L'identità sorda (0)

di Bernard Mottez

Si parla molto da qualche anno della comunità dei Sordi, della cultura sorda e dell'identità sorda. Queste tre realtà sono collegate. Ma anche se si cominciano a vedere qui o là testi sulla comunità dei Sordi e sulla cultura dei Sordi, in Francia non c'è ancora nulla di scritto, per quanto ne sappia io, sull'identità sorda (1). E' come se le nozioni di comunità dei Sordi e di cultura sorda abbiano bisogno di essere esplicitate, illustrate e/o potessero dar luogo ad abbondanti commenti, mentre la nozione di identità sorda, presa per buona, non avesse bisogno di essere precisata. Perciò, non ci sarebbe molto da dire (2). Come ciò che designa l'assoluta e irriducibile singolarità di ciascuno può essere confuso con ciò che occorre giustamente chiamare una copia? Il concetto d'identità sorda, devo ammetterlo, all'inizio non mi sembrava molto chiaro. Avviene anche che esso mi crei un problema. Non sono il solo. Che esso crei problemi a quelli che, preferendo semplicemente negare l'esistenza di ciò che li preoccupa, non possono sentir parlare né di cultura né di comunità dei Sordi, ciò è naturale. Ed è per lo stesso motivo che essi non vogliono sentir parlare d'identità sorda. Voi sapete che non è la mia posizione. Oggi si mette molto l'accento, in particolare a 2LPE, sulla necessità per i giovani sordi di incontrare adulti sordi con i quali, si dice, si possano identificare. L'identità non è, a ben vedere, esattamente il contrario dell'identificazione? Il concetto d'identità sorda circola a volte, mi pare, come una sorta di nuovo avatar della vecchia "psicologia del sordo". Si sostituiscono gli impossibili, piatti e deprimenti tentativi di "descrizione oggettiva" di ciò che sono in fondo i sordi per un modello normativo di ciò che devono essere. Qualsiasi cosa si metta in questo modello non ci fa avanzare affatto nella comprensione di cosa voglia dire "essere sordi". Ma soprattutto, procedere in questo modo, è situarsi esattamente agli antipodi del discorso non permettendo di cogliere il carattere profondamente liberatorio per voi, Sordi, della scoperta e/o rivendicazione di ciò che voi chiamate la vostra identità sorda: una liberazione di voi-stessi per ciò che avete di più singolare, di più personale (2). Ho dunque provato il bisogno di riflettere su questi problemi per vederci un po' più chiaro. Questa ricerca è stata condotta nel quadro del mio seminario alla Scuola per gli Alti Studi in Scienze Sociali. E' stata fatta con la collaborazione attiva dei Sordi, gli uni deliberatamente gestuali, gli altri oralisti (sordi, diventati sordi e sordastri) (3). Voglio tentare di farvi partecipi dello stato attuale della mia riflessione su questo argomento. Infatti insisto sul carattere provvisorio di ciò che propongo. Non si tratta, come al solito, che di proposte. E' un primo tentativo. Ma prima di affrontare l'identità sorda, mi serve parlare dell'identità tout court. Chi è ciascuno di noi? Amo sempre partire dal concreto e da ciò che penso di conoscere meglio. Partirò dunque da me. Fate anche voi così!

 

GLI ELEMENTI DELL'IDENTITA'

Se permettete, mi presento. Mi chiamo MOTTEZ. Il mio nome è Bernard. Mio padre era ingegnere. Sono dunque nato nel 1930. Sono francese. Ho gli occhi blu, la sommità del capo completamente calva, il naso un po' accentuato. Sono sposato e mia madre è straniera. Sono padre di una ragazza e di un ragazzo attualmente maggiorenni. Sono sociologo. Sono Direttore di Ricerca al CNRS. Mi interesso della sordità, e ne ho fatto, in questi ultimi anni, l'oggetto essenziale delle mie attività di ricercatore. Ecco un certo numero di tratti, di caratteristiche, di attributi -chiamateli come volete- che sono elementi della mia identità. Si tratta per ciascuno di loro di tratti comuni. Li condivido con una quantità di altre persone. Sono tentato di dire: è il tutto che è unico. Tutti questi tratti riuniti, e molti altri ancora, fanno che io sia quello che sono, cioè qualcuno diverso da un altro, qualcuno che non ha uguali.

Infatti, siamo molto numerosi ad essere nati nel 1930. Può darsi che ci siano anche altre persone qui che hanno la mia stessa età? Da tutti noi, nati nel 1930, ci si può attendere un certo numero di cose. Sappiamo tutti, per esempio, noi nati nel 1930, che il tempo che ci resta da vivere sarà comunque in tutti i modi meno lungo di quello che abbiamo già vissuto. Questo ci da nei confronti della vita un comportamento immediatamente e certamente diverso da quello che prevale fra i nati nel 1960. Pensando di aver tutto il tempo davanti a loro, questi ultimi si concedono addirittura il lusso di impedirsi anche di pensarci. Ma ci si possono attendere ancora molte altre cose da noi: un certo stato del corpo, una certa esperienza, un certa responsabilità, forse. E poi, facendo un rapido calcolo, voi potete scoprire a quale età noi abbiamo affrontato grandi avvenimenti che, come le guerre, segnano per sempre coloro che li hanno vissuti. Probabilmente voi potete sapere di cosa furono fatti i nostri anni di apprendimento e le esperienze cruciali della nostra vita. Voi sapete quali siano le prediche che, come ogni generazione, non possiamo trattenerci di fare ai nostri bambini. Ma tutti noi, nati nel 1930, siamo, siatene sicuri, molto diversi gli uni dagli altri. Non siamo tutti uguali. Ci sono uomini, ci sono donne. Alcuni vanno a testa alta, camminando a lunghi passi, altri no. Ce ne sono di tutte le razze, di tutte le nazioni, di tutte le religioni. C'è veramente di tutto.

 

2. ALCUNI TRATTI SONO SUFFICIENTI PER SAPERE CON CHI SI HA A CHE FARE.

Alcuni forse vorrebbero saperne di più su di me. Ciò che ho appena finito di dire, a mio parere il meno, è ampiamente sufficiente per fare ciò che stiamo facendo insieme. Ho addirittura detto di più di ciò che è necessario. Jacques Sangla, prima che io prendessi la parola, ha avuto l'accortezza di presentarmi. Ha lasciato stare, ricordatelo, la maggior parte delle informazioni che ho appena detto. Ha dato al contrario un certo numero di precisazioni sulla mia attività in relazione con la sordità. In ciò che ha detto, mi sono davvero riconosciuto. Nel contesto in cui siamo, le informazioni che ha dato sono sicuramente più utili, più preziose, più pertinenti che il colore dei miei occhi o della professione di mio padre per permettervi di capire CHI sono.

Ogni volta che noi siamo insieme ad altre persone, è infatti necessario sapere con chi abbiamo a che fare. Questo vale anche nei contesti più anodini e apparentemente meno strutturati, la strada, i mezzi pubblici, l'androne di una stazione o l'anticamera di un dentista. Ma ciò che dobbiamo sapere degli altri varia, naturalmente, secondo i casi. Spesso un semplice colpo d'occhio è sufficiente. L'occhio veramente ci dice rapidamente molto sugli altri, a volte più di ciò che le stesse persone vorrebbero dirci, a volte più di ciò che le stesse persone sappiano. E' in ogni caso l'occhio, e solo lui, che istantaneamente ci permette di scegliere nei luoghi pubblici a fianco o di fronte a chi ci siederemo o che al contrario eviteremo. Davanti a chi noi ci scosteremo per lasciare il passaggio od il posto; oppure il contrario. A chi domanderemo l'ora, chiederemo la strada o tenteremo di scambiare qualche parola amichevole; da chi, al contrario, fuggiremo le "avances". E' ugualmente un semplice colpo d'occhio che ci permette di constatare che abbiamo a che fare con la persone abilitata a chiederci il nostro biglietto di trasporto oppure a verificare giustamente la nostra identità.

Il semplice colpo d'occhio non è sempre sufficiente per chiarire le nostre decisioni. Quando si tratta di impegnarsi in relazioni più durevoli o più piene di conseguenze, occorre saperne di più. Di un tale, per esempio, non è sempre sufficiente sapere che è un medico, ma anche quali sono i suoi titoli, se è un buon medico e come si comporta con i suoi clienti. Nondimeno, anche quando occorre saperne di più sugli altri, non è mai necessario - Dio sia lodato - sapere tutto.

Non ho menzionato i miei gusti, ciò che non mi piace ed i miei eventuali impegni in materia religiosa, politica o sessuale. Anche questo tuttavia fa parte della mia identità. Questo può essere molto importante nell'immagine che io ho di me stesso e che molti hanno di me. Per queste omissioni, sono possibili molte ragioni. E' possibile che i miei impegni, troppo diversi dai vostri o da alcuni fra voi, rischino di scioccarvi. Sono sicuro che se così fosse, ciò avrebbe conseguenze sul modo in cui riceverete le cose che sto per dire. Posso quindi scegliere, per questa ragione di non parlarne o, controllandone l'effetto, di differirle nel tempo. Semplicemente, posso stimare che si tratti di aspetti di me stesso che non riguardano gli altri. Non li racconto che ad alcuni, e non è questo il luogo. E', come si dice, una cosa personale, privata. E' ovvio che ciò che è personale o privato varia secondo i contesti, e che indica, in ogni contesto, ciò che si ha il diritto di mantenere segreto. Prima di cominciare, ho chiesto chi fra voi era sordo, parente di sordi od operatore professionale nel campo della sordità. Questo importava per quello che stavo per dirvi. Volevo sapere a CHI stavo parlando. Supponete, adesso, che vi chieda la vostra rendita annuale, i vostri diplomi, se credete o no in Dio, chi fra voi è omosessuale, chi ha il cancro o è già stato in prigione. Suppongo che, invece di protestare violentemente, vi riserverete almeno il diritto di mentire o di non rispondere. Questo contesto ed il posto che occupo mi proibiscono semplicemente di porvi tali domande. In questo contesto, tutto questo appartiene a ciò che riguarda la vostra vita privata. Per ciò che dobbiamo fare insieme, io so molto bene CHI siete e voi sapete CHI sono.

 

3. TIPOLOGIA DEGLI ELEMENTI DELL'IDENTITA'

Alcuni avranno già notato il carattere molto eterogeneo degli elementi della mia identità. Per darne un senso, mettere ordine, stabilire una qualche finalità nella lista a priori interminabile, sempre aperta, degli elementi così vari che contribuiscono a definire l'identità, si possono proporre dei principi classificatori.

Si può, per esempio, come abbiamo visto, opporre i tratti che riguardano la sfera privata - su cui il meno che si possa dire è che abbia qualcosa a che vedere con l'identità - ed i tratti che riguardano la sfera pubblica. Ciò che riguarda la sfera pubblica e la sfera privata, ed il carattere più o meno preciso del confine fra le due, varia secondo le società e secondo i contesti sociali. Può non esserci spazio per la sfera privata: è la definizione stessa delle società e delle istituzioni totalitarie.

Altra distinzione classica: si può opporre ciò che è puramente e semplicemente fisico, naturale, come il sesso, il colore degli occhi e della pelle, le particolarità anatomiche, le eventuali patologie ecc...., a ciò che, dall'inizio, riguarda il sociale, il culturale, come la nazionalità, la religione che si pratica, la lingua con la quale ci si esprime od il mestiere che si esercita.

Ecco un'altra distinzione spesso usata in sociologia. Ci sono elementi che ho ereditato, che mi sono stati dati, che non ho scelto. Non ho scelto di nascere nel 1930. Non ho scelto il mio sesso. Nessuno tra noi ha scelto la data ed il luogo di nascita, l'ambiente in cui è nato o la sua razza. Ho scelto invece di diventare sociologo. E per diventare Direttore di ricerca al CNRS, è stato necessario che mi impegnassi. Siamo soprattutto per tutte le cose che non abbiamo scelto di essere - ciò che ci è stato dato di essere - oppure siamo soprattutto per quello che abbiamo scelto di essere, per quello che, oltre l 'alea, ci siamo costruiti? Questo difficile e vecchio dibattito filosofico, al centro del problema dell'identità, non è ancora vicino alla soluzione. Un modo fruttuoso di affrontarlo può essere quello di fermarsi agli elementi d'identità che, a differenza del sesso o della razza, possono essere per alcuni un dato e per altri il risultato di una scelta. Un parente mi stuzzica a volte, sostenendo che è più francese di me. Egli è naturalizzato. Egli ha scelto di diventare francese. Io, invece, mi trovo ad esserlo come un animale, se posso dirlo, per il solo fatto che sono nato in Francia e che i miei genitori erano francesi. Quale è il più francese dei due? E' difficile deciderlo. Ma è certo che esistono due modi diversi di esserlo. Per molti elementi dell'identità, il fatto che siano stati scelti appare, infatti, come un garante a priori di qualità e di autenticità. Per esempio l'appartenenza religiosa. Aderire ad un credo, ad una Chiesa o ad una setta quando non si era mai stati religiosi oppure si apparteneva ad un'altra parrocchia - cioè convertirsi - lascia auspicare a priori implicazioni e fervore che non sono necessariamente presenti fra coloro che praticano la religione dei loro padri. Ma dopotutto, e gli esempi abbondano, non ci sono soltanto fra questi ultimi dei ritualisti, dei tiepidi e degli indifferenti.

 

4. DESTINO

Vorrei adesso soffermarmi ad un particolare tipo di elemento dell'identità. Esso ha come prima caratteristica il fatto di essere dato, di non essere stato scelto, di non essere stato acquisito. D'altra parte, semplice elemento fra gli altri, (o più esattamente essendo o non potendo essere per l'interessato che un semplice elemento fra gli altri, un dettaglio periferico dato che non entra come un elemento significativo nell'immagine che egli stesso si fa di se stesso), esso ha tuttavia agli occhi degli altri la stupefacente caratteristica di ESSERE o di SEMBRARE PARTICOLARMENTE RICCO DI INFORMAZIONI. Una volta conosciuto questo tratto, si ha l'impressione di saper molto sulla persona. Si ha veramente l'impressione di sapere veramente chi sia. Gli altri elementi della sua identità, così utili in altre circostanze, sembrano non essere qui che banali e semplici supplementi d'informazione; o perlomeno sembrano assumere un altro senso a causa di questo elemento particolare. Conseguenza di ciò, oppure altro modo di dire e vedere la stessa cosa: si ha l'impressione che tutti coloro che hanno questo tratto si somiglino. Mentre "noi altri", "tutti noi", siamo così diversi gli uni dagli altri, così unici, questi "altri", a causa di questo tratto che li rende differenti da noi, non sono così differenti fra loro di quanto non lo siamo fra noi. Essi possono essere trattati come una categoria. Conoscerne uno, è conoscere un po' tutti gli altri. Nel quadro della nostra società francese esagonale, per rimanere su argomenti francesi, possiamo dare come possibili esempi di tali elementi d'identità, il fatto di essere ebreo, zingaro, nero, omosessuale o trisomico (mongoloide). Noi ci mettiamo naturalmente dal punto di vista di chi non è né ebreo, né nero, né trisomico, né omosessuale. Esserlo, basta di certo, e all'incirca, ad invertire le cose (4). Salvo contesti particolarmente specifici - contesti quale è giustamente il caso dei trisomici - sapere di qualcuno che non lo è, è come non sapere nulla di lui. Per cominciare a saperne qualcosa, occorrono altre informazioni. Al contrario sapere di qualcuno che è trisomico, è un'informazione. E' sapere qualcosa di lui. Qualcosa che sembrerebbe permetterci di situarlo immediatamente, se oso dire, in assoluto. A prima vista ciò ci fa credere di sapere l'essenziale. E' sufficiente immaginare, infatti, che qualcuno nasconda gli elementi d'identità di una persona trisomica, riservandoli alla fine o per la conversazione che seguirà. Si avrà l'impressione di essere stati in qualche modo raggirati, oppure che è stato un bravo commediante. Questo annuncio ha, in effetti, come risultato l' obbligarvi a rivedere nel suo complesso l'immagine che vi siete fatti della persona, come se fosse stato logico che si dovesse cominciare da quella cosa.

Ho precisato che questi tratti sono o SEMBRANO particolarmente ricchi di informazioni. Ciò significa che non è affatto necessario saper tutto o sapere molto su ciò che può voler dire essere zingaro, nero oppure omosessuale. Basta che si sappia che, a causa di una specifica esperienza, quelle PERSONE saranno sotto molti aspetti diverse da noi: nel loro modo di sentire e di vedere il mondo, di organizzare la loro vita, di concepire i loro rapporti con i loro simili e con chi non fa parte dei loro. Essi avranno i loro propri codici, taciti o espliciti, dei segreti in ogni caso che non condivideranno con tutti. MENO SI SA SU DI LORO E PIU' SI HA GIUSTAMENTE QUALCHE MOTIVO PER ASPETTARSI DI TUTTO.

Questi elementi d'identità, sono tentato di chiamarli "destino". Dopotutto è proprio di questo che si tratta. Per coloro che rientrano in queste categorie il problema è: come fare con ciò che non si ha veramente scelto d'essere, ma che si è e che, nella società in cui ci si trova a vivere, vi mette (per ragioni legate all'immagine che la società nella quale si vive fabbrica da sola) in una situazione determinata, sotto alta sorveglianza, perché precisamente ai limiti (e non oltre i limiti). Il destino, è sempre una storia. C'è il momento della sua scoperta. E, avendola scoperta, e non smettendo più, da allora, di riscoprirla ancora, esiste ciò che si è fatto di lei. Si può ignorare il proprio destino. Si può ignorarlo a lungo. Si può volerlo ignorare. E' molto raro che non si ricordi un giorno di noi. Sono sempre gli altri che si incaricano di insegnarvelo o di ricordarvelo. Occorre allora viverlo.

Si può ignorare di essere ebreo. Ciò non è necessariamente scritto nel corpo o nel patronimico (cognome). Si può impararlo molto tardi. Il segreto di famiglia vi sarà stato fino a quel momento ben nascosto (5). Si può anche scoprirlo essendo stati fino a quel momento antisemiti. Cosa succede allora e non può continuare tutto come prima? Ma prima di tutto, si può ragionevolmente dire a qualcuno che è ebreo se ignora egli stesso di esserlo? A dispetto di essere religioso, essere ebreo non è appartenere ad una tradizione, inscriversi nella tradizione e qualsiasi cosa si abbia deciso di farne, conoscerla? Disgraziatamente l'antisemitismo non fa distinzioni. Trancia. E a suo modo. Ritrovarsi, a causa dei propri ascendenti, assegnati d'ufficio e senza appello ad una condizione sulla quale pesano periodicamente le peggiori minacce, vedersi imputare d'ufficio tutti i peccati del mondo, ecco cosa impedisce di non potersi sbarazzare del problema rovesciando la mano. Che si abbia messo tanta cura a nascondervi la cosa indica sufficientemente tutta la serietà del problema: essere ebreo o cristiano nella società in cui siete, non è la stessa cosa. Non è una semplice differenza. Si può discutere senza fine sul fatto del sapere a partire da quando si è ebreo. Rimane che questo modo minimo (o già totale?) di esserlo - essendolo vostra madre e voi scoprendo che lo è - può essere il punto di partenza per cominciare alla fine a diventare ciò che, per semplice eredità, vi è stato dato di essere. In qualunque modo si scelga allora di diventare ebreo, cioè ciò che si è, non è agli occhi di quelli che non lo sono che si può cominciare questo apprendimento.

Essere nero, ecco che cambia. Questo si vede. E tuttavia! A partire dalla metà degli anni '60, le adozioni di bambini neri da parte di coppie di bianchi sono diventate correnti. Ora (in Paesi quali il Canada o l'Inghilterra in cui alcuni lavori sono stati fatti su questo punto), si è visto che questi bambini hanno tendenza a rifiutare il colore della loro pelle. "Non soltanto negano la realtà del colore della loro pelle, ma rigettano le persone di colore di razza identica" (6). Indipendentemente dalle forme, a dire il vero molto strane, che prende questo modo di considerarsi come bianco, mentre si è nero, ci si può dire: "E dopotutto, perché no? Non è un loro diritto?". Disgraziatamente, le nostre società occidentali bianche hanno, a primo sguardo, nei confronti dei neri dei comportamenti discriminatori, oppressivi. Ora, in qualsiasi modo un nero si consideri nel profondo di se stesso, per un bianco, senza dubbio, egli è davvero nero.

Per far fronte al razzismo, scrive John W. Small, dal quale prendo l'essenziale della mia informazione, la famiglia nera deve sviluppare meccanismi appropriati "che permettono al gruppo di mantenere un certo grado di dignità e di rispetto di sè, che permettono alla famiglia di sopravvivere psicologicamente. Inoltre, il meccanismo di sopravvivenza della famiglia nera deve essere allargato alla comunità nera in generale, fornendo così delle tecniche di sopravvivenza per ciò che riguarda le relazioni economiche educative, professionali e interpersonali che permettono alla famiglia nera di sopravvivere." "Questa esperienza è esterna a quella della società bianca, di conseguenza la maggior parte delle famiglie bianche sono mal attrezzate per fornire un quadro che prepara il bambino nero all'immenso impegno che dovrà affrontare. Sono queste tecniche di sopravvivenza che forniscono il quadro culturale e psicologico in cui il bambino nero trae l'energia ed il sostegno." John W. Small racconta la crisi d'identità spesso grave che affrontano, in generale al momento dell'adolescenza, questi giovani rispettivamente rigettati dalla società bianca e incapaci di entrare in relazione con i neri. J.W. Small sottolinea che questa crisi sarebbe più frequente o più grave in coloro ai quali i genitori adottivi, negando la realtà, dicano loro che essere bianco o nero sia la stessa cosa, che si tratti soltanto di una differenza, "che è bene essere diversi, che sarebbe noioso se tutto il mondo fosse uguale". Disgraziatamente, essere nero o bianco in una società bianca razzista, non è una semplice differenza.

Prima ho messo in opposizione gli elementi dell'identità che abbiamo ereditato, che ci sono stati dati, a quelli che abbiamo scelto, che sono stati acquisiti. Questi due esempi ci invitano a pensare che ciò che abbiamo ereditato ha a volte bisogno di essere confermato. Per inscriversi nell'idea che noi ci facciamo di noi stessi, hanno bisogno anche loro di essere scelti. Forse questo è il caso di tutto ciò che ci è stato dato di essere. Ma le cose vanno ordinariamente in modo così naturale che non abbiamo coscienza d'aver avuto bisogno di accogliere e di appropriarsi di ciò che siamo. Invece, la lotteria della vita ci può aver assegnato senza appello dei luoghi difficili da abitare: coloro che li occupano ispirano alla moltitudine prima di tutto disprezzo, pietà, invidia, paura, angoscia o disgusto. La possibilità di occupare in modo confortevole e pubblico questi luoghi, la possibilità di occuparli con dignità o la stessa possibilità di occuparli semplicemente, diviene allora una sfida che, per essere raccolta, chiede più di uno sforzo di immaginazione personale. Essa esige - per fortuna è ciò che avviene più sovente - il concorso dell'esperienza accumulata da coloro che già li abitano, cioè della comunità di coloro con cui si condivide o con cui si condividerà la cultura. Mi avete già preceduto, nelle vostre teste. Noi disponiamo adesso di tutti gli elementi per affrontare il problema dell'identità sorda.

 

5. ESSERE SORDI. CHI LO CONOSCE?

Ricordatevi le abitudini, sono passati pochi anni. E' esclusivamente a qualche operatore udente, in preferenza un medico, che era allora dato l'incarico di informare sulla sordità: dall'informazione ai genitori dei bambini sordi all'indomani della diagnosi fino all'informazione generale su ogni argomento verso il grande pubblico. Ricordatevi anche le difficoltà di imporre un interprete in molte di queste riunioni pubbliche d'informazione. Un interprete, è vero, poteva con la sua semplice presenza sembrare una provocazione. Evidentemente era il caso in cui, ogni volta, in tali riunioni si faceva il processo ai gesti, discutendone i mezzi migliori per venirne a capo, mettendo in guardia i genitori e tutti gli altri contro quelli che sarebbero potuti scappare; o meglio ancora quando, al contrario, guardandosi bene di parlarne, ci si comportava come se non esistessero nemmeno. E' vero, penso che la presenza delle persone sorde, proprio loro, più di tutto indisponesse gli organizzatori di queste riunioni. Misure potevano essere prese perché esse interferissero al minimo. Si è potuto anche vedere l'intervento autorizzato di un interprete negoziato in modo che i sordi si mantenessero tranquilli, che non ponessero domande, che non dessero la loro opinione, che non portassero la loro testimonianza, in breve, che non prendessero la parola. Non importa! Anche se venuti soltanto a vedere su cosa discutono e decidono gli udenti quando si occupano dei loro problemi, i Sordi, con la loro semplice presenza, si trasformavano in guastatori, impedendo, come a volte è stato detto, che " si possa parlare ed esprimersi liberamente fra sè".

I tempi sono cambiati. Oggi è evidente che un Sordo può dire che cosa significa essere sordo. Ora è precisamente questa conoscenza che ricercano le persone in cerca di informazioni sulla sordità. I genitori, in primo luogo.

Ma che i sordi possano avere il monopolio dell'esperienza, della conoscenza e del dire cosa significa vivere da sordo, non significa che abbiano il monopolio del sapere sulla sordità. Amo ripetere: la sordità è un handicap necessariamente condiviso. Tutti gli udenti che hanno a che fare con i sordi ne hanno da dire. Dopotutto non è così che lo scrittore David Wright, diventato sordo in età infantile, comincia il suo libro SORDITA' (7) ?: "Sulla sordità -egli dice- conosco allo stesso tempo tutto e niente. Tutto, se quaranta anni di esperienza di prima mano possono contare. Niente, se capisco il poco con cui ho a che vedere con l'aspetto complementare della sordità - l'altra metà del dialogo." Perciò, dice in sostanza, vedete mia moglie e tutti quelli che per scelta professionale o per necessità sono portati a frequentare i sordi. Perché, egli precisa, e ascoltatelo bene "è colui che non è sordo che assorbe una gran parte dell'impatto di questo handicap. I limiti che impone la sordità sono spesso meno evidenti alle sue vittime che a quelli con i quali hanno a che fare".

L'udente potrebbe dunque saperne di più - oggettivamente di più - sulla sordità che il sordo, essendo quest'ultimo non del tutto cosciente di quello che gli sfugge?

Riflessione da meditare e che Wright presenta successivamente con un esempio di malinteso comico dovuto a sosia labiali e con un aneddoto la cui banalità non ha eguali per la ricchezza di commenti che se ne può fare e delle lezioni che se ne possono trarre. Una signora sorda riceveva, in compagnia di altre signore, molto sofisticate come lei, un poeta in piena ascesa. Questo, dopo un lungo silenzio, e volontà di spezzare la conversazione, si lancia in considerazioni assai superficiali sul tempo che fa. "Che bella giornata!" dice in sostanza. La signora sorda, sul chi vive, gli occhi fissi alle labbra di un poeta da cui non potrebbero uscire che affermazioni rare e preziose, lo prega di ripetere. Egli ripropone la frase molte volte, con poca voglia, troppo cosciente del fatto che essendo ripetuta una tale osservazione, perdendo del suo proposito, perde ogni volta di più il suo senso. La signora che continua a non capire, insiste. Il poeta finisce per gridarle la preziosa frase proiettandosi sul suo cornetto acustico.

Ecco una classica storia veramente buffa, non è vero?, e che vorrei commentare a mio modo. La persona più a disagio in questa situazione, quella che ne esce anche ridicolizzata, non è certamente, mi sembra, la signora sorda ma il poeta. Sebbene non si tratti di una gaffe, il meccanismo è un po' lo stesso. In materia di gaffe, non è quello che la compie ad essere turbato - la gaffe gli scappa, è la definizione stessa di gaffe - ma il pubblico e colui che eventualmente ne è colpito. Ecco delle riflessioni molto riconfortanti, penso, che si dovrebbero dare ai genitori, una volta superato lo stupore della diagnosi. Un sordo dopotutto è spesso un esecutore di gaffe in questo senso (8).

Più proseguo, più sono di fatto colpito dal divorzio fra il modo con il quale, a seconda se si è sordi o meno, noi viviamo l'esperienza della sordità; sul divorzio fra l'immagine che abbiamo del modo in cui l'altro vive questa esperienza ed il modo in cui la vive effettivamente; il divorzio tra il modo in cui giudichiamo che l'altro dovrebbe viverla e gestirla ed il modo in cui, trovandosi a viverla, egli ha scelto nel complesso di gestirla. E' per questo che è così importante comunicare. Genitori, e soprattutto giovani genitori, voi sarete senza dubbio colpiti ascoltando le testimonianza dei Sordi, tanto da capire fino a che punto, viste dall'interno, le cose siano naturali, semplici, normali. Inversamente, voi sordi, ricevendo la testimonianza dei genitori, comprenderete un po' di più le vostre situazioni e perché, non comprendendovi, essi si preoccupavano a tal punto per voi ed al vostro posto di ciò che, non arrabbiatevi, non possono percepire.

 

6. PRESA DI COSCIENZA DELLA SORDITA'

Ogni volta che voi, Sordi, ci parlate della vostra esperienza, ciò che mi colpisce prima di tutto, è l'età relativamente avanzata, trovo, in cui avete capito che voi eravate sordi. Raramente prima di dieci o undici anni. E ancora, non si tratta che dell'inizio di una presa di coscienza che si farà per tappe. Ciò stupirà sempre noi udenti. Voi non smettete di dire, per voi generalmente in lamento, che la sordità è un handicap invisibile. Ma ciò non vale che in certi contesti: in ambienti nuovi e/o quando voi avete deciso di non manifestarvi. La sordità, credetelo, lo sapete anche voi, si nota. In una famiglia, comunque, la presenza di un bambino sordo -il vostro caso- provoca tali perturbazioni che sono all'ordine del giorno tanto che questo fatto non passa inosservato. Così, mentre il vostro circondario sapeva che voi eravate sordi e agiva con voi o in vostra presenza come ci si comporta con i sordi, voi, i primi coinvolti, ignoravate di esserlo?

Il secondo punto che vorrei sottolineare, è che questa presa di coscienza, in un primo tempo minore, non porta assolutamente ad un'esperienza di tipo fisico. Essa non si basa sul fatto di non udire o di mal udire, cioè su quello che per noi udenti, è la manifestazione più chiara, più concreta, più palpabile della sordità, la sua definizione stessa. No. Ciò riguarda l'esperienza di entrata del gioco sociologico, se posso dire. Essa è la risposta finalmente trovata ad una serie di domande fino ad ora poste e riguardanti le ragioni per cui il vostro circondario vi tratta sempre diversamente dagli altri (superprotezione, non vi dicono tutto, vi prendono in giro...). Sono sempre stato colpito dalla formula "non è della nostra sordità che soffriamo, ma del modo in cui gli altri ci trattano a causa della nostra sordità". Ne ho sempre trovato un sapore militante. Ma prima di essere una formula a vocazione militante, da intendere come "smettetela di volerci guarire, accettateci come siamo, la sordità fa parte della nostra identità, noi non vogliamo la vostra pietà rincuorante e mortifera, il nostro problema siete voi, ecc...", essa è semplicemente (a differenza di ciò che succede per il diventato sordo) l'espressione diretta, l'esatta traduzione letterale della prima esperienza della sordità fra i sordi di nascita.

Un'educazione molto oralista, questo è il suo fine, ritarda, inibisce la presa di coscienza della sordità. La stampa militante silenziosa ama pubblicare a volte la testimonianza di sordi cresciuti in uno stretto oralismo e che hanno conosciuto tardivamente, con la scoperta della Lingua dei Segni, il loro cammino per Damasco. Essi rimproverano in modo assai amaro ai loro educatori di aver impedito loro di diventare ciò che erano e di aver fatto di loro dei FALSI UDENTI. (9) La descrizione e l'analisi che ho trovato più spinte del modo in cui possono accadere queste cose - come, essendo sordo, si può non voler sapere nulla, o capirci nulla, ed il prezzo che occorre pagare per questa ignoranza - è la testimonianza di Paddy Ladd, tradotta nel primo numero di Studi e Ricerche (10). Paddy Ladd, oggi una delle figure del movimento favorevole alla Lingua dei Segni in Gran Bretagna non è, a dire il vero, che un sordastro. Gli specialisti avendolo diagnosticato a 3 anni hanno detto ai suoi genitori: "Vostro figlio non è veramente sordo. E' normale, ma non sente molto bene. Per diventare del tutto normale, occorre che si serva bene della sua protesi se no sarà perduto per sempre al mondo udente." Questo gli valse sicuramente l'essere esibito ad altri genitori - che avevano alcune volte un bambino completamente sordo - per mostrare a quale punto si possa arrivare quando lo si voglia veramente e ci si metta di impegno. Egli fece tutti i suoi studi con gli udenti. Perché udiva! Egli racconta le sue difficoltà crescenti con gli anni, per seguire, per capire, nelle sue relazioni con gli altri. Egli racconta le sue furbizie e le sue strategie per conservare la faccia. Mostra soprattutto l'immagine sempre più negativa, e più insopportabile che egli aveva di se stesso. Poiché sente, è a lui solo che bisogna attribuire i suoi fallimenti. E tutti i modi di essere che si costruisce per mascherare la sua sordità gli sembrano essere la sua natura più profonda. Incapacità, ottusità, introversione, bizzarrie, si sente anormale. Poi, avendo imparato la Lingua dei Segni per diventare operatore sociale fra i Sordi, egli racconta che un giorno, durante una relazione, girando gli occhi dalla bocca del conferenziere verso l'interprete in LS, si accorge che può seguire meglio. Non osa all'inizio avvicinarsi agli altri Sordi: "si penserà che io sia sordo!". Ma sono sordo! Allora perché preoccuparsene? E' VERO... IO SONO SORDO! E cosa mi succederà adesso? Alla fine qualcosa di positivo... Questo significa che posso seguire questa riunione. La prima della mia vita!... E' dunque questo che vuol dire essere sordo: avere una lingua che permette di comunicare facilmente e in modo agevole. Come gli altri che parlano ed ascoltano a proprio agio, io posso segnare, guardare ed essere a mio agio. E posso imparare molto più facilmente. Mio padre mi suggeriva sempre di rilassarmi. Ora che l'ho fatto, so cosa ciò significa e so perché non ci sono mai arrivato prima. Sì, è proprio così, io sono sordo, sono normale, ma sono anche sordo. I sordi sono normali. Hanno soltanto una loro lingua, come ogni gruppo di persone". E per quelli interessati al seguito della storia, lo cito di nuovo:"A partire da quel momento, la mia sicurezza è cresciuta, e in questi cinque anni sono davvero "sbocciato" come persona, e ho fatto cose che non avrei mai immaginato prima. Mi ero sempre considerato come un introverso. Ho capito allora che ero veramente un estroverso represso perché la mia falsa identità che mi è stata imposta non mi aiutava affatto. Ciò non significa che voi smettiate di parlare agli udenti, perché una volta che avete accettato la vostra identità, potete accettare il fatto che non potete sperare di aver tutto, e adattate il vostro comportamento di conseguenza." Così, si può essere coscienti, certo, ad un preciso livello, di avere problemi uditivi. Ma sempre occupati a mascherarli agli occhi degli altri (cosa di più personale, di più privato, di più intimo che i problemi uditivi), si giunge fino al punto di mascherarli a se stessi. Per dovere, o per una certa bravata che in questo caso non è che un'altra forma di dovere, si cerca di non farci molto caso, di non prestare attenzione. E poi, fra avere dei problemi uditivi ed "essere sordo" o "essere un sordo" non c'è un passo? Con la Lingua dei Segni il sordo che ne è stato fino ad allora allontanato scopre e vive ciò che l'udente vive nella sua quotidianità. E' scoprendo il rimedio, o piuttosto il modo di impiego (questo modo di impiego percepito dagli educatori oralisti come l'essenza stessa del male) che egli prende tutta la misura del male, (questo male non è la sordità ma tutto ciò da cui è stato privato a causa di una certa politica nei suoi confronti). Essendo percepita nella sua materialità, la sordità può essere pienamente accolta. La sordità con il suo modo di impiego, ovviamente, implica che non sia più un affare privato, intimo, nascosto, ma una cosa pubblica, comune, condivisa, visibile, riconosciuta, banale (11).

 

7. LA CULTURA SORDA COME SOLUZIONE RADICALE AL PROBLEMA DELLA SORDITA'

Che voi siate sordo-parlanti o no, è la stessa cosa: voi trascorrete la maggior parte del tempo con gli udenti. E' prima di tutto il tempo e lo spazio della vostra vita familiare: a parte il quadro ristretto di una coppia senza figli, è raro che tutti siano sordi in famiglia; e che lo siano per diverse generazioni. Per la quasi totalità di voi, è anche il tempo delle vostre lunghe giornate di lavoro. Ma ci sono occasioni, dei contesti e dei luoghi privilegiati in cui vi ritrovate e siete fra voi. Fra loro: gli istituti specializzati, culle della cultura sorda, i circoli o gli altri luoghi informali di incontro che organizzano le manifestazioni sportive, le feste sorde, i banchetti, le visite reciproche... Cosa succede in questi luoghi, indipendentemente dai legami affettivi che si annodano e si snodano? Due cose a prima vista contraddittorie e tuttavia intimamente legate:

1) E' là, da una parte, che si impara a diventare un Sordo. Chi non li abbia frequentati ignora le solidarietà e tutti i preziosi piccoli saper-fare che permettono di condurre la propria barca con dignità ed efficacia nel mondo udente. Con dignità ed efficacia, perché le due cose vanno insieme, è almeno questa lezione: mimare l'udente e mettersi sulla sua lunghezza d'onda, è uscire sempre perdente. L'arte di comportarsi con gli udenti, quale si impara fra i Sordi, è una delle forme più sottili di arti marziali. Molto di più di una semplice tecnica di sopravvivenza. Chi non frequenta questi luoghi, ignora soprattutto ciò che è al cuore della cultura sorda, la Lingua dei Segni, modo così singolare di conoscere il mondo e di strutturare i propri rapporti con gli altri. Niente di tutto questo può essere imparato da solo, lontano dai suoi, presso gli udenti. Questo, gli educatori oralisti lo sanno. E' per questo che dispiegano tante energie per distruggere tutti questi luoghi (che errore di potere è imporre la loro legge, essi danno dignità ai ghetti) o, in alternativa, tenerne lontani i giovani audiolesi che hanno in carico. Occorre evitare che il giovane sordo incontri altri sordi nella paura che, formando società fra loro, siano perduti al mondo udente e che, lasciandosi andare alla legge del minimo sforzo, adottino comportamenti di sordi e non comunichino più che con i gesti. Questa concezione della sordità come contagiosa è di coloro che sono tuttavia i meno pronti a riconoscerla come il più bell' omaggio reso all'esistenza della cultura sorda.

2) Ma allo stesso tempo - ed è su questo che voglio insistere- questi luoghi sono quelli in cui, per eccellenza, la sordità può essere dimenticata in modo assoluto, dove è annullata, dove non c'è più e non può più essere un principio di discriminazione fra le persone. Ciò può sembrare un truismo: a partire dal momento in cui tutti hanno la stessa caratteristica, questa non ha più molta importanza e non saprebbe giocare un ruolo discriminatorio. E' sufficiente considerare una riunione di sordi parlanti per capire che non è vero. La prima cosa che si nota, allora, e con particolare rilievo, è giustamente che, se tutti sono di certo sordi, tutti non lo sono ugualmente. Ce ne sono di più o meno sordi. Ogni sordo può sempre trovare un sordo più o meno sordo di lui. Non ci sono solamente dei più o meno sordi, , ci sono sordi protesizzati, e protesizzati con profitto, e altri no. E ci sono sordi che hanno udito e parlato prima di diventare sordi e che padroneggiano meglio per questo fatto la lingua parlata. Queste differenze, grandi o piccole, e moltiplicabili all'infinito, sono quelle per cui il ricorso alla parola ha per caratteristica di far risorgere, di sottolineare il problema. Il sordo parlante conosce e deve obbligatoriamente conoscere il grado di sordità dei suoi amici. Gli viene costantemente riconfermato. Ed ogni nuova relazione comincia con l'esplorazione reciproca del grado di sordità, esplorazione che può richiedere molto tempo: è o meno utile chiamarlo con la voce, lo si può chiamare di schiena? ecc...

Tutte queste differenze non sono semplici differenze che il ricorso alla parola renderebbe soltanto più apparenti, esse sono anche elementi che contribuiscono a formare una gerarchia, una gerarchia nella quale ci si situa con la forza, e una gerarchia che gioca necessariamente in favore - vedi in onore, e vedremo come - del meno sordo e di colui che ha già udito (diventato sordo). Dodici anni fa, in un testo presentato da un'organizzazione mista di sordi e di udenti, si menzionava qualcuno degli insostituibili apporti dell'udente nelle discussioni. Quello, è chiaro, di poter prendere appunti. Ma anche, si aggiungeva nello slancio: "egli può vedere se tutti partecipano e, nello stesso tempo, ascoltare ciò che si dice, e far seguire quelli che faticano (gli audiolesi possono difficilmente ricoprire questo ruolo)" (12). Curioso giudizio di un relatore che ragiona evidentemente come se potessero esserci discussioni e conversazioni soltanto orali. La superiorità che automaticamente l'orale conferisce, strutturalmente all'udente, e che gli offre allo stesso tempo l'esclusiva della presidenza, viene conferita ai meno sordi sui più sordi.

Aggiungerò ancora una cosa (13). L'udente può a volte disprezzare il sordo perché non comprende bene o parla male. E' raro che si inorgoglisca di ben parlare e di udire, ciò va da sè. Ciò è diverso per il sordo per il quale parlare, e a maggior ragione il ben parlare, è il risultato di un lungo lavoro, una conquista in qualche modo, e di cui ha, non è vero?, qualche ragione di esserne fiero. D'altronde i suoi maestri, nel passato, lo hanno tanto complimentato. Può ancora prendersi il piacere di esibire il suo talento. Soprattutto fra gli altri sordi. Dopotutto non sono i più adatti a misurare l'exploit? Esibizionista o discreto, questo eventuale orgoglio messo, parlando, per voler sembrare udente - imponendo allo stesso tempo il gioco degli udenti, le loro regole ed i loro valori - è più di quanto possano sopportare numerosi sordi gestuali. Poco importa che questi ultimi siano audiologicamente più o meno sordi rispetto a questo sordo oralista che infrange la regola dell'ambiente. Poco importa che abbiano a lungo sofferto l'umiliazione di non parlare (bene), che ne abbiano fatto il loro risentimento, o che non abbiano nemmeno dovuto farlo, avendo piazzato all'inizio del gioco le loro biglie altrove. Poco importa che siano, al contrario, eventualmente capaci di parlare altrettanto bene di questo sordo oralista. I sordi parlanti che si sono arrischiati un giorno - gli uni per non più tornare, altri per cominciare il loro apprendimento - in alcuni focolari (o circoli) od in altri luoghi della cultura sorda, hanno tutti qualche ricordo cocente da raccontare del modo poco simpatico con il quale sono stati ricondotti all'ordine. Il ritrovarsi così rimproverati nel momento stesso in cui essi andavano dietro ai gestuali, è spesso accolto come una forma di intolleranza: "Vado con loro rispettandoli nei loro gesti, che mi rispettino nella mia parola". Si tratta di un caso di dignità. Si può tradurre in questo modo: esiste fra i Sordi un modo naturale di comunicare che è loro proprio, un metodo agevole ma disprezzato dagli udenti, e che non introduce discriminazioni tra gli uni e gli altri. Essendo sordo, non far ricorso con gli altri sordi che alla parola, è dar prova di disprezzo nei confronti dei Sordi, ed è rintrodurre i canoni udenti e le loro discriminazioni.

A differenza dei sordi parlanti, i Sordi gestuali non conoscono generalmente il grado di sordità dei loro amici o non gli danno importanza. Che se ne farebbero d'altronde? Il ricorso alla LSF (ed a tutti i modi di chiamare gli altri, di alternarsi nel dialogo, d'interrompere, ecc... che le sono legate) impedisce ogni referenza in merito al grado di sordità. Annulla la sordità. E' così che la divisione del mondo fra sordi e udenti non è della stessa naturale di quella tra sordi gestuali e fra sordi parlanti. Per questi ultimi, è un continuum che va dal sordo che non conosce il francese né sa parlare, fino all'udente. Questo continuum si fonda su criteri altrettanto audiologici (del dato) che ortofonici o educativi (dell'acquisizione). Questa confusione contribuisce a fare in modo che nel complesso il sordo parlante si stimi sempre superiore al Sordo che ricorre ai gesti: grado di sordità messo da parte, mancherà sempre a quest'ultimo un suo piccolo sforzo e/o non avrà avuto la fortuna di ricevere una "buona educazione". Per il sordo gestuale, la divisione del mondo tra sordi e udenti è culturale e netta. E' una dicotomia. Ci sono "Noi, i Sordi" (o più esattamente "Noi i sordomuti", nella misura in cui mi ostino a volte a tradurre letteralmente il segno con il quale vi designate voi stessi in LSF) e ci sono gli udenti (o più esattamente i "parlanti", perché è così, lo noto, che ci designate la maggior parte delle volte in LSF). Parlanti - non parlanti, è una distinzione molto chiara e più visibile che sordo-udente. E' ad ogni modo la vostra. Nondimeno quando pensate in gesti e non in parole. In questa divisione dicotomica del mondo, occorre situare i "sordastri" (quei mezzi-sordi che potrebbero essere audiologicamente totalmente sordi e non protesizzabili, si tratta soprattutto dei sordi parlanti). Problema! Questi sordastri sono di fatto impossibili da classificare: bizzarri, strani, ibridi. Alcuni Sordi confidano volentieri il disagio che procurano loro. Con i parlanti, dicono, è come con i Sordi, si sa cosa aspettarsi, si sa come comportarsi con loro. Con i mezzi-sordi, si è sempre in dubbio. Quando il sordastro giunge nel cerchio della conversazione, è ben presto il disagio: come comportarsi con lui, cosa ci si può attendere da lui? Né sordo(muti), né udenti(parlanti), ma non udendo, o peggio, essi farebbero meglio per logica, per l'ordine delle cose, il buon ordine del mondo, il loro confort e quello degli altri Sordi, a comportarsi come Sordi. Non si può essere in due luoghi contemporaneamente. Occorre scegliere. In questa visione dicotomica del mondo, il mezzo-sordo è fortemente percepito come "seduto su due sedie", modo di vedere che non è evidentemente e necessariamente condiviso dagli interessati per i quali non esistono "due sedie", ma un continuum.

 

UGUALI A SE STESSI INFINE LA CULTURA SORDA LI CAMBIA

Terminerò rinviandovi alla recente testimonianza di Bernard Le Maire sulla sua esperienza alla Gallaudet. Bernard Le Maire, di Liegi, è uno dei rari sordi francofoni ad esserci andato per compiere i suoi studi. E' partito emozionato, egli dice, perché andava a vivere con dei sordi, cosa che non aveva mai fatto. E andava a fare gesti sebbene non li conoscesse ed anche, egli confida, non li amasse. Dopo un anno di adattamento difficile - è sempre il caso dei sordi educati con l'oralismo, lo è a maggior ragione per un francofono- avviene l'esplosione. E' la scoperta del mondo, la scoperta di se stesso. Tutte le situazioni di apprendimento sono trasformate, egli dice, grazie alla comunicazione gratificante che procura il gesto unito alla parola: noi possiamo capire tutto, noi possiamo esprimere tutto. "Alla Gallaudet, dice, lo studente sordo scopre le sue vere possibilità ed i suoi veri limiti (le difficoltà di comunicazione velavano tutto ciò), i suoi gusti, le sue scelte; egli si sente in pieno possesso dei suoi mezzi: può fare parte di tutti i clubs che vuole (sportivi, teatrali, religiosi, scientifici, ecc...), partecipare a gruppi di discussione, difendervi le sue idee e accettarvi quelle degli altri, relativizzare le sue opinioni e criticarle, in breve, sviluppare la propria personalità e prendere coscienza della propria identità". Quando Bernard Le Maire parla d'identità, non credo che faccia la minima allusione ad una qualsiasi identità sorda; e di ciò non parla in nessun momento, egli parla della sua identità in ciò che ha di più personale. E' Bernard Le Maire che egli scopre e che trova, fra le altre cose, di essere sordo. Un lusso permesso soltanto là dove il sordo è pienamente riconosciuto nella sua singolarità di sordo.

NOTE

(0) Sostanziale riscrittura di un intervento fatto in seguito a giornate di studio organizzate dalla 2LPE Tolosa e allo Stage d'Estate 2LPE Nazionale, a Chambéry nel 1986. Ho conservato al testo il suo carattere orale, cioè di testo indirizzato. Grazie a tutti coloro che mi invieranno le loro critiche, note o testimonianze: Bernard Mottez, CEMS, 54, boulevard Raspail, 75006 Paris

(1) Sulla comunità dei Sordi e la cultura sorda, vedere il numero speciale di Santé Mentale (Salute Mentale) "L'oeil écoute", n. 85, Aprile 85, gli articoli di Christian Cuxac, "La fine di un mondo" pp. 29-32 e di Bernard Mottez "Aspetti della cultura sorda"; Harry Markowicz, "La comunità dei Sordi come minoranza linguistica", suppl. al n. 24 di Coup d'Oeil, Ottobre-Novembre 1980, 12 p. In Inglese, Paul C. Higgins, Outsiders in a Hearing World, A Sociology of Deafness, Academic Press, London, 1980. In attesa della prossima uscita del libro di Carol Padden e Tom Humphries sulla cultura sorda, si potrà leggere, di C. Padden "La comunità sorda e la Cultura delle persone sorde", in Charlotte Baker, Robin Battison (Ed. Sign Language and the Deaf Community, Washington, NAD, 1980, p. 89-103)

(2) Questa diversità di trattamento dopotutto non proviene forse che dalla differenza di statuto dei tre termini. Quando si parla di comunità dei Sordi, si designa una realtà oggettiva, o in tutti i casi oggettivabile e passibile, a questo titolo, di una descrizione di cui si potrà apprezzare la pertinenza: è giusta o no? E' la stessa cosa, variando qualche dettaglio, per ciò che si è convenuto chiamare la cultura sorda. Con l'identità, noi siamo in un altro registro. Molti, parlando d'identità, insistono che si tratta di un processus. Vogliono dire con questo che si tratta di una storia. Oppure si insiste sul carattere soggettivo del concetto. Occorre andare più lontano. E' in ogni caso verso questo più lontano, penso, che bisogna tendere. Direi volentieri, ricorrendo ad una terminologia austiniana (J.L. Austin "How to do Things with Words", Oxford, 1962; trad. francese "Quand dire c'est faire", Seuil, Paris, 1970) che, con la comunità dei sordi e la cultura dei sordi, noi siamo nel registro constatativo mentre con l'identità sorda noi siamo in quello performativo. Così, mentre ci si può divertire nel discutere anche l'esistenza o meno di una comunità dei sordi e di una cultura dei sordi, nessuna discussione né un diniego possibile quando un sordo afferma, rivendica la sua identità sorda. Non si può che prendere atto di ciò la cui realtà è tutta intera nell'atto stesso della sua enunciazione. Resta da comprendere cosa ciò significhi. Non l'embrione di liste d'attributi, care agli psicologi. Ma la sola rivendicazione di un diritto ad esistere, e basta. Ciò tocca, a dire il vero, il fondo dell'esperienza quotidiana sorda: vedere gli altri indaffararsi, agire, discutere, decidere -anche su problemi che vi riguardano- facendo come se, molto semplicemente, voi non foste là.

(3) Una ventina di persone sorde o sordastre hanno partecipato,in modo episodico o regolare, al Seminario di questo anno (1986). Fra i più fedeli delle sedute, alcuni frequentanti dopo molti anni il seminario: Daniel Abbou, Ralph Barkatz, Rachid Benelhocine, Saliha bouseelham, Christine Castell, Dominique Charlon, Brigitte Piniau-leggli, Karin Salomon, Jacques Thorin e Marie-France Weisser. Ho molto imparato da loro, il mio debito è grande nei loro confronti. Ma va da sè che questo testo che deve tanto al loro apporto e porta nei principali punti il loro contributo, non impegnano evidentemente che me.

(4) Anticipiamo, e veniamo ai Sordi. Partendo da esperienze personali precise - e seguite in questo da altri Sordi - Dominique Charlon sviluppò magnificamente questo punto nel corso di un seminario. Essa indicò come si era sorpresa a situare uno dei parenti nella categoria generale ed indistinta degli "udenti", tutti un po' uguali; poi, citando l'analisi che fa Bruno Bettelheim nel "Le Coeur conscient" (trad. francese, Laffont, 1972) delle reciproche percezioni degli Ebrei e delle SS nel campo (sic!), essa terminò con questo interrogativo: se gli udenti ci vedono e ci trattano come se fossimo tutti un po' simili, non può essere per il fatto che, dopotutto, noi li sentiamo, li vediamo e li trattiamo indistintamente come se fossero tutti un po' simili?

(5) Jerenc Eros, Andras Kovacs, Karalin Leval, "comment j'en suis arrivé à apprendre que j'étais juif", Actes de la recherche en Sciences sociales, n. 56, marzo 1985, L'antisemitisme, pp. 63-68.

(6) John W. Small "La crise de l'adoption transraciale, famille blanche, enfant noir", Le coq Héron, n. 92, 1984, pp. 52-69. Trad. francese di un testo apparso nel The International Journal of Social Psychiatry, vol. 30/1 e 2, Primavera 1984.

(7) David Wright, Deafness, Stein and Day, New York, 1969.

(8) Sono chiaramente cosciente che ciò non è così semplice. L'idea che molte delle cose sfuggiranno al loro bambino sordo - alcuni penano prima di tutto alla musica - stringe dolorosamente i genitori. Ma l'idea che spesso gli sfuggirà anche ciò che gli sfuggirà, che non ne sarà nemmeno cosciente, che non percepirà la mancanza, ecco quello che, al posto di calmare la sofferenza, può al contrario avere per effetto di raddoppiarla. Come se ciò che farà così sovente la sua forza, non potesse aver altro effetto che di lasciarlo disarmato di fronte al mondo.

(9) Carolyn Hyatt, "Briser les chaines du silence", suppl. a Coup d'Oeil n. 25, Dicembre 1980, Serge Meier, "Tribune libre", Les Mains du CRAL n. 43, Giugno 85, pp. 26-27.

(10) Paddy Ladd, "Intégration et génocide: une experience personnelle", Etudes et Recherches, 2LPE, Vol. 1, secondo semestre 1983, p. 295-306 (trad. francese)

(11) Ho coscienza di aver centrato, nell'insieme di questa riflessione, soltanto una parte del discorso: il caso dei sordi mantenuti fino ad un'età relativamente avanzata lontani dalla comunità dei simili e che, scoprendo improvvisamente i Sordi, la Lingua dei Segni e la cultura sorda, scoprono la loro propria sordità. Questa fa ormai parte di loro. Il loro rapporto con l'ambiente ne è così sconvolto che si è tentati di parlare di conversione. Va da sè che, desiderosi di condividere la loro scoperta, è fra loro che si recluteranno un certo numero di militanti e di proseliti della LS. Ma tali conversioni non sono state possibili - o almeno rese più facili - se non poiché il movimento identitario che nel mondo intero tocca, dopo già due decenni, il mondo dei Sordi riguarda anche - prima di tutto e soprattutto - i sordi che sono cresciuti con la Lingua dei Segni; questi realizzano molto tardivamente che sono sordi o più esattamente tutto ciò che ciò significa. E d'altra parte, non è sufficiente essere cresciuti con la Lingua dei Segni e vivere in seno alla comunità sorda per rivendicare la propria identità - cioè un posto completo al sole - , per essere fieri della propria lingua, accettare di donarla agli udenti, e in alcuni casi di imporgliela. La testimonianza di Barbara Kannapel ci chiarisce questo aspetto centrale del problema dell'identità sorda

(12) Odile Bailly, "Les sourds et les entendants dans le groupe Epheta", Bulletin d'information de la Société centrale n. 37-38, pp. 69-76.

(13) partendo da un appunto di Dora Mottez.

(14) "Gallaudet: la révélation des signes" in "La langue des Signes dans la formation et l'intégration de la personne sourde", Atti del convegno di Liegi 4/85, P.L.G.S. pp. 77-81.

Articolo apparso su L'Educazione Bilingue n. 5, dicembre 1993. Il testo è stato tradotto da Etudes et Recherches (vol. 3, 1er Sem. 1986) dell'associazione 2LPE. Traduzione italiana di Marco Consolati

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