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Il titolo di questa mostra è la parafrasi del più famoso "Alien Sounds", un set di suoni metallici, impersonali che imperversava nei computer di qualche anno fa, intendendo affascinare neofiti e non, palesando la direzione disumanizzante, uniformante e massificante che il mito di un progresso e di un pensiero unico hanno imboccato nella speranza di una strada senza ritorno.
In "Io sono leggenda" (R. Matheson, 1954) il protagonista, rimasto l'ultimo uomo non contagiato dai vampiri si accorge di essere diventato lui il mostro in mezzo a tutti gli altri ormai normali.
Così ora ci piace pensare che gli alieni siamo noi, in mezzo ad un mondo fatto di suoni campionati, filtrati, massimizzati, bufferizzati, generati da "megamacchine" fatte per non distrubare l'orecchio succube dello spettatore che passivamente si attende melodie e suoni assolutamente conformisti e tranquillizzanti.
Gli alieni siamo noi, popolazioni indigene (e umili curatori di una mostra) che si ostinano a cercare nei materiali, nella vibrazione dell'aria, nel vento che percorre gli altopiani, rincorrendo i versi di una scimmia o il gracchiare delle rane il senso profondo di una musica che vuole essere testimonianza di una ricerca di libertà, creatività e infine di assoluto.
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