P. K. Dick
L'UOMO DAI DENTI TUTTI UGUALI
Fanucci 1999, ed. orig. 1984

IN TERRA OSTILE
Einaudi 1999, ed. orig. 1985

P.K. Dick è ormai un autore di culto.
Se lo merita per averci fatto l'ambiguo regalo del dubbio. Ci ha mostrato quant'è sfilacciato il tessuto del nostro mondo quotidiano, ci ha fatto sospettare che esistano altre realtà nascoste sotto e oltre quella che conosciamo, ha risvegliato la nostra paranoia. Per molti di noi il mondo, dopo aver letto La svastica sul sole, Scorrete lacrime..., L'Uomo dai giochi a premio, è diventato diverso.
Ma ridurre l'ispirazione di Dick a questa visione paranoica che affonda oltre la quotidianità quasi senza vederla, non gli fa giustizia. Peggio, non ci permette di vedere il filo rosso che unisce i suoi romanzi mainstream a quelli di genere, e li riduce a opere suggestive ma un po' imbarazzanti, che vanno incastrate a forza in una scatola di misura diversa.
Due romanzi, L'uomo dai denti tutti uguali, pubblicato da Fanucci e tradotto da Vittorio Curtoni, e In terra ostile, pubblicato da Einaudi e tradotto da Daniele Brolli, sono vittime significative di questa tendenza. Entrambi sono stati scritti prima del 1960 - come altri non di genere che Dick non riuscì a pubblicare - ed entrambi sono ambientati alla fine degli anni '50.
L'uomo dai denti... si svolge a Carquinez, una delle tante cittadine satellite della grande San Francisco, arrampicata in mezzo al verde, a due passi dall'oceano. Lo scontro tra Leo Runcible - l'agente immobiliare venuto dalla metropoli, deciso a guadagnare vendendo case ai cittadini in cerca di una sana comunità di provincia - e Walt Dombrosio - grafico creativo e competente pieno di domande su se stesso e i propri moventi - ha un'origine assurda: di slancio Walt invita a cena Charley, il meccanico nero che si occupa della sua auto. A causa del passaggio di Charley in una comunità rigorosamente bianca, Leo litiga con un cliente e lo accusa di razzismo e nazismo. Appena spenta l'indignazione, però, lo rinfaccia a Walt, coinvolgendo nella contesa la moglie Janet, una casalinga fragile di nervi che sta scivolando nell'alcoolismo, e Sherry, la brillante moglie di Walt, che mal sopporta di aver dovuto rinunciare alla professione dopo il matrimonio. Cominciata con una telefonata di insulti, la lite si ingigantisce, dispetti e ritorsioni coinvolgono altri abitanti e alzano sempre più il livello dello scontro; le conseguenze per i due - che si intrecciano ai rispettivi problemi di coppia - saranno la perdita del lavoro per Walt, che non perdonerà a Sherry di riuscire a mantenerlo, e un perfido scherzo giocato a Leo, che lo spingerà a indebitarsi sino al collo per difendere il proprio punto di vista.
In terra ostile inizia con la sosta di Bruce Stevens, giovane ma abile venditore di Reno, a Montario, il brutto paese dell'Idaho dov'è nato. Qui Bruce incontra Susan, una donna affascinante di dieci anni più vecchia, che è stata sua insegnante di scuola media. Presto i rapporti tra i due si approfondiscono e Susan, sola a occuparsi della figlioletta e di un negozio di forniture per ufficio, si rivela poco abile negli affari, desiderosa di essere affiancata in entrambe le responsabilità. Bruce si adatta facilmente al suo ruolo di gestore e di compagno: sposa Susan e si occupa con competenza del negozio, spinto dal desiderio - prima sconosciuto - di avere una famiglia sua, di dirigere la propria vita, di fermarsi dopo aver percorso gli Stati Uniti in lungo e in largo alla ricerca di merci convenienti. Ma Susan ha un carattere difficile, insieme pessimista ed eccessivamente controllato e, nonostante il suo desiderio di affidarsi, trova difficile - anche per la differenza di età - lasciar prendere le decisioni a Bruce. I rispettivi ruoli di un tempo - alunno e insegnante - complicano le cose, suscitando domande e dubbi rispetto al loro rapporto d'amore attuale, su cui getta un'ombra la presenza sfumata di Milt Lumky, uno strano e ironico rappresentante di commercio, solo e incapace di stabilire relazioni durature.
Entrambi i romanzi sono ottimi esempi di attenzione lucida e rispettosa per i moventi personali, della capacità di Dick di costruire trame complesse intorno a piccoli eventi quotidiani. Lo stile - che Brolli nella postfazione definisce «ordinario e spesso minato da un lessico limitato e da un linguaggio anonimo» - è in realtà adeguato alla narrazione, volutamente dimesso, felicemente inavvertibile; e permette al lettore di scivolare nella storia senza rendersene conto.
A prima vista i romanzi non sembrano collocabili nel filone dickiano: qui non ci sono gli infiniti livelli del reale, ma soffocanti rapporti di buon vicinato, party di fine anno dove strisciano vecchi rancori travestiti da confidenza e da scherzi bonari, vere strade che non finiscono mai, gente stanca che scende di macchina solo per riposare due ore in un motel e servirsi del bagno, in una efficace rappresentazione on the road lontanissima dal mito di Keruak.
Ovviamente la tentazione di entrare in questi romanzi con la chiave che apre le porte degli altri romanzi di Dick è forte: né Brolli né Voltolini (l'altro postfattore) vi si sottraggono, interpretando lo scenario come «un sistema deterministico in cui la fuga può essere tentata solo attraverso l'intuizione (...) la realtà (...) è una trappola da cui non si esce. (..) lo sbocco di un mondo che non finisce oltre le quinte è l'integrazione.» (Brolli); «A Dick basta deviare di qualche grado la direzione del racconto per farlo avvampare in questo falò dell'orrore puro (...) la possibilità dell'orrore alla fine diventerà, in un modo o nell'altro, la realtà dell'orrore. (...) L'orrore è una caratteristica del futuro, del luogo in cui tutti stiamo andando.» (Voltolini). So bene che estrapolare alcune frasi non è un'operazione completamente corretta; personalmente ritengo l'interpretazione di Voltolini più condivisibile e meno forzata di quella di Brolli, ma il punto non è questo. Spinti dalla lettura di altri (forse non molti) romanzi di Dick, entrambi hanno sottovalutato le tante parziali realtà in cui i personaggi delle due vicende frantumano e rispecchiano la loro quotidianità: a Carquinez e a Montario i livelli molteplici del reale non stanno uno sotto l'altro, uno dentro l'altro, ma convivono nelle menti dei personaggi come nelle menti nostre e dei nostri vicini, amanti, figli. Nessuno comprende fino in fondo ciò che provano - ciò che vivono - gli altri. È questa incapacità di sforare la propria realtà, la vera trappola, ciò che determina a priori e rende inevitabilmente tragico il destino di tutti.
Eppure nemmeno dire questo è sufficiente: debolezze, squallori e piccoli eroismi, egoismo, insensibilità, empatia, tutti i moventi e le emozioni dei personaggi coesistono, si mescolano, sfociano in alcune inaccettabili crudeltà, in qualche consolante dimostrazione di tolleranza, tutto può diventare - senza arbitrio - il proprio opposto. E nei romanzi di FS di Dick che ho amato di più, come Scorrete lacrime..., Un oscuro scrutare, La svastica sul sole - al di là della paranoia e in mezzo ad essa - esistono il medesimo rispetto e la medesima curiosità per le persone, che non giunge ad essere speranza ma è ugualmente struggente. La gente di Carquinez e di Montario che non riusciamo ad apprezzare fino in fondo, che ci suscita l'imbarazzato desiderio di volgere lo sguardo, di smettere di leggere, potremmo essere noi.
Un'ultima notazione: la postfazione di Brolli contiene il riferimento obbligato a L'Uomo dei giochi a premio, scritto nel medesimo anno de In terra ostile, più volte ripubblicato da Sellerio in questi mesi, e ripreso liberamente nel film Truman show. Mi chiedo perché invece non citare un romanzo realistico come Confessioni di un artista di merda, dove Dick fa un altro efficacissimo ritratto di donna, degno di Susan e di Sherry. È un peccato che nemmeno Voltolini lo citi, o faccia riferimento a un romanzo poco noto come L'Occhio nel cielo dove sono messe in scena fino alle estreme conseguenze e con effetti parodistici, che non sono estranei nemmeno a L'uomo dai denti tutti uguali, le visioni del mondo - radicalmente inconciliabili - di sette differenti personaggi. (gielle)

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P. K. Dick
LA PENULTIMA VERITA'
Mondadori Oscar 2000, ed. orig. 1964

Il tema è abbastanza abituale, almeno per Dick. L'umanità, rinchiusa in comunità sotterranee per sfuggire alla contaminazione nucleare provocata dalla guerra finale tra URSS e USA, è in realtà schiava di una surreale macchinazione, basata su prove audiovisive create da un esperto di comunicazioni ex-nazista stipendiato dalle élite dei due blocchi. Senza essere un romanzo basilare, La penultima verità presenta gran parte dei temi tipici dell'autore californiano: la menzogna che assurge a condizione di vita quotidiana, fino a divenire l'unica, paradossale condizione per l'esistenza, lo strapotere dei mezzi di comunicazione e la loro sistematica manipolazione ai fini del controllo sociale, la tecnologia come "doppio", ossia come personificazione della cattiva coscienza dell'umanità.
Ovviamente i richiami al peccato ed alla redenzione (sia pur falsa) costituiscono uno dei poli del romanzo, come è tipico di Dick, che ha sempre amato costruire i suoi romanzi su temi mistici e ontologici (e questa è probabilmente una delle chiavi del suo successo, detto per inciso). Sono argomenti con i quali noi laici preferiamo non misurarci ma che comunque finiscono per ritornare a galla, come il famoso cadavere gettato nella palude. In fondo tutti abbiamo fatto riflessioni ontologiche nel corso della nostra infanzia (a anche dopo), tutti ci siamo chiesto lo scopo del nostro passaggio in questo mondo.
Non sarà Dick a potervi fornire risposte, ma è bello sapere che altri laici si arrovellano su domande insolubili senza per forza dover scegliere tra una chiesa e l'altra. Forse è anche per questo che mi piace Dick. (M.G.)

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P. K. Dick
I GIOCATORI DI TITANO
Fanucci 2000, ed. orig. 1967
trad. Anna Martini

Pubblicato una prima volta da Galassia nel 1967, ripubblicato dall'editrice Nord nella mitica collana SF, narrativa di anticipazione (con traduzione di Lucia Morelli, ossia la traduttrice dell'edizione del '67) I Giocatori di Titano non è probabilmente uno dei migliori in assoluto dell'autore californiano. I gelatinosi alieni Vug, armati di poteri ESP, dotati del potere di condividere le proprie menti e di apparire in forma umana non sono il massimo di originalità nel campo della speculazione sulle intelligenze non-umane. Basti ricordare i vari Blob della cinematografia anni '50 o i «baccelloni» che proverbialmente imitano gli esseri umani per rendersi conto che Dick in questo caso ha giocato al risparmio. Altrettanto goffi e frettolosi gli accenni (inessenziali ai fini della trama) a una guerra sino-americana combattuta dai comunisti cinesi con strumenti barbari e criminali.
Ma, una volta scontati questi limiti, I giocatori resta un romanzo dotato di un ritmo eccellente e nel quale appaiono in modo nitido alcuni dei temi preferiti dal Dick successivo, quello del bellissimo Noi Marziani, per esempio.
La vicenda: in una Terra praticamente spopolata e divenuta un protettorato titaniano i proprietari terrieri umani (i «P») praticano quotidianamente un gioco - molto simile al nostro Monopoli - grazie al quale viene favorito lo scambio delle proprietà e delle coppie, una necessità in tempi di scarsa fertilità. Pete Garden, il protagonista, è un ottimo campione di personaggio dickiano: affetto da un costante senso di inadeguatezza, oppresso da manie suicidiarie, abituato al ricorso ad alcool e farmaci per tirare in qualche modo avanti.
Con tutti i suoi limiti, le sue nevrosi e la sua immaturità sarà proprio Garden, tuttavia, a organizzare la partita contro i giocatori di Titano, quella che ha per posta la sopravvivenza dell'umanità. L'esito della partita non sarà definitivo, comunque, ma soltanto l'ennesima ripresa di un incontro interminabile.
I personaggi sono semplici uomini e donne anni sessanta, impaniati in piccole convenzioni borghesi. Li si immagina facilmente in abiti troppo larghi, sfumatura alta, camicie bianche e cravatta e le donne con gonne lunghe a pieghe, camicette e scarpette scollate. L'effetto dell'incontro tra questa umanità convenzionale e i sardonici blob di Titano è, per il lettore, assolutamente dirompente. Chi scrive letteratura fantastica è obbligato a un surplus di attenzione verso la realtà perché la narrazione resti credibile. L'umanità salottiera di Dick che si ritrova ogni sera per dedicarsi a un gioco di società è l'ennesima felice rappresentazione del ballo nel salone di Titanic, ovvero di un'umanità ordinaria (del tutto simile a quella della Svastica sul sole), impegnata nei propri minuti traffici anche quando nulla è più - nè sarà più - come prima.
L'esistenza di questa tensione interna è una costante dei romanzi di Dick ed è probabilmente uno dei motivi per il quale le sue opere sono una forma di felicità per una certa categoria di lettori.
Da segnalare, infine, l'introduzione di Carlo Pagetti, rielaborata sulla base di quella a suo tempo scritta per l'edizione del 1980. Interessante e colta, anche se forse un pochino «ardita». L'interpretazione dei vug come principio attivo femminile, tanto per dire, mi ha lasciato piuttosto perplessa... (M.G.)

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P. K. Dick
MARY E IL GIGANTE
Fanucci, «Collezione», 2001, ed. orig. 1987
trad. Tommaso Pincio

Il Philip K. Dick autore di FS è abbastanza noto, ma non tutti (anzi, ben pochi) sanno che in parallelo alla produzione fantascientifica, Dick scriveva romanzi non di genere, sistematicamente bocciati dagli editori dell'epoca, quando scrivere letteratura di serie B era un marchio d'infamia per l'editoria seria. Adesso, invece… Non importa, non importa, non ho intenzioni di fare polemiche fuori dagli spazi della mia rubrica.
I romanzi «romanzi» di Dick stanno uscendo alla spicciolata, prima Confessioni di artista di merda, Fanucci (1996) [cfr. LN 36, vecchia serie], poi In terra ostile, Einaudi (1999) [cfr. LN 11], L'uomo dai denti tutti uguali, Fanucci (1999) [ibid.], fino a questo Mary e il gigante, uscito nel novembre del 2000.
La Mary del titolo ha diciassette anni e il suo nome completo è Mary Anne Reynolds (lo stesso nome della telepate minorenne de I giocatori di Titano). Vive in una piccola città, come un sacco di altri personaggi dei romanzi americani del dopoguerra, è fidanzata giusto perché uno straccio di fidanzato bisogna pure averlo e lavora in una piccola ditta. Il padre fa il meccanico ed è un individuo decisamente sgradevole, la madre è una donna astiosa e rassegnata. Mary Anne ama la musica e non riesce a rassegnarsi alla vita pidocchiosa che le è riservata: sposarsi, lavorare in ufficio, occuparsi dei figli e seguire passo passo il destino della madre.
Joe Schilling (anche questo è il nome di un personaggio de I giocatori di Titano) è un cinquantenne abbastanza facoltoso che decide di aprire un negozio di dischi nella cittadina di Mary Anne. I due si incontrano una prima volta, ma lei decide che Joe deve essere il tipo d'uomo che palpa il sedere alle dipendenti e cerca di portarsele a letto a fine orario e rinuncia a un lavoro per il quale sembra nata.
Si licenzia comunque dal lavoro di dattilografa, abbandona la famiglia e comincia a frequentare un «negro», un cantante che si esibisce in un locale della città. Fa, in sostanza, quanto di più sconveniente sia concepibile per una ragazza di quell'età in quegli anni. Le sue esperienze non sono particolarmente positive, comunque. Dopo una breve convivenza ritorna da Schilling e si fa assumere. Schilling è un uomo solo, che ha alle spalle relazioni sbagliate e storie non troppo pulite. Non è «quel genere» di datore di lavoro, ma è felice della compagnia di Mary Anne. Ha per lei un sentimento che sta a metà tra l'affetto paterno e il desiderio sessuale. Mary Anne ne è incuriosita, l'attrazione fisica non è per lei importante, ciò che conta, semmai, è
il lungo passato di Joe, la sua vita nelle grandi città americane, il rapporto di confidenza con la musica.
Non durano molto, insieme: Mary Anne non può tollerare un altro padre.
La rottura la conduce a una situazione apparentemente senza uscita. A concludere il romanzo un finale che, nella versione consigliata a Dick da un editor dell'epoca, ha un troppo evidente sapore di happy ending forzato, tanto più che – in origine – Mary Anne doveva alla fine scegliere di vivere con un pianista nero, una scelta che non doveva essere troppo gradita ai lettori bianchi dell'epoca.
Purtroppo, come apprendiamo leggendo l'introduzione, la versione originale del romanzo non è più disponibile e questa edizione è quella a suo tempo corretta da Dick per la possibile pubblicazione. Una volta rifiutata anche la seconda versione, all'autore californiano non restò che lasciar perdere la narrativa «seria». Una decina d'anni dopo, tuttavia, riesumò i personaggi di Mary Anne Reynolds e di Joe Schilling, dandogli un posto ne I giocatori di Titano, decisione che a me è parsa quasi commovente.
Mary e il gigante è un romanzo curioso per diversi motivi: a dominare la scena è un personaggio femminile, scelta inconsueta per un autore maschio di quegli anni. Non solo, nel romanzo «la brava gente che lavora» è acida, odiosa, frustrata, ottusa, violenta o semplicemente tanto grigia da scomparire sullo sfondo. Gli unici personaggi ben vivi sono dropouts come i musicisti amici di Mary Anne o gente con un passato da dimenticare come Joe Schilling. Mary, d'altro canto, non è il tipo di donna che «gioca sporco»: non chiede sconti, non si affida a nessuno. Conduce fino in fondo le proprie esperienze, anche se deludenti, e non rientra in riga.
Interessante come Dick non utilizzi quasi mai descrizioni dirette degli stati d'animo di Mary Anne, ma scelga di illustrarli facendo ricorso a gesti, movimenti, frasi, riflessioni e osservazioni legate a oggetti quotidiani, a piccoli fatti, a descrizioni attente e selettive.
Una tecnica che utilizzerà costantemente anche nei romanzi di FS, dove la quotidianità di oggetti e percezioni è un efficacissimo contrappasso a situazioni ed eventi assai poco usuali.
Se leggerete il libro, cosa che vi consiglio vivamente di fare, non aspettatevi comunque, di trovare simpatica Mary Anne. Non è una ragazza facile e non cerca complici né comprensione. Nemmeno dai lettori (M.G.).

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P. K. Dick
IN SENSO INVERSO
Fanucci, 2001, ed.orig. 1967

Allora. Si parla di In senso inverso, Fanucci, «Collezione», ed. or. 1967, trad. it. Paolo Prezzavento.
Un romanzo assurdo, completamente assurdo. Che anche a voler essere buoni non sta in piedi da nessuna parte. Eppure un gran libro, con quelle tre o quattro invenzioni che fanno perdonare tutte le assurdità che nemmeno il talento di Dick riesce a nascondere.
Sulla terra il tempo ha preso a scorrere in senso inverso. I morti risorgono dalle tombe, i vivi rimpiccioliscono fino a essere riassorbiti nell'utero e tornare anonimi ovuli e spermi. I libri pubblicati devono essere restituiti e cancellati, qualunque processo organico – compresi quelli legati all'alimentazione – debbono procedere in senso inverso.
La fase Hobart – come viene definito il processo – non si è ancora completata. Sulla terra coesistono i nati nel periodo precedente all'inversione e i rinati. Le compagnie di pompe funebri hanno adesso il compito di scavare per recuperare coloro che ritornano, mentre il desiderio sessuale incontrollabile di alcune donne è il sicuro indizio di un'imminente scomparsa.
In questo bizzarro mondo Sebastian Hermes, un rinato, conduce un Vitarium, ovvero una piccola società che ha per compito il recupero e la cura di coloro che sono appena ritornati dalla morte. Gli affari di Hermes non vanno troppo bene. Oltre a questo egli è innamorato di una donna parecchio più giovane di lui che, fatalmente, si avvia verso l'infanzia.
A Hermes capita una rinascita molto importante e molto pericolosa, quella di un leader politico-religioso il cui ritorno è atteso per motivi molto differenti da opposte fazioni politiche. Ente supremo del mondo inverso è la Biblioteca, istituzione divenuta fondamentale nel garantire l'ordinato procedere – anzi retrocedere – delle cose. Come spesso accade nei romanzi di Dick l'ente che riassume in sé il massimo potere procede per vie traverse e imperscrutabili e nasconde a tutti, ovviamente per il bene pubblico, il grado più profondo della realtà. A Sebastian Hermes, uomo mediocre, reduce dalla parentesi della morte che non è riuscito a renderlo migliore, il compito di affrontare senza comprenderle le regole rovesciate del mondo inverso.
Praticamente contemporaneo del capolavoro Ubik, Counterclock world è uno dei romanzi meno fantascientifici nella già poco fantascientifica produzione di Dick «Escursione nella dimensione del fantastico e nel gotico», scrive giustamente Carlo Pagetti nell'introduzione. Oltre a questo un romanzo votato in partenza al fallimento per l'impossibilità di raccontare in modo coerente e ragionevole un universo dal segno rovesciato. Ma i temi della rinascita, del ritorno, della necessaria morte di ogni trascendenza, della mediocrità di un ritorno annunciato, di una vecchiaia precoce e di un'infanzia tardiva sono largamente sufficienti a tenere il lettore incatenato alla pagina, un po' incredulo e un po' affascinato. Anche per me, che sono letteralmente invecchiata sulle pagine di P.K. Dick, risulta difficile spiegarmi il fascino di un romanzo tanto sghembo e assurdo. Posso solo supporre che il fascino nasca dalla capacità di ampliare il valore metaforico e straniante tipico della FS fino a lambire i territori della nascita e della morte, rendendoli curiosamente nuovi e inesplorati. Da questo punto di vista In senso inverso è un romanzo davvero esemplare nell'illuminare il percorso tipico della narrazione speculativa. Nulla di quanto ci circonda e che riteniamo familiare dev'essere dato per compreso in maniera definitiva. È sufficiente un perché privo di risposta a ricondurci all'inizio del gioco.(M.G.)

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P. K. Dick
UN OSCURO SCRUTARE
Fanucci

A Scanner Darkly di P.K.Dick ha avuto una lunga e complessa vicenda editoriale in Italia. Uscito una prima volta con il titolo Scrutare nel buio, edito dalla Nord nella gloriosa collana "Anticipazione" è andato esaurito una prima volta ed è virtualmente morto con la fine della collana. É stato ripubblicato alla fine degli anni '80 dall'editore Cronopio, che successivamente ha cessato le pubblicazioni, fino ad approdare, dopo ben due morti, a Fanucci che l'ha ripubblicato quest'anno con il titolo Un Oscuro Scrutare, ossia con lo stesso titolo (e lo stesso traduttore) dell'edizione Cronopio.
A Scanner Darkly è stato scritto da Dick all'indomani del periodo di tossicodipendenza e di recupero in una comunità californiana ed è un formidabile romanzo sulla tossicodipendenza, una testimonianza del mondo visto "dall'altra riva", quella dei tossico.
«... É un romanzo che riguarda alcune persone che sono state punite eccessivamente per quello che hanno fatto. » Scrive Dick nella nota al testo. « ... Per un certo lasso di tempo noi tutti siamo stati davvero felici... ma questo lasso di tempo è stato terribilmente breve e la punizione che ne è seguita è stata al di là di ogni immaginazione.»
Il protagonista del romanzo Bob Arctor, agente della narcotici infiltrato nel mondo dei tossicodipendenti, è egli stesso vittima della dipendenza e gradualmente ne presenta i sintomi, dapprima la scissione e quindi la disintegrazione della personalità. La droga della quale fanno uso Arctor e gli altri personaggi è la sostanza M(orte), (SD nell'edizione originale), una droga di sintesi di produzione industriale. Il compito di Arctor e degli altri agenti della narcotici infiltrati nel mondo dei tossico e degli spaccia è quello di determinare quale sia la grande organizzazione industriale che la immette nel mercato.
L'ambiguità del protagonista e della sua missione finisce ben presto per sfumare nell'ambiguità della società nella quale si muove, un'America fortemente polarizzata da un punto di vista sociale - divisa tra «gente per bene» e «cervelli spappolati» - dai connotati autoritari e regolata da una fitta rete di comportamenti paranoidi.
A Bob Arctor (Fred per gli altri agenti) protetto da un anonimato tecnologico - la tuta disindividuante - viene ordinato di sorvegliare i comportamenti del tossicodipendente Bob Arctor, sospettato di essere l'anello di congiunzione tra lo spaccio di dimensioni medie e i grandi trafficanti. Ciò che assumerebbe sfumature paradossali in un altro autore in Dick diventa, per quanto assurdo, modo di indagine del mondo. Arctor, con il cervello minato dalla sostanza M diventa così il proprio guardiano, l'osservatore inchiodato davanti a un monitor che ritrasmette la vita del proprio sé fittizio.
Gradualmente la personalità di Arctor si scinde, si frantuma, si autoelide, preda di comportamenti antitetici. Il tessuto delle percezioni diviene incerto, i ricordi proliferano senza più poter essere catalogati come reali o irreali. La realtà finisce per collassare e Arctor accetta il destino di vittima della sostanza M, senza possibilità di recupero.
Viene ricoverato in un centro per la disintossicazione. Le sue emozioni sono divenute elementari. Non soffre perché la scissione con i suoi precedenti sé è divenuta completa. Ma qui l'attende l'ultima e più definitiva scoperta, la beffa che rovescia definitivamente il senso del suo mondo (e probabilmente almeno in parte del nostro).
A Scanner Darkly è uno dei romanzi più intensi e suggestivi di P.K.Dick: il racconto della vita inquieta e balbettante del piccolo gruppo di tossici del quale fa parte anche Arctor non ha nulla del romanticismo idiota e vagamente morboso con il quale spesso si ammantano le storie di droga. Dick racconta con apparente freddezza di persone che si sforzano di conservare i propri legami con la realtà, ne descrive le grandi e piccole meschinità, i rari momenti di allegria, l'aggressività, il costante senso di smarrimento che rende ogni loro gesto fragile ed unico.
Non è un romanzo che si riesca a dimenticare. L'ho letto per la prima volta a vent'anni e posso dire che non mi ha mai abbandonato. Davvero non è poco.

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