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Afghanistan

Io, donna dietro il burqa

L'incredibile testimonianza di Orezala Ashrafi, presidentessa di un'associazione di donne afghane che, nel segreto, studiano e avviano piccole attività economiche. Sfidando i Talebani.

di Cristiana Scoppa

Forse proprio in questi giorni Orezala starà discutendo di matrimonio con il proprio fidanzato. Starà cercando di posticipare ancora le nozze, per le quali le loro famiglie, nel campo profughi di Peshawar, in Pakistan (non lontano dal confine con l'Afghanistan) fanno pressione da tempo. Lei ha 27 anni ormai, sono fidanzati da quando ne aveva 19. Ma troppe cose cambierebbero sposandosi. "Non è che dovrei smettere di lavorare, ma di fatto diventerebbe impossibile. Perché da noi è la padrona di casa a doversi occupare degli ospiti, far da mangiare, lavare il bucato. E in questa situazione precaria continuano ad arrivare parenti e amici che si installano da te per una, due settimane, ma anche per mesi... Io non sono ancora pronta per fare solo la donna di casa".

A scuola di nascosto

Orezala Ashrafi è una ragazza afghana minuta, asciutta e forte. È una delle fondatrici e l'attuale presidentessa di Hawca (Humanitarian assistance for the women and children of Afghanistan), associazione nata tre anni fa a Peshawar, ma che riunisce uomini e donne residenti in diversi centri dell'Afghanistan. Il primo obiettivo dell'associazione è di avviare alcuni corsi di formazione - alfabetizzazione, igiene, prevenzione sanitaria - destinati alle donne e alle ragazze di un paese, l'Afghanistan dei Talebani, dove fino a qualche mese fa alle bambine era proibito andare a scuola. Corsi "discreti" quando non proprio segreti, realizzati grazie a una straordinaria solidarietà tra donne: "le allieve possono parlare del corso solo con altre donne della massima fiducia, per non mettere a rischio le insegnanti". Corsi che servono anche a ridare speranza a chi vive in un paese che ha conosciuto vent'anni di guerra.

La fuga

"Io sono nata a Mingahar, un piccolo centro dell'interno - racconta Orezala - ma poi la mia famiglia si è trasferita a Kabul, la capitale. Abbiamo vissuto lì fino al 1989. I russi avevano invaso il paese, ma fino a quel momento Kabul era stata risparmiata. Dall'89 la vita è diventata impossibile, i miei hanno deciso di vendere tutto e rifugiarsi in Pakistan. È stato un viaggio estenuante, a bordo di camion e poi a dorso di mulo e a piedi. Abbiamo dovuto fare vari tentativi, prima di riuscire a passare la frontiera. Quando siamo arrivati a Peshawar ci siamo trovati davanti una landa desolata dove la gente si era accampata nelle tende. Anche noi abbiamo fatto così. È stato un periodo molto difficile: a Kabul andavo a scuola, mia madre era insegnante, mio padre lavorava. Lì non c'era niente da fare, e tutto era complicato, persino accendere il fuoco o procurarsi l'acqua. Mia madre piangeva spesso, anche perché i suoi genitori e i suoi fratelli avevano deciso di restare in Afghanistan".

Profughi senza futuro

Mentre racconta, gli occhi scuri e profondi sembrano diventare ancora più grandi. "Quando abbiamo capito che le cose non miglioravano, abbiamo deciso di costruire una casa, e io sono stata mandata a scuola in un collegio di un'altra città, per finire le superiori. Al ritorno è cominciato un periodo durissimo per me: quasi ogni giorno arrivavano nuovi profughi, donne, ragazze, bambini. Tutti raccontavano storie terribili, storie di stupri, violenze, lutti. Io sprofondavo in una depressione sempre più nera. Allora ho cercato di mettere a frutto le cose che avevo imparato, insegnando alle donne e alle bambine a leggere e scrivere. Il contatto quotidiano con loro mi aiutava: capivo quali erano i loro bisogni, ma da sola non potevo fare molto".
Cominciano così i rapporti con altre persone che, come lei, avevano avviato piccoli interventi volontari "per rendere la vita al campo un po' più normale". Sono i germi che porteranno, alcuni anni più tardi, alla nascita di Hawca. "Uno dei problemi più grossi era la mancanza di fonti di reddito per chi viveva nel campo: gli uomini riuscivano a trovare lavoro a giornata come manovali, nei cantieri pakistani. Oppure nelle fornaci, dove lavoravano anche bambini di 5 anni, che si alzavano alle 4 del mattino per andare a impastare l'argilla e tornavano al campo solo verso le 7 di sera. Per 100 rupie al giorno, nemmeno due dollari", ricorda Orezala. "Ma per le donne, niente da fare. E così, oltre a leggere e scrivere, cercavamo di avviare qualche impresa, di fare dei lavori artigianali per poi venderli".

Il burqa

Nel '95 Orezala torna per la prima volta in Afghanistan. "È stato tremendo: c'erano mendicanti ovunque, vedove con bambini e cadaveri per la strada, abbandonati. Li ho sognati per notti intere. Il paese di cui avevo custodito gelosamente il ricordo, il paese nel quale mi trasferivo in sogno ogni notte, là sotto la tenda del campo profughi, era scomparso: le case, le strade, la mia scuola... tutto distrutto. Per la prima settimana non ho fatto altro che andare a fare condoglianze e partecipare a preghiere per i defunti. Alla fine ero così depressa e sotto shoc che mia madre mi ha riportato in Pakistan".
La seconda volta che Orezala torna in Afghanistan il regime dei Talebani si è già instaurato, con tutto il suo corollario di divieti e punizioni. "Le cose erano di nuovo cambiate, ancora in peggio, se possibile, e questa volta erano cambiate anche per me: dovevo indossare il burqa, l'abito-grata che copre dalla testa ai piedi, e badare che nemmeno le mani fossero visibili. Al mio primo ritorno in Afghanistan ero stata travolta dalla tristezza, questa volta dalla rabbia. Ero costretta a vedere quotidianamente donne insultate, picchiate, frustate per la strada, vecchi puniti in pubblico e insultati senza rispetto. I bambini camminavano in mezzo ai cadaveri, ormai apparentemente insensibili".

Il coraggio di agire

Tutto questo non fa che aumentare la sua determinazione a "fare qualcosa per aiutare le altre persone a sopravvivere". Come? "Innanzitutto ascoltando, e imparando a individuare le loro priorità. Poi progettando degli interventi e cercando le risorse per attuarli". È il 1998, Orezala tiene a battesimo Hawca. Comincia la ricerca di finanziamenti. "Abbiamo chiesto aiuto ad altri afghani, uomini e donne rifugiatisi in Europa, in Italia e in Spagna". Una di queste persone mette Orezala in contatto con l'Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo. Si prepara la Conferenza dell'Onu dei popoli a Perugia. Orezala viene invitata: "È stata un'esperienza dura: tutti parlavano dei problemi del fondamentalismo, della situazione in Afghanistan, ma nessuno proponeva interventi concreti per aiutare davvero le vittime".
È a Perugia che Orezala entra in contatto con l'associazione delle Donne in nero, e nasce la sua amicizia con una di loro, Simona Lanzoni, 28 anni. "Quella era la mia prima volta in Italia, in Europa. Non smettevo di fare confronti tra le persone che conoscevo, quelle che avevo incontrato a Perugia, Simona, i suoi amici, e i miei amici, conoscenti, parenti in Afghanistan. Non riuscivo a capacitarmi che vivessero sullo stesso pianeta. Però alla fine ne ho tratto una grande lezione: le cose non sono sempre uguali. Le cose possono cambiare, se ci impegniamo, se non stiamo chiusi in casa a lamentarci senza muovere un dito".

Solidarietà tra donne

Così, quest'anno Orezala è tornata in Italia per lanciare la campagna di raccolta fondi "Io donna dietro il burqa" promossa dalle Donne in nero insieme all'Aidos. "Tutti ormai sanno del burqa e di come il regime dei Talebani tratta le donne, ma pochi sanno davvero chi sono le donne dietro il burqa, cosa pensano, che problemi hanno, cosa desiderano. È questo che voglio raccontare. Perché la mia associazione cerca soldi per risolvere proprio questi problemi. Per realizzare quei desideri costretti sotto le grate". Fa una pausa. "Sì, so che corro dei rischi, perché così facendo agisco contro il regime dei Talebani. Possono minacciarmi, tentare di punirmi, forse uccidermi. Ma se anche lo facessero, al mio posto ci sarebbe qualcun altro. Ormai la strada è aperta".
A darle ragione è giunta qualche mese fa la notizia che in Afghanistan non è più proibito alle bambine andare a scuola. Solo che ci vogliono classi separate, e per ora non ce ne sono...

Chi è l'Hawca

Ribelli velate

Hawca (Associazione per l'assistenza umanitaria alle donne e ai bambini dell'Afghanistan), è nata in Pakistan nel 1998 con l'obiettivo di promuovere l'istruzione, l'assistenza sanitaria e l'autoimprenditorialità delle donne afghane. Oggi lavora in 7 province dell'Afghanistan, dove sono stati avviati 41 corsi di base di alfabetizzazione e sanità. I corsi, della durata di dieci mesi, richiedono alle allieve (bambine e ragazze ma anche donne mature) un impegno di due ore e mezza al giorno. Le lezioni si svolgono in stanze di case private, spesso di nascosto, e i materiali scolastici vengono stampati in proprio e distribuiti dall'Hawca. Oltre a dare una formazione essenziale su argomenti come alimentazione, igiene, prevenzione e cure sanitarie, i corsi offrono un'altra importante opportunità: permettono alle donne che si riuniscono (a proprio rischio e pericolo) di confrontarsi e di sostenersi a vicenda, ricreando così un livello minimo di socialità.

Info:
Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo, via dei Giubbonari 30, 00186 Roma, tel. 06/6873214
Donne in nero c/o Associazione per la pace, via Salaria 89, 00198 Roma, tel. 06/69950217

Volontari per lo sviluppo - Gennaio-Febbraio 2001
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