Speciale nipponica

 KAGE 1 

Recensioni

--> da LN-LibriNuovi 32 - 1995

TANIZAKI JUN'IKIRO - IL VELENO DI AFRODITE - Garzanti 1994 - L. 30.000
MURAKAMI ARUKI - TOKYO BLUES - Feltrinelli UE 1995 - L. 14.000

.

Una delle dimensioni tipiche della cultura giapponese è una visione del sesso raffinata e cerebrale. Basti pensare a film come "L'impero dei Sensi" o "Tokyo decadence" (regista Murakami Ryu) o, per rimanere in ambiti molto più popolari, ai Manga di tema più o meno scopertamente sadomasochista, per cogliere l'ambiguo rapporto tra sesso, dolore, umiliazione, abbandono e sconfitta che anima la cultura giapponese.
In un autore come Tanizaki il tema della dominazione e dell'umiliazione occupa una parte considerevole dell'ispirazione, permettendogli di ritrarre personaggi che non si dimenticano facilmente. Ne Il Veleno di Afrodite sono riuniti due racconti lunghi: "Fino ad essere abbandonato" (1913) e "Jotaro" (1914).
Nel primo Tanizaki racconta di Kokichi che, innamorato di Michiko, giunge a spogliarsi gradualmente della sua apparenza dignitosa e del suo orgoglio per sacrificarsi interamente all'amante, divenendone lo zimbello e finendo per essere abbandonato. Un tema non troppo diverso da "Un amore di Swann" della Recherche o da "L'angelo azzurro" di Heinrich Mann, qui trattato con un'ombra di perfidia non lontana da Mann ma sconosciuta a Proust.
Tanizaki trae piacere dalla disperata umiliazione del suo personaggio, ma insieme mira a sottolineare quanto più ricca e viva sia la sua esistenza quando sacrificata ad una passione. Kokichi è volutamente rappresentato come individuo fatuo, sussiegoso, attento alle minuzie dei modi, suscettibile, permaloso, timoroso di mal figurare e di essere sottovalutato. In sostanza è un piccolo borghese del quale si immaginano senza fatica le piccole astuzie, le miserie quotidiane, l'identificazione completa con la propria apparenza. Kokichi senza passione ...è un individuo pigro, incostante... , immaturo si potrebbe dire, capace solo di velleità e di sogni adolescenziali di grandezza. L'amore per Michiko distrugge la sua autostima e Kokichi, abbandonato, giunge a fantasticare di un suicidio drammatico, di un gesto eroico e definitivo che lo rassicuri.
In "Jotaro", testo ricco di spunti autobiografici, il masochismo emotivo di "Fino ad essere abbandonato" assume connotati decisamente espliciti, tanto che il racconto alla sua uscita fu bollato come osceno. La storia di Jotaro, scrittore pigro e uomo arrogante, che dilapida la sue sostanze per una prostituta, pagata per sottoporlo a torture e umiliazioni, è tuttavia troppo netta e definita per attrarre il lettore, troppo evidente la possibilità di separarsi dal personaggio, considerandolo con curiosità o sottile disapprovazione. La maestria dell'autore, comunque, è tale che si legge con piacere anche la strana storia di Jotaro, sebbene la sua figura appaia più letteraria, quasi caricaturale, meno efficace nel creare inquietudine.
Ma Tanizaki è un autore efficace e suggestivo e con questa breve recensione ho solo accennato a pochi elementi della sua produzione artistica. Mi riprometto di approfondire il discorso alla prima occasione.

Di Murakami Aruki sono stati finora tradotti due romanzi: "Sotto il segno della Pecora", da Longanesi nel 1992 e Tokyo Blues già edito nel 1993 da Feltrinelli nel 1993 che recentemente ne ha pubblicato l'edizione economica.
Tokyo Blues è il romanzo di formazione del giovane Watanabe, costruito intorno al suicidio del suo miglior amico e all'intenso legame che finisce per unirlo alla di lui ragazza.
È quindi un romanzo dai connotati fortemente romantici.
Il romanticismo esasperato tipico di molta produzione letteraria giapponese, la familiarità di questa letteratura con la morte e il suicidio, le storie destinate ad una triste fine sono diventate caratteristiche quasi caricaturali. Per un lettore italiano un romanzo di autore giapponese: a) finisce male oppure malissimo; b) racconta psicologie contorte o fallimenti esistenziali; c) È noioso fino allo sfinimento.
Il fatto è che se i punti a) e b) sono spesso veri, il punto c) lo è solo molto raramente. E anche sul punto a) c'è abbastanza da dire e spiegare. Ciò che per un occidentale è melodramma (...Mi chiamano Mimì ecc. ecc.), stucchevole dramma borghese o artificio retorico, nella cultura giapponese è rappresentazione Classica, constatazione addolorata dell'impotenza e della debolezza umana di fronte alla natura inafferrabile e indifferente del mondo. C'è una forte influenza del pensiero buddhista Mahayana in questa visione come, forse, il ricordo di una natura tutt'altro che benigna e la cognizione di una caducità fatale.
Il romanzo di Murakami si veste di panni occidentali e nelle sue pagine, scritte con apparente disinvoltura, è facile trovare riferimenti al jazz e ai Beatles, alla cultura americana, alle lotte studentesche (c'è persino un personaggio umoristicamente soprannominato Sturmtruppen); ma il livello più profondo del testo è interamente giapponese. La sfortunata storia d'amore di Kizuki e Naoko, il primo suicidatosi molto giovane, la seconda che perde progressivamente i contatti con il mondo fino a scomparire con la dolcezza della luna che impallidisce all'alba, è letteralmente senza tempo e suscita sentimenti molto intensi nel lettore. Il loro amore è fatto di un'intesa così perfetta da non richiedere nemmeno parole per esprimersi, un'affinità così intensa da fare di Naoko e Kizuki due metà senza speranze se vengono separati. Il protagonista riesce solo a intuire la maledizione di un sentimento tanto unico eppure ne sente il fascino e la serenità, la potenza quasi mistica.
Nella separazione tra la sua vita comune, a tratti banale, grigia, deludente e il fascino di un'esistenza così profondamente motivata sta la chiave del romanzo, la sua essenza di testo non goffamente drammatico ma tenuemente malinconico.

Ricordate quest'ulteriore motivo della malinconia, della consolante sensazione di fatalità che contiene: è un elemento importante dell'estetica giapponese.

--> da LN-LibriNuovi 33 - 1995

	L'autunno inizia 
		lo scroscio estivo continua
	nella pioggia notturna
				

(Taigi - 1709/1771)

AKUTAGAWA RYUNOSUKE - RACCONTI FANTASTICI Marsilio 1995 - L.14.000
AA.VV. - ROSE DEL GIAPPONE - E/O - L. 15.000

Akutagawa Ryunosuke, autore del racconto Rashomon - dal quale Kurosawa ha tratto il film omonimo - è morto a 35 anni e ha scritto tra il 1916 e il 1927 i racconti pubblicati da Marsilio nell'antologia Racconti fantastici.
Akutagawa, pur essendo persona sensibile ai problemi sociali e politici, disapprovava la letteratura "proletaria" a tesi (puroletaria bungaku), opponendogli l'irriducibile unicità della scrittura autobiografica e del naturalismo, sostenendo il maggior valore - anche linguistico ed espressivo - della narrazione fantastica.
I suoi racconti sono insieme fiaba, apologo e storia magica, ma vivono di un'attenzione completa per colori e immagini. Sono testi luminosi, profondamente evocativi, sottilmente ambigui e anche se presentati come fiabe per bambini (dowa) si prestano ad una lettura a più livelli, tale da affascinare anche il lettore adulto.
Particolarmente godibili mi sono sembrati "Il tabacco e il diavolo" divertente soprattutto nel ritrarre un diavolo dispettoso e pasticcione, "Magia" apologo sull'avidità, "il bianco" storia di una cane pavido, e "Monomotaro" racconto tradizionale ma anche satira tagliente dell'espansionismo nipponico degli anni '20.

L'antologia Rose del Giappone raccoglie racconti di cinque autrici, delle quali solo una - Eimi Yamada - è stata già tradotta in italiano con il romanzo "Occhi nella notte" (Marsilio tascabili - L.10.000).
Quattro dei testi pubblicati sono racconti, mentre uno, quello di Kiriko Nananan, è un Manga (fumetto), una raccolta di immagini in bianco e nero fornite di un breve testo: situazioni e brevi descrizioni che interagiscono con l'immagine creando una suggestione lenta e ipnotica.
Per quanto riguarda i racconti, un primo elemento emerge con evidenza: la loro qualità visiva, l'efficacia e l'attenzione delle descrizioni che accompagnano il lettore come una seconda visione. Il racconto "Diario di una gravidanza" di Yoko Ogawa è probabilmente un vero canone: alla qualità quasi onirica dell'immagine unisce una nitida percezione dell'alterità insondabile della maternità: vero accidenti e viaggio senza ritorno che la madre compie sola fino al parto, Alfa e Omega di una femminilità esclusiva, lunare, ben rappresentata nel racconto dal personaggio della sorella della protagonista, divenuta irraggiungibile a se stessa e alla famiglia.
Nel racconto la gravidanza ha la medesima cadenza drammatica e la medesima fatalità di un fenomeno naturale, misurabile su una scala che non è quella umana.
Quasi a far da interlocutore involontario, il racconto "E dire che è così carino" di Keiko Ochiai, narra di una intellettuale che in occasione del suo quarantesimo compleanno si trova a riflettere con il compagno sulla possibilità di una maternità. Nel breva lasso di tempo di un viaggio i due la esplorano con sgomento finendo per negarla, nell'illusione di fermare il tempo.
"Il tatuaggio del sole" di Yamada Emi è la storia di una passione d'amore nata quasi per caso, che vive della dedizione cieca e maniacale di lui e del narcisismo di lei, che non lo ama con lo stesso trasporto, ma si compiace della frenesia erotica del suo amante. Si tratta di un testo sottile, a tratti tanto nitido da essere quasi sgradevole e che rappresenta con estrema cura un aspetto peculiare della psicologia femminile, il gusto (da perdente) di rappresentarsi come oggetto di un desiderio assoluto, irrazionale. Davvero memorabile l'incipit del racconto, che lo rovescia in presagio, timore, peccato.
L'ultimo racconto "Dirty Rotten Holy Night" di Sagisawa Megumu è un frammento della vita di una ventenne sbandata, convivente di un individuo irresoluto e velleitario, che per un motivo banale è costretta ad incontrare il padre, lasciato per affrontare la vita da sola. Il loro incontro, cauto, pudico, povero di parole, è un momento struggente, una pausa che è anche un bilancio.
Alcuni dei temi tipici della letteratura giapponese: l'erotismo contorto, il piacere di un scrittura fortemente visiva, il romanticismo esasperato (che non scade mai nel melodramma), sono presenti anche in questa antologia, ma il primo e il terzo con minore evidenza. La narrativa giapponese femminile gode di una condizione di leggerezza invidiabile, pur non perdendo nulla quanto a capacità di penetrazione e di finezza psicologica.



--> da LN-LibriNuovi 34 - 1995

	Odor d'inchiostro
		nella notte che gela
	mi dà piacere
		

(Momoko Kuroda)

KAMO-NO-CHOMEI - RICORDI DAL MIO EREMO - SE - L.15.000 e Marsilio Mille Gru L. 15.000

YAMADA AMY - TRASH - Bompiani grandi tascabili 1999 - L. 15.000

Ricordi del mio eremo [Hojoki è un testo scritto nei primi anni del XIII secolo, del quale esistono numerose versioni. La più attendibile tra le trascrizioni complete risale al 1244 ed è stata redatta dal bonzo Shinkai. Il testo originale è conservato nel Daifukuji in un tempio del distretto di Funai.
Kamo-No-Chomei, poeta presso la corte dell'imperatore Go Toba, intorno ai cinquant'anni abbandonò la vita mondana per rifugiarsi in una modestissima casa da lui stesso costruita e dedicarsi a una vita contemplativa. L'arco della vita del poeta abbracciò la lunga fase delle guerre feudali tra i clan Taira e Minamoto, un periodo convulso, oscuro e sanguinoso della storia giapponese. Tali eventi furono probabilmente alla base della decisione di Chomei di ritirarsi dal mondo e successivamente scrivere "Hojoki".
Il breve testo consta di quindici capitoletti dei quali i primi sei raccontano di eventi catastrofici per ammonire gli uomini che «... Si muore la mattina e si nasce la sera [...] in tutto simili alla schiuma dell'acqua». Il settimo capitolo ricapitola i motivi di infelicità nella povertà e nella ricchezza. Dal capitolo otto in poi Chomei racconta della sua condizione e della quieta felicità trovata nella solitudine e nella rinuncia. Si tratta di un testo pacato, lieve, reso suggestivo dalle tenui immagini poetiche, un raccontare amichevole, che acquieta e seduce.
Chomei si vale della propria arte e della propria sensibilità per sottolineare il senso di una scelta tanto radicale. Il Buddhismo è rinuncia, distacco dalle passioni e dai possessi per trovare l'illuminazione, ma non significa umiliazione e autolesionismo. Questo eccellente testo ne è un'ottima riprova.

Dopo un testo remoto nel tempo ma sorprendentemente attuale, un romanzo di questi anni.
Trash viene presentato come un libro fortemente trasgressivo, ponendo in risalto il fatto che l'autrice abbia lavorato per alcuni mesi in un club per sadomaso (senza peraltro specificare quale fosse la sua incombenza). Lo spunto iniziale del testo sembra infatti avvalorare questa volontà di trasgressione, presentando la protagonista ammanettata al letto come nel più famoso "Il gioco di Gerald" di Stephen King. Si scopre ben presto, tuttavia, che la situazione iniziale non ha nulla di particolarmente trasgressivo o stravagante: Koko, la protagonista, è stata ammanettata al letto dal suo amante ubriaco, nel disperato tentativo di impedirle di abbandonarlo. La situazione di forzata immobilità è per Koko l'occasione di riflettere su se stessa e sul consumarsi di quell'amore.
Ho trovato il romanzo abbastanza gradevole, a tratti anche felice e capace di riflessioni non banali, ma decisamente prolisso. Koko è descritta come una brava ragazza, un'ingenua talvolta sprovveduta ma armata di buone intenzioni non sempre adeguate alla situazione, che si fa troppe illusioni sull'amore che finalmente trasformerà la sua vita. La scelta di Yamada di aderire completamente al punto di vista della protagonista, concedendosi solo qualche breve passaggio nella mente degli altri personaggi, non concede al lettore il distacco necessario per cogliere l'ambiguità fondamentale di Koko, il suo desiderio infantile, spesso ingiustificato, di essere amata e consolata.
Man mano che procede, il romanzo sembra spegnersi per consunzione, quasi Yamada non volesse rassegnarsi a un banale happy end. Le ultime pagine, irte di dialoghi che annunciano ottime intenzioni e farcite di osservazioni che reinventano per l'ennesima volta le filosofie "alla Buscaglia", denunciano i limiti dell'autrice che, pur mostrando affinità di ispirazione con Yoshimoto Banana, non ne ha la leggerezza né il gusto romantico venato di tristezza. Yamada vorrebbe rendere la difficoltà di comunicare, la solitudine fatale di chi, amando, si concede senza riserve, ma perde spesso la bussola e dedica troppo spazio a dialoghi e riflessioni poco significativi.
Con tutto ciò debbo ammettere che alcuni personaggi - in particolare Rick, l'amante di Koko, e Jesse, suo figlio - sono resi in maniera eccellente e, nelle pagine dove appaiono, rendono il romanzo comunque godibile.
La sensibilità e l'attenzione per i sentimenti quotidiani, una caratteristica che emerge da molte autrici giapponesi contemporanee (basti pensare a "Kitchen" di Yoshimoto, malinconica elegia della vita casalinga) sono ben presenti anche in Yamada, tanto da rendere dolorosi e struggenti non pochi momenti del suo "Trash".
La condizione femminile in Giappone è ancora sufficientemente peculiare e anche, per molti versi, inaccettabile, ma molte nuove autrici sembrano fare dell'universo domestico il luogo eletto di una sensibilità sconosciuta ai maschi. Non so dire quanto questa scelta rappresenti un segnale di cambiamento o se non si tratti, in sostanza, di un accomodarsi di buon grado nell'unico spazio concesso. Non è un nodo facile da sciogliere e non posso che limitarmi a sollevare la domanda, confidando che ulteriori letture possano dare una risposta.



--> da LN-LibriNuovi 35 - 1995

	I papaveri
		a distesa fioriti
	 - Luna di giorno

YOSHIMOTO BANANA - LUCERTOLA - Feltrinelli 1995 - L. 21.000

SHIMADA MASAHIKO - MI FARO' MUMMIA - Marsilio 1995 - L. 16.000

INOUE YASUCHI - VITA DI UN FALSARIO - Melangolo 1995 - L. 22.000

Yoshimoto Banana è probabilmente l'autore giapponese più noto in Italia. "Kitchen", romanzo malinconico e delicato, ha avuto un notevole successo, e così anche le altre opere via via tradotte da Feltrinelli: "Sonno Profondo", "N.P." e "Tsugumi".
Lucertola, uscito a ottobre di quest'anno e pubblicato in Giappone nel 1993, è una accolta di racconti. «Il mio primo libro di racconti. A rileggerlo adesso lo stile mi sembra piuttosto immaturo», scrive Yoshimoto nella postfazione. La raccolta prende il titolo da uno dei racconti, la nascita di una storia d'amore che coincide con fine della giovinezza dei protagonisti, anche se probabilmente il racconto migliore è quello che chiude l'antologia: "Strana storia sulla sponda del fiume", soprattutto per la delicatezza del ritratto psicologico dei personaggi.
La caratteristica principale della narrativa di Yoshimoto è sicuramente il respiro sommesso, l'attenzione rallentata, mai casuale, per i luoghi e i particolari. I temi sono sentimentali, attengono in genere alla vita effettiva, ma Yoshimoto riesce a non scivolare mai nell'ovvio del racconto d'amore o nella vicenda strappalacrime grazie al suo stile scarno, fortemente evocativo, talvolta raffinatamente naif. Yoshimoto mostra legami profondi con la tradizione narrativa giapponese, sa essere essenziale, raccontare per brevi tocchi, per attimi, per sensazioni minime. Ma non si tratta di minimalismo, di descrizioni puntuali (e pedanti) di palpiti minuzioso che riducono ogni emozione a un'ombra vaga, a ricordo. Yoshimoto coltiva con attenzione il distacco, riuscendo così a raccontare senza forzature né toni drammatici vicende dolorose, morti, separazioni. Si ha la sensazione che possieda il dono di raccontare quasi naturalmente, senza sforzo.
C'è chi accusa i suoi testi di compiacere il gusto adolescenziale. Spesso si coglie una certa sufficienza nei commenti dei critici e recensori, come se parlando di un'autrice di nome Banana, molto gradita ad un pubblico giovane, fosse necessario ostentare un cinismo non richiesto, una disattenzione obbligatoria. Una pessima abitudine, tipica di un paese dove il ceto intellettuale non ha evidentemente altra legittimazione oltre a quella che si fornisce da sé o, più semplicemente, ha una notevole coda di paglia.

Il libro di Shimada Masahiko, Mi farò mummia, ha trovato attenzione anche sui periodici italiani, e mi è capitato persino di leggere un'intervista -a anche se piuttosto incolore - all'autore. Tanta inattesa attenzione è probabilmente dovuta al tema del racconto lungo che dà il titolo al libro, minuziosa cronaca di un suicidio per inedia.
Secondo l'autore non si tratta di un evento così raro e aberrante, ma di una pratica religiosa - certamente non comune - nella quale l'esercizio della rinuncia giunge al suo limite estremo.

L'aspetto più interessante dell'opera è che il protagonista non subisce nessuna spinta etica o religiosa cosciente e non prova altro che un annoiato disgusto nei confronti della vita. La scelta di suicidarsi in modo tanto assurdo è quasi una sfida, un gioco perverso condotto troppo avanti. Il sentimento prevalente del diario, scritto con tono quasi faceto e con pignoleria, è la curiosità, lo stupore per le reazioni del corpo a digiuno. Non vi è mai un dubbio, un'oscillazione, un ripensamento: il protagonista esaurisce le sue ragioni del vivere nel gesto protratto del morire, nel tempo trascorso sul limite: tempo rubato, vita da spettro, o da demone, che osserva e ascolta senza più partecipare. Paradossalmente un gesto espresso come laico, disincantato. si colora di sfumature mistiche, rappresenta l'unico rifugio davanti al vuoto del vivere.
Leggendo il libro si intende almeno una parte dei motivi che guidano l'anoressia. Li si comprende spogliati dalla concitazione e dall'urgenza, con una calma lucida e agghiacciante.
Di minor impatto, ma comunque godibili, i racconti brevi che seguono, anch'essi incentrati sul tema dell'anoressia e della rinuncia, e altrettanto carichi di una desolata, surreale rabbia contro il modello di vita del Giappone e, più in generale, del Nord del mondo.

Inoue Yasushi è autore poco noto in Italia, Di lui mi ricordo di aver letto a suo tempo "la montagna Hira", in edizione Bompiani: una raccolta di racconti non del tutto omogenei ma che comunque stimolavano la curiosità del lettore. Questo suo Vita di un falsario, scritto nel 1949, si è rivelato una felicissima sorpresa.
Hosen, pittore mediocre, è stato compagno di Accademia e amico del grande maestro Keigaku. È stato probabilmente un uomo da poco, ha copiato le opere di Keigaku e le ha vendute spacciandole per originali. Ma durante una ricerca delle opere perdute del maestro, i protagonisti - un giornalista e il figlio di Keigaku - si imbattono in un dipinto di grande bellezza firmato Hosen. E ben presto l'intera storia del grande pittore e del suo infelice e miserabile amico, che pareva definita una volta per sempre, si rivela molto meno tranquillizzante del previsto. Perché Hosen, pur essendo un eccellente pittore, ha scelto di umiliarsi copiano il grande Keigaku? Che cosa lo ha spinto a rinunciare, a scomparire fino a morire in circostanze grottesche in uno sperduto villaggio?
I due protagonisti, sempre più smarriti, ricostruiscono l'inquietante vicenda umana di Hosen, ma, al pari del lettore, non riescono a trovare una spiegazione, un unico motivo, un chiaro intento. O forse il motivo e l'intento esistono e si possono cogliere solo nell'unico dipinto firmato da Hara Hosen: «emanava dalla scena un che di struggente che penetrava nel cuore...».
La storia non conosce scioglimento e non accontenta il lettore che voglia un finale giusto o un lieto fine. Lo lascia tuttavia pacificato, forse rassegnato davanti al grande mistero dell'unicità di una vita. E abilmente Inoue suggerisce ma sa ritrarsi al momento giusto. certe storie, certe vite (o forse tutte le vite) non possono essere pienamente comprese né compiutamente spiegate: rimane un mistero, un vuoto, un enigma che ognuno di noi nasconde e che è compito dello scrittore investigare, per quanto è umanamente possibile.



--> Da Ln-LibriNuovi 36 - 1996

	I fiori sono stupendi 
		e ignorano 
	che sono vecchia 
		

(Chigetsu)

KARL TARO GREENFELD - BABURU - Instar Libri - L. 25.000

ABE KOBO - TRE METAMORFOSI - Marsilio - L. 24.000

Il Giappone che immaginiamo noi occidentali ha numerosi volti. Esiste il Giappone misterioso e fatale - ultima Thule della mistica arte orientale - e il Giappone industriale, quello della Qualità Totale evocata da Romiti; il Giappone dei cartoni animati con i bambini dagli occhi troppo grandi, quello della pornografia violenta, il Giappone della tecnologia avanzatissima e quello dei suicidi, delle case troppo piccole, del razzismo e della carne di balena.
La realtà, naturalmente, è fatta di tutte queste cose. Ma se volete leggere di un Giappone amaro, tagliente, brutalmente REALE, vi suggerisco il libro di Karl Taro Greenfeld Baburu. L'autore, un nippo-americano nato a Kobe da padre ebreo americano e da madre giapponese, viveva e lavorava a Tokyo durante la seconda metà degli anni Ottanta, gli anni della Grande Bolla (Baburu) « nella seconda metà degli anni '80 Tokyo ha probabilmente sperimentato una delle maggiori concentrazioni di ricchezza nella storia del mondo [...] Chiunque disponesse di un budget minimo da investire e di un Q.I. superiore a sei poté accumulare dall'oggi al domani fortune da nababbo».
Ma nel libro non si parla dei nuovi ricchi, dei riusciti. Greenfeld racconta dei giovani falliti, dei bosozoku - giovani teppistelli a cavallo di enormi motociclette - che sperano di essere notati dalla Yakuza, la potente mafia nipponica, delle hostess per uomini d'affari, di ladruncoli, di politici corrotti, di mediocri furbetti e piccoli delinquenti (chimpiku: cazzetti) che sgomitano per emergere. Sono storie brevi, narrate pianamente, alcune con un taglio chi ricorda l'inchiesta giornalistica.
È uno strano libro, Baburu. Riesce a comunicare una fortissima sensazione di vuoto, di ansia, di fallimento, eppure il lettore sente di conoscere, forse comprendere. Greenfeld non giudica, racconta; se mostra ironia questa no diviene mai sufficienza. E il lettore è invogliato a capire, rinunciando a utilizzare categorie di giudizio scontate. È un libro importante, uno dei pochi pubblicati in questi anni che si sforzi di afferrare il senso di questo scorcio di secolo. E come tutti i buoni libri fornisce al lettore numerose chiavi di interpretazione della realtà, anche della propria.
Il testo è arricchito dai progetti/dipinti di Takamatsu Shin, delirante architetto degli anni '80, eccellente esempio di trasposizione grafica delle frenesie tecno-simboliche della cultura contemporanea.

Tre metamorfosi di Abe Kobo è una trilogia di racconti, scritti negli anni '50.
Abe non nasconde il suo debito nei confronti di Kafka (la scelta del titolo ne è un chiaro indizio), sia per quanto riguarda la scelta del tema della mutazione, che per l'evidente gusto dell'assurdo.

Esemplare il primo racconto, "Dendrocacalia" - cronaca di una metamorfosi umano-vegetale, dove la narrazione del sottile mutare delle percezioni prevale sul grottesco. Negli altri due racconti, "R62" e "Appendice", viceversa, rispettivamente storie di mutazioni in robot e in pecora - a imporsi è un intento politico, più simile, se ci vuole, a quello di certe commedie dell'assurdo di Dario Fo che a Kafka. Inevitabilmente il testo, riletto a distanza di più di quarant'anni dalla stesura originale, denuncia, soprattutto in "R62", un'ispirazione ormai datata e rivela la (lodevole) volontà di prendere posizione politicamente, denunciando un'organizzazione del lavoro oppressiva e alienante.
Colgo l'occasione per suggerirvi, dello stesso autore, "la donna di sabbia", edito da Guanda, un'allucinante metafora della condizione femminile del nostro secolo.



--> LN-LibriNuovi 37 - 1996

	Sui vestiti di cotone
		ondeggiano al sole 
	nubi fluttuanti
		

(Kyoroku 1656/1715)

OE KENZABURO - UN'ESPERIENZA PERSONALE - Garzanti 1996 - L. 28.000

Oe Kenzaburo è uno dei pochi scrittori giapponesi, insieme a Mishima Yukio e Yoshimoto Banana, sufficientemente noti al pubblico italiano.
Premio Nobel per la letteratura nel '94, ha avuto un breve momento di relativo successo e qualche intervista non troppo convenzionale presso quotidiani e settimanali. Si è così appreso che Oe è stato a suo tempo autore politicamente impegnato (leggi comunista convinto), amico personale di Mishima nonostante le divergenze ideologiche, e padre di un giovane musicista nato gravemente handicappato e ora a sua volta giunto al successo. Notizie disperse, frammenti, echi. Troppo poco per suscitare un interesse radicato per un autore davvero unico, non facile, schietto e capace di un'intensità che raramente si incontra nelle pagine di un libro.
Nel gennaio di quest'anno è arrivato in libreria Un'esperienza personale, un libro di stampo evidentemente autobiografico, dove Oe racconta l'esperienza della nascita di un figlio affetto da una grave malformazione cerebrale congenita, tale da condannarlo ad una vita vegetativa.
Oe ha affrontato il tema in altri suoi testi ("Insegnaci a superare la nostra pazzia"), racconto che dà il titolo all'antologia pubblicata in Italia nel 1992 e ne "Il grido silenzioso" ed. it. 1987), ma più obliquamente, narrando lateralmente, rendendo la propria esperienza una metafora, una pietra di paragone per il senso di vuoto e di insufficienza che sperimentiamo vivendo. Qui l'affronta direttamente, scegliendo di raccontarla attraverso un altro nome e un'altra storia, usando cioè i mezzi che permettono ad una autore di difendersi, di non rivelarsi completamente.

«Chissà che allegria...!»

Gli autori giapponesi godono fama (in compagnia di molti russi) di essere terrificanti, cioè deprimenti, contorti, cerebrali e frustranti. Il libro di Oe sembrerebbe rientrare in questa categoria. Effettivamente un tema come "i sentimenti di un padre che scopre che il proprio figlio è deficiente e tale resterà per tutta la vita" non è di quelli che elettrizzano il vasto pubblico. Anche il lettore abituale, dai gusti sufficientemente evoluti, avrà qualche resistenza a scegliere un testo che non promette certo facile divertimento.
Ma l'esperienza della lettura si rivela gratificante. Oe non si sofferma su dolori e sofferenze, non narra i risvolti personale di un dramma clinico, non vuole essere edificante né si propone di scrivere una cronaca di quotidiani piccoli erosimi. Il protagonista è un individuo mediocre,. frustrato, ricco di pulsioni e velleità adolescenziali e che vive la gravidanza della moglie e la nascita di un figlio come un evento vago, coinvolgente solo in maniera superficiale. La malformazione congenita del neonato (ernia cerebrale), dopo l'iniziale smarrimento, finisce per suscitare in lui un semplice desiderio di fuga. Il protagonista, soprannominato Tori-bird per i tratti e le movenze che ricordano un uccello, abbandona la moglie ignara della sorte del bambino, si installa a casa di un'amica di gioventù, si ubriaca, cerca in tutti i modi di sfuggire alla sua sorte anche a costo di incappare nell'incomprensione e nel disprezzo altrui.
L'abilità narrativa di Oe sta in buona parte nella capacità di suscitare nel lettore interesse e partecipazione verso un protagonista così umanamente fragile e codardo. Le domande che Tori-bird si fa, i suoi dubbi, le sue oscillazioni, la vergogna, il senso di colpa, il desiderio di fuggire sono i sentimenti che molti sperimentano nella stessa situazione, come pure l'orrore per l'impersonalità della medicina, l'insoddisfazione per le praole vuote di amici e parenti, il terrore nel vedersi obbligati a crescere troppo in fretta.
Oe non lascia spazio a compiacimenti, nel suo testo non c'è nulla di melodrammatico, sola la testimonianza di un mutamento, una quantità di interrogativi senza risposta che infine, misteriosamente, determinano una scelta definitiva. Per giungere alla conclusione l'autore obbliga il protagonista a rivivere gli eventi meno compresi della sua vita, a rievocare attimi semidimenticati, sconfitte, assenze, equivoci. Rotto l'equilibrio fatto di abitudini e vaghi desideri Tori-bird è costretto a riconoscersi, a interrogarsi. Il ritmo disuguale, affannato dei suoi pensieri alla deriva lo guida fino agli impulsi più inconfessabili, alle pulsioni più brutali. Il lettore testimone legge con il cuore in gola, si emoziona e non riesca a staccarsi dal personaggio, a considerarlo con distacco e disapprovazione.
Il rapporto che i giapponesi intrattengono con il corpo e le sue funzioni è molto diverso da quello al quale siamo abituati noi occidentali, cattolici o protestanti. Il concetto di oscenità è molto più sfumato, il senso dell'opportuno e del lecito molto diverso e numerosi narratori giapponesi hanno una percezione estrema della fisicità, un approccio inquietante al sesso.
La carnalità dei personaggi di Oe è incerta, cruda. Ma non è un fenomeno allarmante ed estraneo, una sorta di possessione che priva della facoltà di intendere e volere. Fa parte della vita quotidiana, e dei pensieri di ogni momento, non provoca orrore, di sé ma solo una stanca malinconia, un senso di perdita frustrante.

Mi sono dilungato su un unico libro. Ma si tratta di un testo non comune, di grande valore. Penso sinceramente sia stata per me una fortuna conoscere Oe Kenzaburo e mi auguro che vi capiti di leggerlo. È uno dei pochi autori in circolazione capace di indurvi a fermare i pensieri e riflettere, uno dei pochissimi che si abbandonano provando un senso di perdita.



Torna all'inizio