Speciale nipponica

 KAGE 1 

Recensioni

RECENSIONI

ISHIGURO KAZUO

UN PALLIDO ORIZZONTE DI COLLINE

Einaudi 1991 - pp. 175 L. 26.000 e Einaudi Tasc. 1995 - L. 13.000

«Una sfavillante, anche se quasi invisibile rete di immagini» così il recensore di "Spectator" definì il romanzo. L'autore, infatti, ha una mano così lieve che i ricordi in cui si rifugia Etsuko, la vedova giapponese che si è trasferita in Inghilterra dopo il suicidio del figlio maggiore, si dipanano limpidi e senza angoscia, gettando luce poco a poco su anni tragici come il primo periodo della ricostruzione a Nagasaki, sulla sensazione di precarietà, su radicali che gli anziani mai avrebbero immaginato di vedere, sulla necessità - oltre che sulla volontà - di dimenticare, di non voltarsi indietro, di adeguarsi all'Occidente, ai vincitori americani. Già per questo contributo il breve romanzo sarebbe prezioso, ma Ishiguro, consapevole che per narrare tempi terribili il realismo non è sufficiente, non ci propone una storia (soltanto) realistica: tessendo una rete tenuissima ma irresistibile ci conduce a porre domande radicali sulla realtà e sul livello di comprensione che ognuno di noi può raggiungere.

(Silvia Treves da LN 28 - 1992)

ISHIGURO KAZUO

UN ARTISTA DEL MONDO EFFIMERO

Einaudi 1994 - ed. orig. 1986 - pp. 204 L. 22.000

Scritto qualche tempo prima di "Ciò che resta del giorno", il romanzo è la rievocazione in chiave autobiografica della vita privata e pubblica dell'anziano pittore Ono Masuij Ono, celebrato artista di regime negli anni precedenti la guerra, messo poi in disparte come scomodo testimone di un periodo che le nuove generazioni criticano apertamente e tutti vogliono dimenticare.
Pacato e splendidamente ambiguo, Ono racconta ad un immaginario interlocutore - che non diviene mai personaggio - le vicende familiari dell'immediato dopoguerra. Le difficili trattative per il matrimonio della secondogenita, l'imbarazzante primo incontro ufficiale tra i due promessi, l'ultimo colloquio con il vecchio conoscente Matsuda, forniscono a Ono occasioni per digressioni sulle sue prime esperienze giovanili, sulla pittura, sulla lunga collaborazione con Mori, il pittore del mondo effimero delle case di piacere - sensei geniale ma incapace di accettare la retorica patriottica di regime - sui rapporti camerateschi con i discepoli, sulla rottura con conoscenti e amici a causa delle proprie scelte politiche. Ono si muove come un acrobata inconsapevole, camminando lieve sul filo dell'ambiguità. La sua versione dei fatti minimizza e giustifica sempre errori e scelte sbagliate - di cui invariabilmente si dichiara pentito - con la buona fede: avrebbe sbagliato per amor di patria, anche quando ha educato a quegli ideali anche Kenij, l'unico figlio maschio, morto in Manciuria; quando ha segnalato alle autorità il suo migliore amico come dissidente, rovinandogli la carriera; quando ha indirizzato verso quei valori anche i discepoli, sino a mutare la loro e la sua pittura in iconografia di regime...
Ora che il vento è cambiato, Ono è ufficialmente in pensione, disposto a farsi da parte per lasciare posto ai giovani, a riconoscere pubblicamente i propri errori per liberare dalla loro ombra il futuro della figlia. Ma Ono non sa, non può, non vuole, cogliere le allusioni e le domande di figlie e generi, si stupisce del rancore del compagno denunciato, e sottrae ostinatamente i propri ricordi al confronto con quelli altrui, limitandosi a fornire al lettore la sua tranquilla, distaccata, ripulita versione.
E il lettore, poco per volta, comincia a dubitare, a chiedersi se Ono sia stato davvero un grande artista, lo Strumento della propaganda di regime e non, piuttosto, una semplice pedina insieme a tante altre, così poco significativa che ormai nessuno, se non chi si è sentito personalmente tradito negli affetti, vuole più presentargli il conto. Anche i lettore vorrebbe chiedere a Ono, come Setsuko, la primogenita: « Non riesco a capire perché la carriera di Papà avrebbe dovuto avere qualche particolare attinenza con le trattative matrimoniali [...] Sembrerebbe che il dottor Saito non sapesse nulla dei legami di Papà con il mondo dell'arte [...] Mai nessuno ha pensato che il passato di Papà potesse essere oggetto di recriminazione» e ricordargli, come ha il coraggio di fare Matsuda, che « oggi nessuno, si cura di quello che fecero allora persone come lei e me. Ci guardano e vedono soltanto due vecchi con i loro bastoni»

(Silvia Treves da LN 32 - 1995)

ISHIGURO KAZUO

GLI INCONSOLABILI

Einaudi 1995 - pp. 511 L. 34.000

Romanzo molto suggestivo, insieme diverso e simile ai precedenti "Ciò che resta del giorno" e "un artista del mondo effimero". Ad accomunarlo ad altre opere di Ishiguro sono la descrizione minuziosa della visione del mondo del protagonista la capacità sorprendente di renderne il punto di vista parziale e distorto, l'attenzione maniacale per le parole. Ciò che lo rende inconsueto è l'accentuazione nettissima dell'atmosfera onirica, lo straniamento del protagonista che presto investa anche il lettore, l'evocazione sapientemente costruita di livelli di realtà e di significato molteplici, incastonati gli uni negli altri, inseparabili e spesso non raggiungibili. La realtà esperita dal pianista Ryder - giunti in una città indefinita dal sapore mitteleuropeo per tenere un concerto - cambia in maniera impercettibile ma significativa con il procedere lento della narrazione e con essa cambiano e ricordi e la percezione di sé dell'uomo, che da estraneo si trasforma in una sorta di terapeuta cui gli abitanti raccontano i propri guai e da cui l'intera comunità si attende una magica guarigione dai conflitti e dalla decadenza. Ben presto il lettore si rende conto che, diversamente dagli altri romanzi dell'autore, qui gli è impossibile arguire, dalle dichiarazioni ambigue e parziali di Ryder sul proprio passato, come egli veda il mondo, come abbia vissuto. Tutto è fluido attorno a lui e dentro di lui, il mondo del pianista sembra rispondere a nessi causali sottilmente differenti da quelli che c sono familiari.
Vengono così a configurarsi due diversi piani di lettura, due interfacce non sovrapponibili che connettono rispettivamente Ryder al suo mondo e il lettore alla realtà del pianista. Non si tratta soltanto della inaffidabilità di Ryder in quanto narratore di se stesso, a questo Ishiguro ci aveva già abituati i suoi personaggi sono funamboli del ragionamento specioso. È l'intera realtà di Ryder a non essere affidabile. Questo progressivo straniamento, che al lettore italiano ricorderà autore come Buzzati, apparenta il romanzo alle migliori opere di fantastico ottocentesco e a certa fantascienza (devo fare il santo nome di Dick?), ed è un esercizio non sterile di metanarratività che conduce il lettore a interrogarsi su quanto sia labile la propria presa sul reale. Nessuna meraviglia che il testo di Ishiguro sia stato tacciato di eccessiva letterarietà (es. G. Bertinetti su "Linea d'Ombra" novembre 1995). Sorge comunque il dubbio che molti recensori nostrani rifiutino ostinatamente di cogliere e di apprezzare l'uso di elementi di letteratura fantastica, anche quando è così abile, per parlare della realtà umana.

(Silvia Treves da LN 35 - 1995)

MISHIMA YUKIO

UNA STANZA CHIUSA A CHIAVE

ES 1997 - pp. 71 L. 16.000 e Mondadori Oscar 1994 - L.9.000

«Era il 10 febbraio 1948. Due anni e mezzo dopo la disfatta tutti vivevano affamati, appassionatamente immersi nelle cose cattive, sempre più protesi verso il gioco d'azzardo e le ruffianerie [...] Tutti avevano un volto dal brutto colorito e tutti vivevano con grande vitalità, provando un estremo piacere ad arrangiarsi
«Esistono uomini che non hanno alcuna fretta. Godono fama di essere sicuri di sé. Restano in attesa, oscillano con indolenza come carte moschicide, che le vite degli altri vi s'invischino, come mosche. Uomini simili concludono la loro esistenza convinti che le mosche siano stupide. Ma in realtà ne esistono anche di intelligenti, che non finiscono sulla carta moschicida».

Racconto breve, intenso, nel quale nulla accade e tutto viene visto e percepito con lucidità che sconfina nella follia, disgusto affascinato per i particolari volgari della corporeità altrui, desiderio di perdersi e di sporcarsi che convive con l'aspirazione all'ascesi, bisogno di ordine e attrazione per il disordine. Il clima interiore e quello esterno del disastroso primo dopoguerra sono in consonanza: caos e violenza fuori - l' "anarchia" sul quale il protagonista fantastica a non finire - l'immaginaria "inflazione", metafora di ciò che sta per divenire il Giappone, del dissolvimento di ogni valore, risultato temuto e insieme desiderato, tema quasi ossessivo per Mishima, che lo ha affrontato già in "Confessioni di una maschera".
Profanare, "lacerare la piccola Fusako, figlia dell'amante defunta - lolita maliziosa come tutte le bambine, e ansiosa di entrare nel mondo degli adulti vivendo le misteriose esperienze della madre proprio con l'amante di lei - diventa per Kazuo il perno delle fantasie, l'atto di trasgressione per eccellenza, che lo fatò finalmente precipitare dall'altra parte, nel nuovo Giappone, recidendo legami, rimpianti, pastoie, consumando la vera lacerazione.

(Silvia Treves da LN 28 - 1994)

MURAKAMI RYU

BLU QUASI TRASPARENTE

Rizzoli pp. 231 L. 20.000 (attualmente non più in catalogo)

Qualcuno si è finalmente preso il disturbo di tradurre questo testo di Murakami Ryu (da non confondere con Aruki, autore di "Tokio blues") a suo tempo vincitore nel 1976 del Premio Akutagawa.
Ora voi direte: "Cos'ha di tanto bello questo libro, di un giapponese, per giunta?". Bene, la risposta è molto semplice: praticamente tutto. Buona parte del testo non è né gradevole né consolante, il protagonista è un debole, sbandato, infestato da amici altrettanto insulsi e disperati, dedito in loro compagnia all'uso e all'abuso di droghe e psicofarmaci di ogni genere, spasmodicamente alla ricerca di emozioni e brividi da un sesso brutale ed esibizionista. I temi come si vede sono molto noti e per alcuni versi sfruttati fino alla nausea, ma è qui che emerge la differenza tra un vero scrittore ed un qualunque cretinetti a corto di idee, strapompato da una casa editrice priva di talenti. Nel raccontare queste storie di nausea, di sballi, di scopate finite male, di soliloqui e di dialoghi di gente al capolinea ù, Murakami raggiunge una potenza ed un'incisività uniche. Il mondo che racconta esce letteralmente dalla pagina, invade la quieta, consolidata calma del vostro mondo quotidiano, obbligandovi a riflettere, a rabbrividire, a pensare che anche quel mondo esiste. Ad un risultato di tale suggestione è quasi giunto in Italia solo Andrea Pazienza, attraverso le sue tavole a fumetti (Le avventure di Zanardi), pur senza cogliere così chiaramente il vuoto, l'assenza che formano la sostanza di alcune vite.
Ma una delle cose più interessanti di Murakami è la capacità di inserire tra le sue pagine più crude momenti di poesia struggente, riflessioni e descrizioni (le une colorano le altre, com'è tradizione della narrativa nipponica) intense e delicate, segno questo di una maestria narrativa che cerchereste inutilmente in molti autori decisamente più noti.
Un libro che vuole raccontare, e il bello è che ci riesce davvero, il male di vivere dei più deboli, e forse dei più sensibili o soli, in quest'ultimo scorcio di secolo. Non perdetelo, perché non si tratta di un libro come tanti, nato, per così dire, già dimenticato.

(Massimo Citi LN. 25-26 1993)

SOSEKI NATSUME

GUANCIALE D'ERBA

L'Ottava pp. 182 - L. 24.000 (attualmente non più in catalogo)

Molto meno narrato del precedente "Anima", questo testo di Soseki è una lunga riflessione sulla vita umana, cui gli incontri fatti dal narratore - pittore e viaggiatore per diletto - offrono spunti e suggerimenti. Il tocco è lieve, le osservazioni pregnanti, esattamente come in uno degli haiku disseminati nel libro. Bello.

(Massimo Citi LN 24 - 1993)

EDOGAWA RAMPO

IL MOSTRO CIECO

Marcos Y Marcos pp. 155 - L. 16.000

L'autore è uno dei fondatori della letteratura poliziesca in Giappone e si è spesso cimentato nel racconto fantastico (il suo nome è un omaggio a Edgar Allan Poe di cui è una trascrizione in giapponese). In realtà, in questo romanzo breve, trascende ampiamente entrambi i generi conducendoci nella mente di un personaggio - il "mostro cieco" appunto - ben deciso a supplire con il tatto all'impossibilità di provare piacere guardando, e a trasformare la ricerca del godimento in un'arte che ha per oggetto le forme, la consistenza della materia, la vibrazione della sostanza, la temperatura dei corpi, e del "corpo" per eccellenza, quello femminile.
Dopo aver raggiunto una conoscenza sublime del corpo femminile improvvisandosi massaggiatore, il mostro continua ad affinare la sua arte con modelle che, benché disgustate dalla sua bruttezza e da una indefinibile ma chiaramente avvertibile equivocità di modi, non sono poi così contrarie a collaborare...
La ricerca continua, motivata da una "fame" crescente, davanti a cui ogni considerazione etica viene meno: tutto deve essere provato e "sentito", anche le contrazioni dei nervi nella sofferenza, anche lo sgorgare quasi inavvertibile del sangue. Dopo aver edificato un tempio sotterraneo simile ad un girone dantesco, il mostro riuscirà a lasciare ai posteri un'opra d'arte davvero singolare.
Ottimo ritmo, buona tenuta, capacità di evocare atmosfere oniriche e allucinate. Rampo è, a suo modo, un classico, un grande.

(Silvia Treves da LN 29 - 1994)

MIYAZAMA KENYI

UNA NOTTE SUL TRENO DELLA VIA LATTEA e altri racconti

a cura di G. Amitrano

Marsilio Mille Gru 1994 - pp. 175 L. 16.000

Un regalo di compleanno e - per me - una rivelazione.
Miyazama Kenyi è uno scrittore di "dowa" (fiabe, e letteralmente: racconti per bambini), un termine che sta decisamente stretto a questi racconti, sia per le loro molteplici risonanze filosofiche e religiose e per le metafore complesse che intessono ogni pagina, sia, soprattutto, per la sorprendente capacità dell'autore di evocare immagini, per la fusione felicissima di amore degno di un naturalista per i dettagli e di sensibilità per i colori e luce che rivelano la sua passione per la pittura.
Miyazama è buddhista; l'insegnamento religioso restò sempre per lui un ideale di vita cui conformarsi e da testimoniare nella scrittura, che talvolta (soprattutto nelle prime stesure, poi variate) è un po' appesantita da intenti didascalici, da eccessivi simbolismi. Non lasciatevi scoraggiare e leggete i suoi dowa fino alla fine; quando le immagini nitide come lame e insieme abbacinanti e imprecise come luci, avranno preso possesso di voi, la memoria non tratterrà il messaggio razionale ma la luminosità della via Lattea attraversata dal più incredibile dei treni, la pioggia di aironi canditi, l'ingenua betulla che trema sulla collina e la volpe dandy con il suo elegante pastrano rosso, abbandonata nella morte... e le rosse sfumature della dalia, la maestosa compassione degli orsi verso il cacciatore morto, il gioco di luci sul fiume buio che affascina due piccoli granchi in una notte d'estate. Non dite che è poco, Kenyi scrive come se dipingesse, a pennellate sottili. Leggerlo regala emozioni complesse, che troppi scrittori - e troppi lettori - tendono a sottovalutare.

(Silvia Treves LN 31 - 1994)

IZUMI KYOKA

IL MONACO DEL MONTE KOYA e altri racconti

Marsilio Mille Gru - L. 19.000

Figura singolare e di difficile collocazione nella letteratura giapponese, Izumi esordisce come scrittore fortemente critico verso la società, particolarmente nei confronti della guerra e dell'istituzione matrimoniale, troppo spesso subita dalla donna, che ne è l'anello più debole. Ben presto però segue percorsi estremamente personali che lo porteranno a privilegiare il fantastico, l'ambiguità, il finale aperto. Perno della sua narrazione è quasi sempre una figura femminile, capace di abbandonarsi alla passione e di comunicare con il mondo naturale che l'uomo non comprende più e perturba con la sua sola presenza. La tensione del racconto scaturisce dal confronto tra questo elusivo universo femminile e un giovane protagonista, sospeso ancora tra ricerca della madre e desiderio sessuale.
Le donne di Kyoka sono figure complesse e sfaccettate: fragili vittime del mondo maschile, disprezzate se non lo vogliono condividere, ma anche Signore che esercitano arcani poteri sulla natura o, ancora, pacate reggitrici dell'equilibrio maschile. Il ragazzo, nonostante il bisogno di affidarsi ad una madre e il desiderio che prova per la donna non riesce mai a condividere il suo mondo: i protagonisti maschili di Izumi non possono fermarsi, la loro unica scelta onesta è il viaggio, l'allontanamento.
Lo stile evocativo, levigato, elegante, sempre sospeso sul manierismo, si giova di artifici letterari di ogni genere: inversioni grammaticali, flashback, movimenti a ritroso nel tempo e digressioni che non consentono al pur bravo traduttore di restituirci completamente il talento di Izumi.
Il racconto più equilibrato e riuscito della raccolta è proprio "Il Monaco del monte Koya", rievocazione da parte di un monaco saggio e colto dell'incontro di tanto tempo prima con una sconosciuta affascinante. La donna vive in armonia con una natura arcana e sfuggente che rifiuta l'intrusione degli umani; franca e insidiosa, materna e sensuale, disponibile e inafferrabile, padrona assoluta del proprio destino, lei offre al giovane monaco di fermarsi. La tentazione è quasi irresistibile e il monaco vi si sottrae con dolore, scegliendo - come farà nuovamente da anziano - il confronto impossibile e diretto con il mondo naturale incomprensibile ed estraneo.

(Silvia Treves da LN 32 - 1995)

IBUSE MASUJI

LA PIOGGIA NERA

Marsilio pp. 408 - L. 24.000

La fine del Blocco Orientale e l'affermarsi di un Mondo Unipolare hanno più rimosso che risolto il problema degli armamenti atomici e, più in generale, di tutto ciò che rientra (tecnologie, ricerca, investimenti) nella definizione di "nucleare".
Sono passati ormai 48 anni dal primo impiego bellico di una bomba atomica, ma il senso di ciò che è avvenuto sembra, con il passare degli anni, farsi meno limpido e concreto, perdere sostanza, quasi fosse un tema da lasciare ad esperti storici. Eppure questo secolo trova nello sterminio razziale e politico di ebrei, zigani, omosessuali ed antifascisti e nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki i due fenomeni che più profondamente ne descrivono dinamiche e pulsioni, che meglio disegnano i limiti del pensiero borghese che l'ha dominato, entrambi accomunati dalla sostanziale inadeguatezza della parola a colmare lo spazio aperta tra realtà e ricordo. Narrare ciò che non può essere narrato è la sorte non solo degli autori giapponesi di Genbaku Bungaku (letteratura sulla Bomba), ma - qui in Europa - di tutti coloro che si sono sforzati di descrivere l'orrore quotidiano del Campi di Sterminio. Ed il raccontare di fronte ad una sofferenza tanto superiore alla categorie umane si perde, esita, si scioglie in momenti più o meno cruenti o raccapriccianti, si disperde un particolari, minuzie, talvolta struggenti, talvolta grottescamente comiche, che assediano l'Evento, ne disegnano i contorni senza riuscire a penetrarvi.
All'interno di queste coordinate sta il libro di Ibuse Masuji: un racconto quanto più possibile corale, nitido e scarno, come può esserlo una cronaca fedele ed attenta, ma in grado di raffigurare solo per vie traverse, per approssimazioni.
Il titolo del libro, "Kuroi Ame" - Pioggia nera - metafora della fall-out atomico, definisce con precisione, unendo alla parola pioggia - simbolo di purezza nella tradizione Shinto - il nero della morte, il senso di un sovvertimento dell'ordine naturale delle cose. Per rievocare l'esperienza di Hiroshima, Ibuse ha scelto di raccontare la vicenda della nipote del protagonista, Yasuko, che no riesce a trovare marito perché ritenuta vittima degli effetti delle radiazioni. Di fronte ad un'ennesima proposta di matrimonio ritirata, lo zio di Yasuko decide di utilizzare il diario di lei come prova della mancata esposizione e lo ricopia accludendovi anche il proprio. Ma con il procedere della narrazione il pretesto della copiatura mostra il proprio limite di artificio letterario e mentre il diario si fa incalzante, drammatico, le interruzioni al presente del testo suonano quasi moleste, tanto che è l'autore stesso a renderle sempre più brevi, appena accennate.
Colpisce il tono dimesso, quasi ordinario (il medesimo dei molti che hanno raccontato dei Campi di sterminio) con il quel vengono descritte le vicende degli hibakusha (i sopravvissuti) e le loro sofferenze, il degrado immediato dei comportamenti, delle dinamiche sociali, ridotti a un insieme di pochi gesti e poche parole nei quali si trovano insieme, grottescamente deformate, le regole quotidiane del vivere e la nuova urgenza di salvare se stessi ad ogni costo. Non manca la solidarietà, né l'ansia di comunicare, di ricostruire, spesso più vicina ad una pulsione suicida, tanto da spingere uomini moribondi a tentare di ricostruire muri, sgombrar dai calcinacci i resti della propria casa o a rendere nuovamente agibili ponti e vie.
Ma la condizione prevalente è di rassegnata sofferenza, un lasciarsi cadere nella corrente in attesa di scomparire. Il mondo quotidiano, nel diario di Shizuma, ha improvvisamente perso consistenza e il nuovo mondo che lo ha sostituito non sembra più possedere regole intelligibili: è il mondo degli aukurikokuri (i mostri che spaventano i bimbi), un mondo dove l'Uomo Nero e il Babau sono divenuti reali, privi delle caratteristiche affettuose legate al ricordo e carichi della oscura malignità che l'età infantile attribuisce loro.
Il cibo, la raccolta, la preparazione, la consumazione, i sapori, la consistenza, sono temi insistiti, ricorrenti. Quando il protagonista si muove attraverso la città distrutta, ne porta sempre con sé piccole quantità, e si preoccupa di segnalarlo, quasi fosse rimasto solo il cibo a designare una condizione di realtà, un debole legame con il mondo. uguale funzione hanno il lavoro e la fabbrica. Molti operai e impiegati l'indomani del bombardamento raggiungono il posto di lavoro nella speranza di riprendere l'attività. La facile ironia sull'attaccamento degli operai giapponesi sarebbe davvero fuori luogo: basta pensare alla difesa delle fabbriche da parte degli operai italiani nel 1945. Il lavoro è, piuttosto una definizione, la garanzia di un'identità, e la fabbrica il luogo deputato alla socialità quotidiana, del quale non si può fare a meno. Il sesso è invece semplicemente scomparso dall'orizzonte del reale, la nudità, condizione normale per i sopravvissuti, evoca non desiderio ma l'essere inermi, indifesi, la fragilità dell'essere umani. Ed è proprio questo elemento di vuoto, di allucinata frattura dell'ordine sociale e naturale, che rimanda ad uno degli autori più peculiari della fantascienza degli anni sessanta: James Ballard. Il suo ciclo di romanzi incentrati su eventi catastrofici e di dimensioni planetarie è uno dei pochi tentativi riusciti di rendere il frantumarsi dell'ordine naturale e il disperdersi dell'individualità - letteralmente dell'anima - al di fuori delle coordinate sociali consuete. Come per Ballard, al centro della narrazione di Ibuse Masuji - originariamente autore di fantastico - sta, inattingibile e incomprensibile, l'Evento, la Bomba, con il suo intreccio impossibile da dipanare di sofferenze e dolore, rievocato con frammenti di vicende personali per sfuggire all'anonimato della sciagura collettiva, che dividerebbe, invece di moltiplicarla, la compassione di chi legge.
Un'ultima considerazione sulla cura dell'edizione italiana, testimoniata dall'ottima prefazione della traduttrice e dall'apparato di note che arricchisce il volume.

(Massimo Citi da LN 27 - 1993)

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