L’uomo che visse per gli scacchi

Molto altro ci sarebbe da scrivere su Alvise Zichichi, perché è davvero difficile trovare qualcosa che il Nostro non abbia fatto per gli scacchi o per gli scacchisti italiani. Oltre al privilegio della sua amicizia, gli resterò debitore di innumerevoli appoggi e consigli, nei passaggi chiave della mia carriera agonistica prima e di quella editoriale poi. 

Penso che molti di noi possano identificarsi in questo approccio al suo ricordo, come nella riconoscenza dell’editoriale di Roberto Messa per Torre & Cavallo Scacco.

Stava per compiere sessantacinque anni, essendo nato il 4 luglio 1938, a Milano. Risiedeva da molti anni a Roma e romano in buona parte appariva, anche se diverse origini famigliari e trasferimenti vari ne sfumavano i tratti. Scompare per infarto in casa, a Roma, presumibilmente il 21 giugno. Da qualche anno era in pensione, dopo una notevole carriera bancaria.

Ero stato in sua compagnia sino a pochi giorni prima, come ho scritto in un’intervista a caldo per L’Italia Scacchistica: “Con squisita gentilezza Salvatore Galiano, organizzatore del festival internazionale di Lido Estensi, mi aveva invitato come puro ospite, in occasione del mio rientro nell’ambiente scacchistico dopo una lunga assenza per motivi di salute.

Ho quindi avuto la fortuna di trascorrere molto tempo in compagnia di Alvise Zichichi, sino a pochi giorni prima della scomparsa. Di Lido Estensi – dove era stato invitato come giocatore e personaggio -  ricordo soprattutto come tanti si rivolgevano a lui chiamandolo ancora e semplicemente presidente. Ricordo come all’ultimo turno finì di giocare per ultimo, dopo sei ore piene, malgrado il giorno prima avesse manifestato l’intenzione di proporre patta e andarsene in spiaggia: lo fece per difendere lo spareggio tecnico di un suo avversario in odore di premi. Ricordo poi il suo dubbio, se, a torneo finito, rimanere ancora qualche giorno al mare in privato o rientrare subito a Roma, cosa che fece proprio per assolvere uno dei tanti residui di impegni federali rimastigli.

Forse è proprio come giocatore che avrebbe voluto essere ricordato in esordio. Già finalista del campionato italiano a 16 anni, conquista il titolo di Maestro nazionale nel 1963. Nel 1977 diventa Maestro Internazionale e nel 1985 corona una delle sue ambizioni: quel titolo di campione italiano che più volte aveva sfiorato e a cui annetteva grande valore, battendosi perché in futuro continuasse ad assumerlo, in una disciplina dove i riflettori puntano implacabili sull’arena internazionale, come in quasi tutti gli sport individuali. Sette volte fece parte della squadra olimpionica italiana. Si fregiava anche del titolo di Arbitro Internazionale.

Recentemente si era laureato anche campione italiano seniores.  A differenza di tanti altri continuava a giocare, malgrado l’età, lo stress, le carenze di preparazione, i modesti risultati.

Innumerevoli le gare disputate in Italia e all’estero. Spesso veniva invitato a spese degli organizzatori, con grande scorno di giocatori molto più forti e più giovani di lui: frutto della sua capacità di instaurare relazioni e di rendersi comunque personaggio utile e prezioso. Molti i cosiddetti scalpi di giocatori famosi. Basti citare la vittoria su Boris Spassky, quando Spassky non era ancora l’accademico ex campione mondiale di oggi, ma un agonista vero.

Fatale che la gente gli chiedesse perché non era diventato Grande Maestro. Rispondeva di non averci mai provato seriamente. Puntualizzava  di non aver mai cullato la strada del professionismo. Però concludeva alla Zichichi: “…probabilmente non ne avevo la forza…

Sorvoliamo in rapida sintesi sulle molte cariche e sui molti incarichi  ricoperti in ambito nazionale e internazionale, non solo presso la Fsi e la Fide, ma presso diversi organismi. Merita uno specifico cenno la fondazione dell’A.M.I.S. (Associazione Maestri Italiani di Scacchi) – ora disciolta – con cui voleva costruire uno strumento polivalente ma soprattutto formativo: trovò come sempre adesioni ed elogi, ma voglia di lavorare poca.

Grossa fama acquisì come organizzatore, con decine di manifestazioni prevalentemente nella capitale, fra cui spiccano indimenticabili edizioni del torneo internazionale dell’allora Banco di Roma. Parecchi inoltre gli eventi in cui dietro le quinte faceva consulenza e costruiva relazioni.

La letteratura scacchistica lo annovera fra gli autori e traduttori di libri preziosi, soprattutto in chiave didattica. Infinite le sue collaborazioni giornalistiche non solo su stampa specializzata. Pochi hanno sottolineato invece la sua attività di bibliografo, i suoi sforzi per dare una sistematicità alla produzione del settore. Con grossa preoccupazione ci chiediamo che fine farà la sua immensa biblioteca.

Omettiamo altre sue attività e iniziative per passare al tema che in fondo è a tutti più vicino: la sua presidenza della Federazione scacchistica italiana, durata dal giugno 1996 all’aprile 2002, di fatto oltre come spiegheremo più avanti.

Candidato in pectore lo era stato sempre, ma mai aveva passato il Rubicone, si dice per una prudenza e titubanza tipiche della sua personalità, soprattutto perché una tale incombenza non si poteva sposare a una corrente attività lavorativa a tempo pieno.

La decisione di candidarsi nasce da uno stato di terribile conflittualità in seno alla federazione, seguita al ritiro per motivi di salute di Nicola Palladino e all’avvento alla presidenza di Sergio Mariotti nel 1994, conflittualità quasi trasformatasi in una patetica versione scacchistica della rivalità Milano-Roma. In molti pensano a lui (non solo da una singola parte) e questa volta non si tira indietro: l’assemblea di Bologna lo elegge a larga maggioranza.

Solo chi ha vissuto in diretta quel periodo può testimoniare la sua vera vittoria, quella di aver cavalcato la conflittualità affossandola e lasciandone vive poche schegge e qualche seme. Con buona pace dei soliti ritardatari, bastò qualche mese per stabilire che Alvise Zichichi non era affatto l’uomo dei vincitori, ma il presidente di tutti.

Dopo di che il calvario continua e mi è grato riproporlo con le stesse parole dell’intervista succitata: “ Avevo collaborato con lui per circa sei anni, l’intero periodo della sua presidenza federale.  Su parecchi argomenti dissentivo, più che consentire, dalle sue impostazioni: di solito erano le ore notturne a sollecitare interminabili discussioni con cui pacatamente ma fermamente mi ribadiva il proprio punto di vista. Sei anni di presidenza della Fsi, per chi la vive con spirito di servizio, sono un’inenarrabile via crucis alle prese con una foresta di problemi, primo dei quali quello cui la gente ben poco rivolge attenzione: la tragica penuria di risorse. Forse l’immagine più significativa erano le notti che passava al computer per arginare la marea del lavoro da svolgere. Nel corso degli anni a vista d’occhio cresceva la sua stanchezza fisica e psichica, condita da contrasti di ogni genere, che lui stesso riconosceva essere fisiologici, ma non potevano non ferire. Sino al giorno delle dimissioni, presentate anch’esse con spirito di servizio, con una modalità che bloccava immediati traumi (N.d.A. ufficialmente autosospendendosi per motivi di salute onde concedere tempo alla formazione di candidature e progetti senza andare a elezioni immediate)…di lui preme esaltarne il presidente a trecentosessanta gradi. L’unico di sempre sperando che non rimanga l’unico per sempre. Non c’era aspetto che trascurava, dal più elevato impegno politico alla gestione di piccole beghe locali e personali a basso profilo, in una perenne dialettica fra interesse generale e interesse particolare. Le sue perle? Penso il riordino amministrativo e la spinta sul fronte della formazione quadri e giocatori.

La sua politica privilegiava cinque direttrici.

La crescita in ambito Coni. La sua premessa era che il Coni è la nostra casa istituzionale, che alle regole di questa casa bisogna scrupolosamente adeguarsi, che questa casa può dare molto non solo in termini di sovvenzione spicciola. Lo sforzo di adeguamento è stato enorme e neppure indolore, poiché molte delle poche risorse umane e finanziarie disponibili sono state spese in questo percorso. Tanto da innescare diffusi malumori: società, comitati, organizzatori, giocatori, hanno spesso mostrato i denti a fronte dei richiesti sacrifici, contestando il Moloch burocratico, alcuni in buona fede, i più per la stupida disillusione di non aver acchiappato col Coni la sperata vacca da mungere.

L’impostazione amministrativa. Per Zichichi solo una seria politica amministrativa e contabile (al centro, negli organi periferici, nelle società) poteva gettare le basi del funzionamento federale e dello sviluppo, in tutti i settori. Anche in questo senso molti sono stati i sacrifici e le insofferenze di adeguamento per un ambiente aduso al più scalcinato pressapochismo.

La formazione. Che si trattasse di giocatori, arbitri, dirigenti, istruttori, l’attività formativa doveva essere privilegiata anche a scapito di altre voci del bilancio e delle spese correnti. Il mondo della scuola doveva poi essere affrontato con gli schemi proposti dal Coni e dai ministeri competenti.

Lo sviluppo della periferia. Alcuni lo accusavano di centralismo, ma fluivano le sue iniziative per sviluppare comitati regionali, provinciali e altre funzioni periferiche in tutti i settori. E ne sono tangibili gli effetti.

Relazioni pubbliche e comunicazione.  Gli rimaneva poco tempo da dedicare e come in tutto il resto non trovava grandi aiuti fra dirigenti dediti soprattutto al personale proverbiale orticello. Quando poteva comunque si dedicava alla creazione di un’agenda di possibili interlocutori esterni di spessore politico ed economico. Aveva sofferto tutta la vita della scarsa capacità comunicativa degli scacchi italiani e della loro federazione e quindi non lesinava sforzi per migliorarla. Perfettamente lucida – purtroppo derisa da molti - la sua analisi della crescita di Internet: lo strumento può risolvere efficacemente i problemi di comunicazione interna, ben poco ci servirà all’esterno.

Che cosa ha ottenuto? Obiettivamente molto poco. Relativamente molto, applicando un concreto parametro comparativo con le risorse: quelle finanziarie di una federazione nazionale con il bilancio di una famigliola a medio reddito, quelle umane di quadri e collaboratori che non praticano certo le sale del G8, non vanno in televisione in prima serata, non vincono assai spesso premi Nobel.

Ora via alla canizza di ciò che non ha fatto o avrebbe potuto o dovuto fare. La parola passa agli sciamani degli scacchi miliardari, ai profeti degli scacchi come massima attività dello spirito, ai fautori di tutto ciò che gli scacchi non sono affatto. Trinceriamoci dietro al vecchio detto per cui chi non fa non falla.

Ci rammenteremo invece quello che ha fatto. Ricorderemo la sua signorilità un po’ affettata ma vera, la sua gentilezza, la sua disponibilità quotidiana. Anche la sua perenne modestia da alcuni valutata falsa, ma assolutamente autentica. Rimpiangeremo pure la sua continua ingenua lamentosità, quella che spinse il portiere dello stabile a non credere alle sue dimissioni: “…ma no…son sei anni che lo dice…

Nel “mondo dei se” quattro o cinque Alvise Zichichi nel dopoguerra avrebbero sbarcato gli scacchi italiani su ben altro pianeta. Ce n’era uno e non c’è più manco quello.  

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