se ti piace bere il caffè nel bicchiere invece che
nella tazzina, chiedi un bun bichiere. E così via per il marciapiede,
la bombola del gas, il banino (accanto al più "moderno" amberger),
la forchetta, il cacciavite, il motore. "Let's go" è
semplicemente andiamo; "come va?" si può dire e alora?
L'asmarino fa un'aria stupita: anche in italiano dite così?
Per la città si aggirano vecchietti dall'aria aristocratica: giacca, cravatta e scarpe da
ginnastica, che sono capaci di raccontarti in italiano Le mie prigioni dei bei
tempi della colonia, di quando gli italiani costruivano strade, gestivano fabbriche,
combattevano per l'Impero; poi ti salutano con un sono molto onorato di aver parlato
con lei... C'è insomma un'Italia fuori dall'Italia, in un paese a metà tra l'Africa
e il mondo arabo, che conta nove etnie, che celebra feste copte, musulmane e cattoliche,
ma che è soprattutto unito dalla sua grande e tragica avventura della lotta per
l'indipendenza (che ha le sue radici - ironia della storia - nella nascita della colonia
italiana "Eritrea", nel lontano 1890).
Ma l'Eritrea colpisce per molti aspetti. Per esempio perché è diventato un paese di
donne. Un esercito di donne, che quando ancora è scuro spazzano la città, raccolgono
cicche, curano aiuole; donne piegate in due nel sole che scende, sotto un carico di
fascine, sulla strada che viene su da Massaua; mantelli bianchi che fanno l'autostop al
bordo del nastro d'asfalto che porta a Mendefera; veli che ondeggiano nel vento del
mattino presto sul sagrato di Nda Mariam. Nonne raggomitolate che vendono numeri
di Time, uova bollite, niente.
Intanto i loro mariti e figli scrutano l'orizzonte delle terre basse. Sono ancora 250 mila
gli uomini al fronte (in un paese che non raggiunge i 4 milioni di abitanti), molti da
quando è cominciata l'ultima guerra, più di due anni fa. Li vedi qualche volta che
tornano ad Asmara quando già è buio, dopo che si sono arrampicati sul cassone di un
camion su per le pareti dell'altopiano. Ma ci sono quelli che non tornano da tre anni. O
non tornano più. Fino a un mese fa stavano accampati nelle trincee, lungo confini che
ormai anche le capre conoscono. Di qua i nostri, a cento metri gli altri, i waiani, come
per spregio sono chiamati gli Etiopici. Dormivano nelle caserme, nelle scuole, lungo
chilometri di terra aspra fecondati da migliaia di mine. I due eserciti un tempo fratelli
si guardavano, si ascoltavano, si odiavano, così uguali tra loro, come nei racconti della
prima guerra mondiale. Come in un gioco tra gli uni e gli altri, oggi si muove a fatica la
macchina dei peacekeepers, bianchi in fuoristrada, carri armati, autoblindo.
Le mogli aspettano, armate di una pazienza senza tempo, e spiano le vicende di quella Temporary
Security Zone che dovrebbe salvare la vita dei loro uomini. Gli studenti di quinta
sperano di passare il matrik, l'esame di accesso all'università. Sperano di non
essere sbattuti al confine a 18 anni. Le ragazze della scuola italiana di Asmara sognano
De Gregori, leggono Cioè e sfogliano fotoromanzi sotto il banco. Le mamme
comprano l'uniforme e aspettano; magari va bene. Di guerra questo paese non ne può più,
ma è ancora troppo debole per abbassare la guardia.
Tutto questo nella elegante e italiana Asmara non si vede o si vede poco. Per capire
bisogna scendere, imboccare le strade che portano al bassopiano. Per esempio a Molki, un
villaggio a pochi chilometri dal confine con l'Etiopia.
A Molki c'è anche il bar. Quattro pali coperti da un telo dell'Unhcr (l'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) riparano dal sole a picco del
mezzogiorno, in un'aria che se spegni la radio ti riporta solo qualche verso di gallina
impegnata a beccare le pietre. L'erba non c'è. La gente strappa sorgo e mais a una terra
dura e secca, l'acqua viene da un torrentello poco lontano, che nella stagione delle
piogge si arrabbia e spazza via tutto, scavando solchi profondi. Gli asini (e le donne)
vanno e vengono carichi di secchi d'acqua e di legna per la cena. Una ragazza stanca ci
porta coca cola, fanta, sprite. Probabilmente l'inaspettata visita di cinque bianchi su
fuoristrada le brucia le provviste settimanali... Poi si abbatte, forse malata, su un
lettino appena dietro la veranda. La svegliamo per il conto.
Intorno le case sono fatte con pietre ammucchiate, con blocchetti di cemento, con rami,
sacchi, sterpaglia, pali. Di uomini come al solito non se ne vedono, solo vecchi, donne e
bambini. Poco fuori dal villaggio ci sono la scuola elementare e il centro di salute, dove
il dottore italiano che ci accompagna andrà a vivere per un po', lontano
dall'elettricità, dal telefono, dall'acqua. Per fortuna l'ospedale ha delle celle
frigorifere dove tengono i vaccini, così si possono mettere al fresco due birre... La
scuola è stata danneggiata dagli etiopici, due piccoli edifici per 700 bambini. Niente
bagni, niente acqua, niente. Quattro muratori sudano per poche migliaia di lire al giorno,
il capomastro si lamenta perché il padrone dell'asino che trasporta l'acqua ha aumentato
i prezzi. L'Asmara Cafè, lo struscio serale di Indipendence Avenue, la Casa
degli Italiani sembrano appartenere a un'altra dimensione.
Quando il fuoristrada se ne va è già tardi, il cielo è ancora azzurro e il tramonto
sparge di poesia bambine curve sotto i sacchi. Ma solo noi lo vediamo. Gli asini arrancano
sulla via del ritorno, con gli aiuti alimentari sulla groppa. Dopo due ore di pista
polverosa (costruita dagli italiani) ci fermiamo a Mendefera, la prima cittadina posata
sull'asfalto, e godiamo di una birra e di un piatto di zilzil (una specie di
spezzatino alla brace). A Molki intanto fa notte, una notte senza luce elettrica. E
freddo.
Fuori Asmara (ma anche nelle periferie, per chi sa guardare) si straccia il velo elegante
e la tranquillità quasi irreale della città, e ci si scontra con una realtà durissima.
Una persona su quattro è stata sfollata durante la guerra, finita ufficialmente da tre
mesi. Internal Displaced Persons (Idp), dicono le Nazioni Unite. Vuol dire che un
giorno vedi arrivare un esercito armato, tu magari stavi tagliando una cipolla o zappando
la tua terra (ma gli "altri" diranno poi che tua non era). E dopo un'ora sei su
una strada che scappi, con l'asino, due sacchi, i bambini che piangono e non hai acqua da
bere. E fa caldo. Sei diventato un "Idp".
Duecento mila sfollati vivono ancora oggi nei campi profughi. Campi da migliaia di
persone, distese enormi di tende targate con qualche sigla internazionale, che
diventeranno poi tendoni di bar, borsoni della spesa, muri di case, tetti di capanne. Poi.
Per adesso tutti al campo, pensando alla casa lontana. Dopo che qualche meticoloso soldato
ha sotterrato mine nel tuo cortile, ha raso al suolo la tua camera da letto, ha
saccheggiato la tua vita. Ma adesso la guerra è finita. Welcome back home...
Settantamila eritrei sono stati espulsi dall'Etiopia durante la guerra, in nome dei
loro avi. Quando andava bene li convocavano in una piazza e li scortavano al confine, con
auguri di buon viaggio. Quando andava male, marcivano nei campi di prigionia, erano
violentati, torturati, offesi. Poi, scortati al confine. Si chiama pulizia etnica.
Sono 1.760.000 le persone per cui le Nazioni Unite hanno lanciato lo scorso febbraio un
appello urgente, più di un terzo della popolazione: hanno bisogno di acqua, cibo,
medicine, case, lavoro, pace.
In tutto questo il paese resiste, la gente paga le tasse, non c'è traccia di corruzione,
gli emigrati spediscono preziosissimi marchi, dollari, lire, mentre il nakfa (la
moneta nazionale, nata da soli 3 anni) si rivaluta sul dollaro; si preparano i piani di
rientro per i soldati, si discutono progetti di sviluppo, si scrivono le regole per le
prime elezioni, se tutto va bene per il prossimo dicembre.
L'Eritrea continua a stupire, una specie di monello cocciuto che ha osato fare tutto da
solo, che ha puntato i piedi davanti ai grandi della terra, che ha rischiato di essere
spazzato via dal gigante etiopico da sempre amico di molti potenti. Che oggi sta cercando
di uscire dall'ennesima guerra e di diventare - finalmente - un paese normale.
Eritrea: 53° Stato d'Africa1962 L'Etiopia del negus Hailé Selassié annette l'Eritrea (già
unità autonoma federata con l'Etiopia), nel pieno silenzio della comunità
internazionale, trasformandola in quattordicesima provincia dell'impero. Comincia la lotta
per l'indipendenza. 1991 Menghistu fugge da Addis Abeba; l'esercito etiopico si sbanda; L'Eplf entra vittorioso ad Asmara e forma un governo provvisorio. 1993 Gli Eritrei votano quasi all'unanimità per l'indipendenza dall'Etiopia. Nasce il 53° Stato africano. 1998 Tensioni di confine con l'Etiopia si trasformano in un conflitto nella zona di Badme, sud-ovest del paese, che diventa presto guerra totale. 2000 A maggio l'Etiopia invade l'Eritrea da ovest e da sud, occupando gran parte del territorio. Il 18 giugno i due paesi firmano un armistizio, confermato dall'accordo di pace del dicembre successivo: previsti tra l'altro la costituzione di una commissione per la definizione dei confini, lo scambio dei prigionieri e il ritorno degli sfollati. 2001 A febbraio le Nazioni Unite decidono con i due paesi la creazione di una Zona di Sicurezza Temporanea (Tsz) lungo il confine, dove dovranno stabilirsi oltre 4000 caschi blu. La scadenza prevista per il ritiro delle truppe e la creazione della Tsz non è però rispettata. L'Etiopia mantiene parte delle sue truppe all'interno della fascia di sicurezza. Il presidente eritreo ha annunciato, invece, il ritiro delle truppe dall'inizio di aprile. |
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Maggio 2001
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