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Handicap di celluloide
di Luigi Maccione


"Rain man", "Risvegli", "Il mio piede sinistro" e per finire "Forrest Gump", l'elenco degli ultimi premiati con l'Oscar parla chiaro: l'handicap al cinema va di moda. Ma è sempre stato così? Conciliare impegno sociale e logica dello show business non sempre è facile. Nel caso specifico del tema handicap è quasi impossibile. Anche in questo la settima arte è stata un fedele specchio, anche se inconsapevole, dei mutamenti culturali che avvenivano nella società.
Come nella storia reale anche in quella del cinema l'handicap (ma stesso discorso vale per la diversità in genere) ha attraversato fasi alterne. Passato sotto silenzio fino agli anni sessanta, ha cominciato ad essere timidamente presente nelle opere degli anni della contestazione.
Le poche eccezioni a questo generalizzato black-out ("Il giardino segreto", 1948, ma anche "Heidi", non dimentichiamo la "povera Clara"), hanno sempre presentato la disabilità abbinata alla malattia, il tutto inserito in un contesto melodrammatico che, quando non indulgeva apertamente al pietismo, era più un mezzo per provocare le lacrime della platea, che per riflettere.

A cavallo tra gli anni 60-70, la rivoluzione culturale, legata in America alla vicenda Vietnam, ha prodotto film in cui la figura del diverso assurgeva al ruolo di protagonista, e in cui l'antieroe serviva per denunciare i mali prodotti dalla società americana. Disabile è in qualche modo il Dustin Hoffman di "Un uomo da marciapiede" (1968 di John Schlesinger) e disabili sono i tre protagonisti dello splendido ma sconosciuto "Dimmi che mi ami Junie Moon" (1970, di Otto Preminger ), uno dei pochissimi esempi di cinema socialmente corretto.
Di qualche anno più tardi sono i disabili John Savage de "Il cacciatore" (Cimino, '78) e John Voight di "Tornando a casa" (1976 di Ashby), films che rimandano a "Il mio corpo ti appartiene" ("Men", 1951) splendido Marlon d'annata reduce di guerra e che anticipano "Nato il 4 luglio" ('88 di Oliver Stone). Films in cui l'handicap è messo in relazione con la più generale opera di ghettizzazione messa in atto negli USA a scapito dei falliti, siano essi reduci di guerra, siano soggetti non produttivi.

Al termine del decennio successivo, dopo gli eccessi di machismo muscolare dei primi anni '80 (vedi Rambo, Schwarzy, Rocky e company) ecco apparire una serie di film incentrati su protagonisti disabili. Sono film di grande successo e di indiscutibile fattura (splendidi attori, ottima regia, fotografia e cura dei particolari ai limiti della perfezione) ma che presentano dei contenuti e dei messaggi che finiscono con l'essere inevitabilmente ambigui.
I disabili che vengono descritti in questi film hanno quasi sempre una componente eroica (l'incredibile intelligenza matematica di Rain man, la forza di Forrest, sempre presente al momento giusto nel posto giusto) che puntando esageratamente su un consolatorio "tutti possiamo farcela", finiscono per cedere al pietismo, per ripetere l'ormai abusata formula del "sogno americano". Già, l'America. E l'Italia? La produzione cinematografica ufficiale del nostro Paese (di film indipendenti sull'handicap ce ne sono e di splendidi, ma chi li vede?), brilla per la sua indifferenza nei confronti dell'argomento. A parte il film di Verdone "Perdiamoci di vista" apprezzabile, se non altro per il tentativo di rendere "normale" un argomento del genere, (ma di ambiguità contenutistiche ce ne sono) il tema handicap viene ignorato. Ai registi della nuova generazione un invito a darsi da fare per un impegno che non sia necessariamente legato a motivi di cassetta.


Articolo tratto da "Il Vampiro" n. 4 - maggio 1996. "Il Vampiro" è il periodico del Gruppo Giovani UILDM. La redazione ha sede presso la Direzione Nazionale dell'Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare - in via P.P. Vergerio 17 - 35126 Padova. Tel. 049/8021002 - fax 049/757033.
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