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Sudamerica - Medicine alternative

Guariti dalle piante

Americani ed europei hanno riscoperto la medicina naturale. E l'hanno convertita in un businnes colossale.

di Fulvio Gioanetto

Dopo essere stata per anni relegata e confinata in specialistici studi etnomedici, la medicina tradizionale delle popolazioni native è ormai al centro dell'interesse dell'ambiente medico internazionale. Studi, ricerche e screenings sui medicinali e le tecniche terapeutiche tradizionali sono moltissimi (un esempio: gli studi sulle farmacopee nigeriane effettuati da Elwis-Lewis nel 1980; sulla medicina degli Atzechi esaminata da Ortiz De Montellano nel '75 e nell'83; sui Chinantechi di Oaxaca incontrati da Browner nell'85), mentre l'industria farmacologica transnazionale, all'incessante ricerca di nuovi principi attivi da brevettare, si è gettata a capofitto in campagne sistematiche di raccolta di campioni di piante e animali, seguendo le indicazioni carpite a qualche ignaro curandero o sciamano locale.

È stato calcolato che, fra il '92 e il '97, ben il 53 per cento delle ricerche e degli studi farmacologici sulle sostanze naturali effettuati nei centri di ricerca statali e privati di Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Giappone hanno utilizzato campioni vegetali o animali provenienti dai paesi del Sud del mondo, o in diretta connessione con le conoscenze e i saperi delle popolazioni native (fonte Lloydia, aprile '98). Le riviste scientifiche del settore (Journal of natural products, Economic Botany, Planta Medica, Fitoterapia, Journal of ethnopharmacology, Biomedicine) e gli indici bibliografici (Ascatopics, Bioscience, Currents Contents) traboccano di articoli e ricerche che inventariano, identificano e presentano le flore medicinali e i saper-fare terapeutici delle popolazioni rurali del pianeta. Per non parlare dell'enorme giro d'affari che rappresentano alcune di queste piante "riscoperte" dal mercato del naturale e della dietetica: si pensi, ad esempio, al guaranà, all'harpagophytum, all'echinacea, tanto per citare le più reclamizzate. Senza contare tutti i nuovi, suggestivi personaggi che, nei paesi industrializzati, sull'onda della New Age e dell'Urban Sciamanism, hanno prelevato e attinto alle conoscenze e ai saper-fare spirituali e religiosi indigeni, ricostituendo pratiche psicoterapeutiche pittoresche e costose a esclusivo beneficio di ricche élites di pazienti del Nord. Autoproclamandosi sciamani, uomini e donne di medicina, curanderos del terzo millennio. Dopo questa sistematica spoliazione (di stampo colonialistico) delle conoscenze, delle risorse naturali e dei patrimoni spirituali e culturali delle popolazioni native, a queste di benefici ne restano ben pochi.

Il caso Shuar

Una decina d'anni fa, nella regione del rio Napo (Amazzonia ecuadoriana), dove lavoravo come botanico in un progetto di valorizzazione della medicina dei Shuar, mi sorprese veder sbarcare in un vicino villaggio tre ricercatori di un'istituzione nordamericana. Attraverso un interprete intervistarono un anziano scannano, raccolsero molti campioni di piante e poi, altrettanto rapidamente com'erano arrivati, ripartirono. Circa un anno dopo, sulla prestigiosa rivista American Anthropologist, faceva la sua comparsa un articolo sullo sciamanesimo dei Shuar, con una lista di piante a potenzialità farmacologica dalle quali erano stati isolati alcuni metaboliti secondari, ovviamente già protetti dal copyright. Qualche tempo dopo, la società farmaceutica Pfizer Biopharm brevettava due componenti antispasmodiche e immetteva sul mercato gli alcaloidi e gli antraquinoni isolati dalle liane delle foreste dei Shuar. Brillante carriera per i ricercatori (scopritori delle piante in questione), introiti enormi per la società che doveva comunque recuperare gli investimenti delle ricerche e, democrazia obbliga, solenne citazione in qualche articolo scientifico degli anonimi "informatori" Shuar. In effetti, i Shuar erano stati doppiamente derubati: nelle loro conoscenze e nelle loro risorse.

Ong alla riscossa

Fortunatamente, nelle Americhe, diverse ong si stanno occupando di medicina tradizionale attraverso progetti che cercano di preservare non solo le conoscenze terapeutiche, ma anche il patrimonio naturale dei territori indigeni.

Poiché le popolazioni locali spesso non hanno la possibilità di accedere ai sistemi sanitari di assistenza,pubblica, né di acquistare le costose medicine allopatiche prescritte dai dottori dei dispensari, alcune ong hanno contribuito alla creazione e al mantenimento di cliniche tradizionali nelle quali operano curanderos e terapeuti locali. Con il Cric, per esempio, abbiamo creato alcune cliniche di medicina tradizionale fra i Miskito del rio Wanki-Coco (nelle foreste tropicali del Nicaragua, al confine con Honduras), i Nahuas di Jalisco e i P'urepecha degli altipiani del Michoacan (Messico). Piccole cliniche rurali non antagonistiche con il sistema sanitario ufficiale (per evitare conflitti e intralci amministrativi), nelle quali si sono prodotte anche medicine galeniche di prima necessità a partire dalle piante raccolte e trasformate che sono poi state vendute per l'autosostentamento della clinica. Altre realtà autogestite dalle comunità indigene continuano a operare in Centroamerica, ad esempio quelle, molto efficienti, dell'Aidesep in Perù, dell'Esteli in Nicaragua, dell'Imesepp in Messico. Tuttavia esistono ancora molti limiti, metodologici e operativi, che frenano l'espansione sul resto del territorio di queste realtà, che sono per lo più isole felici. Si tratta di limiti spesso causati da una diversa concezione della salute fra chi progetta gli interventi (terapeuti, guaritori e operatori di salute tradizionali) e chi ne beneficia (pazienti con le loro famiglie, e l'intera comunità).

La salute come armonia

Per i nativi la salute non consiste solo nella guarigione dalle malattie, ma nello stato di equilibrio fra i diversi elementi dell'ambiente fisico e spirituale, che circonda l'individuo e il gruppo. Questo equilibrio, che in caso di rottura viene ripristinato dal terapeuta attraverso pratiche e rituali specifici, è basato sul rispetto della natura e delle sue risorse, sull'armonia nelle relazioni sociali (solidarietà, etica comunitaria, obbedienza agli insegnamenti, generosità, ospitalità, reciprocità) e sul rispetto verso l'individualità di tutti gli esseri del creato.

Questa visione globalizzante si proietta sulle conoscenze mediche e i saper-fare terapeutici, che attingono alle tradizioni collettive e alle memorie storiche, mitologiche e religiose che queste popolazioni sono riuscite a mantenere. Così fra i Miskito e i P'urepecha, le posologie e i trattamenti non sono diretti soltanto al paziente, ma allo spirito naturale che è stato disturbato, trascurato o offeso.. La malattia, che dovrebbe essere la conseguenza di un'azione squilibrante commessa o proiettata sul paziente, è solo lo specchio di un disequilibrio in atto nel territorio. Un aspetto importante della medicina naturale è il rispetto verso le tecniche e gli approcci tradizionali nei contatti con il mondo spirituale: la capacità di avere e ricevere visioni, l'interpretazione dei sogni, il rapporto con gli antenati, le profezie e le pratiche divinatorie, le credenze animiste nei nahual e nei totem, ecc. Questo rispetto si esprime anche nel considerare le espressioni della spiritualità indigena come strumenti e tecniche terapeutiche, senza volerne cercare per forza interpretazioni o spiegazioni logiche.

Interscambio

L'esperienza ci ha insegnato che per condurre a buon fine i progetti di medicina tradizionale è essenziale l'interscambio, quando possibile, fra i differenti specialisti che operano nel territorio: guaritori, erboriste, ostetriche, osteopati, massaggiatori, sciamani. Questo permette la circolazione dei saperi all'interno e fra le diverse comunità (di cui viene rafforzata l'identità etnica), evita la centralizzazione conoscitiva, apre il confronto fra terapie complementari e allarga le possibilità di guadagno a più figure. I terapeuti, infatti, beneficiano sempre di una situazione sociale ed economica rilevante, che siano pagati in moneta o in natura.

Non dobbiamo dimenticare, infine, le complesse questioni relative al diritto delle popolazioni indigene di brevettare, per proteggere e mantenere le proprie conoscenze mediche e le proprie risorse di materia prima. Che si tratti dell'estratto di una pianta o dell'isolamento di un principio bioattivo, di un sapere relativo alla proprietà, alla posologia d'uso o alla pratica terapeutica di una materia prima vegetale, animale o fungina raccolta presso una popolazione indigena, quest'ultima ha diritto a un riconoscimento e a un risarcimento economico, attraverso i rappresentanti o le associazioni che essa stessa sceglie (secondo le norme e i costumi giuridici ritenuti appropriati). Un introito economico da ottenere attraverso royalties (diritti di sfruttamento per risorse naturali), canoni o percentuali di indennizzo, lend-lease di affitto e di prestito per l'utilizzazione del nome o dell'immagine dell'etnia, copyright di diritto d'autore sulle conoscenze - orali e scritte- sono tutte pratiche commerciali che non devono restare appannaggio delle holding che continuano a sfruttare le risorse e le conoscenze dei locali. Già esistono, in merito, precedenti interessanti di accordi fra società e popolazioni indigene, come quelli che la società farmaceutica californiana Shamanic Pharma ha stipulato con alcune popolazioni amazzoniche della Colombia, o gli accordi di copyright fra il New York Botanical Garden e la Federazione Yanomami del Brasile.

Volontari per lo sviluppo - Agosto 2000
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