Scrivi ai Librivendoli

Abbiamo qui raccolto una serie di articoli apparsi sulla Rivista LN -LibriNuovi nel periodo compreso tra l'autunno 1996 e l'inverno 2001.

Crediamo abbiano costituito, nel loro costante riferimento alla situazione commerciale e distributiva del libro in Italia, una prima introduzione ai problemi che abbiamo di fronte, e - insieme - presentino un quadro di insieme in termini di dati, cifre e osservazioni dal quale riteniamo essenziale partire per una riflessione non superficiale sullo "stato" del libro in Italia.

Indice articoli

  • I Librivendoli. Protagonisti e comparse: piani di sviluppo e censura del mercato - da LN 17 - primavera 2001

  • Febbraio 2001: la legge sul libro - da LN 17 - primavera 2001

  • I Librivendoli: Arrivano i loro!! - da LN 16 - inverno 2000

  • I Librivendoli: A sud del libro. Librerie, editori ed intervento pubblico nel mezzogiorno italiano - da LN 16 - inverno 2000

  • Book o e-Book di Alfredo Salsano - da LN 15 - autunno 2000

  • I Librivendoli: Il prezzo della lettura - da LN 15 - autunno 2000

  • I Librivendoli: Slow Book. Come si costruisce un Arcipelago - da LN 14 - estate 2000

  • Lettera aperta all'Associazione per il libro, agli editori, ai colleghi, ai promotori, ai lettori

  • I Librivendoli: Rottamiamo le promozioni - da LN 13 - primavera 2000

  • I Librivendoli: Tirature: quando le librerie? - da LN 13 - primavera 2000

  • Dalla prefazione di Alfredo Salsano al libro L'Editoria senza Editori di Andè Schiffrin

  • I Librivendoli: La cultura della rotazione - da LN 12 - inverno 1999

  • Redazione LN - LibriNuovi: da lettori irriducibili a lettori (r)esistenti - da LN speciale librerie - primavera 1999

  • I Librivendoli: Marzo-Maggio 1999. Librerie Indipendenti: le ragioni per (r)esistere - da LN speciale librerie - primavera 1999

  • I Librivendoli: Libri subito o mai più, una risposta a Luciano Mauri - da LN 9 - primavera 1999

  • Intervista a Giuliano Vigini - da www.alice.it - febbraio 1998

  • I Librivendoli: L'importante è far finta di nulla - da LN 8 - inverno 1998

  • I Librivendoli: Vivere vendendo (e leggendo) libri - da LN 7 - autunno 1998

  • Ci pensiamo un'altra (s)volta. Paperone Qfwfq e i bilanci degli editori - da LN 6 estate 1998

  • Crepare d'abbondanza. Ovvero: della morte dell'editoria per eccesso di pubblicazione - da LN 3 - autunno 1997

  • Le letture del libraio. Il mestiere del libraio e la sua formazione culturale e professionale - da LN 3 - autunno 1997

  • Compiti a casa - da LN 2 - estate 1997

  • La libreria No Future - da LN 38 / zero - inverno 1996

  • HomePage

    Redazione di LN – Librinuovi da lettori irriducibili a lettori (r)esistenti

    Forse lo sapete già, ma LN-LibriNuovi è nata molti anni fa (era il 1987) come impresa comune di un gruppo di lettori, clienti e soci di una cooperativa libraria: la CS- Cooperativa Studi..

    Qualche anno fa, dopo un lungo rodaggio durante il quale altri lettori si sono aggregati a noi, offrendo nuove competenze e nuovi punti di vista, ci siamo sentiti più forti, abbastanza da diventare una vera, anche se piccola, rivista, indipendente e presente anche in altre librerie, che resta legata da rapporti di amicizia e di collaborazione con la CS, il nostro editore

    La nostra esperienza positiva potrebbe essere semplicemente una storia simpatica, che riguarda soltanto chi l'ha vissuta e continua a farne parte. Invece, con i tempi, che corrono è una testimonianza di resistenza, la dimostrazione che un'iniziativa collettiva con un chiaro interesse (leggere e discutere di libri) e rifiuti altrettanto netti (non siamo soddisfatti di come se ne scrive e se ne parla in giro) può riuscire, anche se l'obiettivo (produrremo da soli una rivista "diversa" e più soddisfacente) può apparire sproporzionato alle forze.

    Al di là delle nostre specificità (una redazione iniziale di formazione prevalentemente scientifica: grande interesse per le letterature di genere... ) credo che le nostre carte vincenti siano state:

    1) un insieme di competenze e interessi molto vario (tra noi vi sono biologi, medici e operatori sanitari, insegnanti di varie discipline, ingegneri, chimici, una laureata in giurisprudenza, una laureanda in filosofia teoretica, una linguista ecc), difficile da armonizzare all'inizio ma, per sua stessa natura, aperto e possibilista. Tanto da consentirci di integrare senza scosse nuove entrate, nuove collaborazioni, contributi centrati sull'attualità e non esclusivamente sui libri. Essendo nati all'ombra di una cooperativa libraria, l'interesse per il libro anche come prodotto era scritto nel nostro codice genetico: molto presto abbiamo cominciato a ospitare interventi di "esperti" (ovvero librai, traduttori, ecc) fino a farne una presenza stabile e caratterizzante delle nostre pagine.

    La mancanza di redattori esperti, un'apparente debolezza, si è rivelata invece una preziosa peculiarità: siamo dilettanti specializzati soltanto in lettura. Questo non ci esime dalla professionalità. Considerare i lettori più ingenui, faciloni, di bocca buona degli esperti è un pregiudizio (oltre che un errore commerciale). E dilettantismo non è sinonimo di pressapochismo - o almeno non dovrebbe esserlo. Non lo è, comunque, nel nostro caso. Sicuramente le nostre recensioni sono discutibili come quelle di chiunque altro, una recensione riflette sempre e comunque, i gusti e le esperienze del recensore. Ma lavoriamo seriamente, leggiamo i libri dall'inizio alla fine, ci documentiamo, partecipiamo a seminari di lettura.

    Essere non esperti, dilettanti, significa fare per passione, in questo caso pretendere di provare piacere leggendo. Da dilettanti siamo più esigenti e abbiamo meno obblighi, non conosciamo e non vogliamo difendere, nemmeno inconsapevolmente ambienti, amici, privilegi di casta. Mantenere comunque la dimensione ludica del nostro impegno è fondamentale, abbiamo cominciato divertirci insieme - anche fare bene un lavoro può essere divertente - vogliamo continuare così.

    2) La seconda caratteristica è, credo aver dato una risposta apparentemente stravagante ad un problema serio. E' innegabile che in Italia troppo spesso si parli di libri in maniera accademica, poco stimolante, che le recensioni siano scritte da addetti ai lavori per altri addetti ai lavori, che le polemiche spesso travalichino il tema dichiarato, toccando aspetti più generali da cui chi legge si sente inevitabilmente tagliato fuori. Invece di limitarci a mugugnare noi abbiamo deciso di creare un prodotto più soddisfacente. Abbiamo imparato facendo, naturalmente... iniziare non è stato così difficile come renderci visibili: se adesso il nome LN-LibriNuovi comincia a riscuotere qualche "Ah, sì, ne ho sentito parlare" invece di un perplesso "Cos'è?" lo dobbiamo alla nostra tenace incoscienza, e all'interesse dei non pochi lettori che ci hanno incontrato strada facendo e hanno parlato in giro di noi. Questo ci ha dimostrato chiaramente che per costruire qualcosa - in termini di persone oltre che di strutture - è necessario innescare processi, tessere contatti, suggerire, far incontrare gente, ascoltare gli altri. Tutte cose lunghe, che non danno risultati immediati ma che, quando funzionano, creano qualcosa di duraturo, una sorta di effetto valanga.

    Tutto ciò che ho detto: interessi comuni, rifiuti netti, obiettivi chiari, risposte originali a problemi apparentemente insolubili, effetto valanga, sono le cose di cui avrebbero bisogno i librai (r)esistenti per affrontare (e spuntare qualche vittoria) contro il Godzilla della Grande Distribuzione.

    Le dimensioni contano, ricordavano le locandine del film Godzilla.... ma tutti i colossi hanno qualche punto debole.

    Noi di LN-LibriNuovi possiamo offrirvi qualcosa di più della nostra solidarietà: i lettori non sono un anello da poco, lo sapete, senza di noi, il comparto librario non esisterebbe. Noi di LN siamo lettori resistenti: lo abbiamo dimostrato tenendo in vita per anni una rivista completamente priva di pubblicità che si autofinanzia completamente con gli abbonamenti e le vendite.

    Ciò che LN può offrirvi è uno spazio stabile, pagine che ospitino vostri interventi di riflessione, di proposta, vostri pareri e suggerimenti. E LN on line potrebbe essere, invece, la forma più veloce per diffondere e sottoporre a librai e lettori proposte di discussione. La rivista in carta e quella in rete potrebbero diventare lo strumento che ora non avete ancora per dialogare da lontano, per farvi ascoltare da altri librai e dai lettori.

    Ci tengo a sottolineare che non siamo disponibili a diventare la rivista "sindacale" - sia pure alternativa - di un gruppo di librai, nè ad ospitare inserti. Vogliamo continuare semplicemente a fare ciò che già stiamo facendo, parlare di libri, parlarne da ogni punto di vista, difendere la nostra possibilità di continuare a scegliere e a trovare i libri.

    (Silvia Treves, coordinatore editoriale LN)

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    Marzo – Maggio 1999

    Librerie Indipendenti: le ragioni per (r)esistere

    Quando è nata l'idea di questa rubrica sui problemi commerciali del libro, ci siamo posti, tra i primi, il problema della firma e, insieme, quello di battezzare la rubrica in modo facilmente identificabile dai lettori della rivista.

    Abbiamo lungamente brancolato nel buio, passando per soluzioni via via banali, enfatiche o ambigue, fino a quando non ci sono tornate in mente le immortali parole di Marco Polillo quando era ancora manager mondadoriano (e prima di diventare Polillo editore), pronunciate nel corso di una seduta della scuola librai di Venezia: "I librai non possono avanzare il diritto di non acquistare le novità (almeno di Mondadori, n.d.r.) perché sono frutto di investimenti per loro insindacabili".

    Si è fatta così la luce nelle nostre menti annebbiate: se non possiamo scegliere cosa comprare ci troviamo a essere automaticamente retrocessi al ruolo di venditori ambulanti che trasportano merci di altri e che saranno a sera bastonati se la vendita della giornata è insufficiente. Qualsiasi cosa...vendoli, in sostanza. Librivendoli, nel nostro caso.

    Trovato il nome il resto è stato più facile. Le dichiarazioni di intenti, le riflessioni, gli interventi e le politiche dei giganti editoriali e distributivi - anche quando non sono autocaricaturali come quelle della Mondadori - offrono infinite risorse a chiunque voglia dedicarvi un po' di tempo, facendosi domande pericolose come: "Ma a cosa serve?", "Ma a chi serve?", "Che tipo di mercato presuppone?", "Come faremo noi librai a cavarcela?"

    E così la rubrica si alimenta da sè, anzi fatichiamo a mantenerla nello spazio offerto dalla rivista, tante sono le occasioni che ci vengono offerte.

    Scriviamo per gli altri colleghi, naturalmente, ma soprattutto scriviamo per i lettori, coloro che in altri settori merceologici verrebbero definiti "i consumatori", per informarli, metterli sull'avviso, se necessario per allarmarli. Cerchiamo di ragionare su prezzi e disponibilità, ci sforziamo di chiarire i molti punti oscuri dell'attività commerciale/distributiva, sveliamo retroscena più o meno confessabili, sfatiamo convinzioni errate ma secolari sul nostro lavoro.

    E l'interesse non manca, anzi. I lettori sono affascinati, incuriositi, ammaliati dalla possibilità di dare una sbirciatina all'officina del libro, anche se, duole riconoscerlo, nella maggior parte dei casi denunciano un pericoloso idealismo, ossia la fermissima e candida convinzione che la logica economica corrente non si applichi ai libri.

    E invece si applica, ne siamo certi, anzi noi pensiamo che stia occupando anche spazi che non gli competono fino a minacciare da vicino taluni aspetti unici e preziosi della merce-libro: la sua qualità formale, la sua reperibilità, la sua unicità e originalità, persino la sua libera circolazione.

    Sappiamo alla perfezione che il libro è un prodotto ambiguo, diviso tra la sua natura merceologica di prodotto industriale e la sua vocazione di oggetto immateriale, e non siamo tanto sprovveduti da credere che possano esistere libri che non producono un profitto, sia pur simbolico. Ma siamo ugualmente convinti che l'irruzione nel mondo del libro di logiche manageriali di corto respiro non potrà che recare danni irreparabili.

    I sintomi non mancano: mentre aumentano i libri autoprodotti anche di buona qualità (si pensi alla recente trilogia Il posto Italia pubblicata a proprie spese da Sergio Astrologo) ampie sezioni di cataloghi di grande valore - e non soltanto storico - vengono mandati d'ufficio in esaurimento, in omaggio a una logica aziendale generalista che sogna librerie tutte uguali e lettori seriali.

    Al malessere di librai e lettori si risponde con l'offerta del libro stampato a richiesta, trasformando così un'opportunità offerta dalla tecnologia più avanzata in un cortocircuito logico nel quale il libro di qualità e il libro autoprodotto finiscono per assumere la stessa sostanza di oggetti per svitati collezionisti o per eccentrici.

    Ma è la logica stessa del commercio a mutare, a divenire sempre meno ospitale per le piccole e medie imprese.

    Maggio 99: è appena entrata in vigore una nuova legge sul commercio appositamente ritagliata sulle esigenze della grande distribuzione e che non mancherà di creare ulteriore disagio, logorio, autosfruttamento, stanchezza, disaffezione. Tra le future vittime del nuovo credo aziendalista della sinistra italiana ci sono certamente anche molte piccole e medie librerie, che già ora, schiacciate tra l'iperproduzione editoriale, la centralizzazione della distribuzione e la drammatica recessione in atto resistono sul mercato solo a prezzo di ritmi di lavoro concitati e orari massacranti.

    Con gli anni '90 la fase espansiva del mercato del libro in Italia si è definitivamente chiusa e l'intero comparto ha imboccato la strada di una stagnazione che di giorno in giorno, nonostante tutti i tentativi di mascheramento, si trasforma in recessione.

    Logica conseguenza è la scelta, da parte della grande editoria, di strategie difensive: ridurre l'eposizione, azzerare gli oneri finanziari, snellire i magazzini, tagliare i costi, ridurre il personale, eliminare ogni forma di elasticità di credito.

    La riduzione del numero di punti vendita e insieme la scelta di privilegiare le librerie di catena, la grande distribuzione, la vendita diretta anche attraverso Internet sono snodi perfettamente coerenti a questo nuovo progetto di editoria, l'editoria veloce.

    I connotati di ciò che definiamo come "editoria veloce" li abbiamo, in quanto librai, sotto gli occhi tutti i giorni: un numero esorbitante di titoli, tirature ridotte all'osso, scarsa disponibilità di titoli richiesti per il rifornimento, centralizzazione dei magazzini con stock insufficienti alle richieste, controlli di qualità scadenti, serializzazione della produzione.

    "... Il ritmo di vita dei libri, che escono ormai nella quantità di 140 titoli al giorno, e sono in maggioranza veri e propri fast books che non resistono sui banconi più di 40\50 giorni, trasforma la libreria in una sorta di stazione ferroviaria: più è grande, più a lungo e in maggior quantità può ospitare quei "vagoni" in transito che sono ormai i libri." Scrive Giulio Vigini nel suo articolo pubblicato a fine 1997 nel sito WEB dell'Associazione Italiane editori (pagg. 22 - 25 LN speciale Librerie).

    A parte la convinzione che siano ben pochi i sedotti dall'idea della libreria come stazione ferroviaria, siamo convinti che l'Editoria veloce sia una sciagura da evitare e da combattere, non soltanto per le librerie indipendenti ma anche per i lettori e, più in generale, per chiunque abbia a cuore la sorte del libro in Italia.

    Editoria veloce in troppi casi significa libri disponibili per troppo poco tempo, saggi poco curati e affrettatamente tradotti, l'affannosa e caotica rincorsa alle mode culturali e pseudoculturali più labili, la produzione di titoli apocrifi, estratti o ricavati da altri già pubblicati e la programmata indisponibilità di titoli a bassa rotazione, ossia una quota rilevante del fatturato del settore.

    Ma Editoria veloce significa anche una profonda distorsione della nostra figura professionale, il logoramento del rapporto personale, quotidianamente costruito tra libraio e lettore, la fine di un rapporto di fiducia creatosi in anni di consigli e discussioni sulle letture, significa - in breve - l'irreversibile riduzione del libro a puro plusvalore, la sua definitiva normalizzazione.

    Riteniamo che il libro debba rimanere un prodotto anomalo, una merce - certamente - ma anche una modalità unica di fruizione estetica e intellettuale.

    E la nostra legittimità di operatori professionali sta tutta all'interno di questa unicità.

    I Librivendoli

    Massimo Citi - Libreria CS -Torino

    Rocco Pinto - Libreria La Torre di Abele -Torino

    Silvia De Vecchi - Libreria La Città del Sole - Torino

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    da LN - LibriNuovi n° 0 - Inverno 1996

    L a L i b r e r i a n o f u t u r e

    Il '96 volge al termine e, fatte salve le improbabili sorprese di Natale, sarà archiviato come l'ennesimo anno senza storia del comparto librario.

    Le cose non vanno troppo bene da tempo, gli anni '90 registrano un calo lento ma costante dei fatturati, non sono poche le piccole librerie che chiudono ma soprattutto - indice questo di un settore in profonda crisi - non nascono nuovi punti vendita, se non a discapito di quelli già esistenti. E se qualcuno pensa che alluda a megalibrerie futuribili, magari ubicate in prestigiosi palazzi di proprietà pubblica, ha perfettamente ragione.

    Interessante notare come, apparentemente in controtendenza, il rapporto ISTAT 1995, al capitolo sui consumi culturali mostri un lievissimo progresso della lettura (passata dall'essere praticata dal 36.6% della popolazione [1988] al 39.3% [1995]). Ma tenendo conto della bassa scolarizzazione delle classi di età più elevata, il lievissimo incremento indica probabilmente solo uno spostamento nella curva delle età, dovuta alla naturale scomparsa di non-lettori, sostituiti da piccoli lettori.

    E i concorrenti del libro?

    Scorrendo i dati si trova che un 40% della popolazione utilizza la TV come unico tipo di consumo culturale, che non solo non legge libri, ma neppure quotidiani e riviste, non va al cinema né in discoteca o a vedere una mostra. Stanti questi dati, azzardo che Internet come concorrente del libro - rischio paventato da qualche intellettuale - in un paese come l'Italia dove non più del 2% delle famiglie possiede un PC in casa (e le statistiche non dicono se sappia usarlo o meno) non sia un'eventualità poi troppo terrorizzante. Anche perché, verosimilmente, chi possiede e utilizza un PC sa fruire senza troppe complicazioni di un testo scritto.

    Certo, la percentuale della popolazione che guarda la TV conserva livelli plebiscitari (96.7%) ma non riesco a immaginare un motivo ragionevole per il quale un lettore non debba mai vedere la TV, e quindi...

    E quindi, dove sta il problema?

    Nei non-lettori, ovviamente. Le menti più fine delle grandi case editrici in questi anni le hanno studiate tutte o quasi per coinvolgere questo enorme bacino di non interessati alla lettura: feste del libro, saloni del libro, promozioni, yoghurt, tortellini, sconti più o meno dissennati, tre per due, libri al chilo, programmi TV, collane supereconomiche, Miti e Millelire.

    Il risultato finale è che si è riusciti nell'intento (sacrosanto, peraltro) di permettere ai soliti noti (ovvero il 40% scarso della popolazione, o probabilmente molto meno) di spendere meno leggendo all'incirca lo stesso.

    I dati aggiornati al 1994 del mercato del libro [fonte: Catalogo editori Italiani ed. 1996 - in attesa dell'arrivo della nuova edizione- ] mostrano un fatturato globale aumentato dello 0.8%, il che significa, detratti gli effetti inflattivi, un decremento reale del 2-3%. Tenendo conto del calo di prezzo medio dovuto all'affermazione delle collane supereconomiche (-26.4) [ibidem] si può ben dire che fatturati in lieve calo o in stagnazione siano un risultato più che positivo per chiunque.

    E intanto i non-lettori resistono. Sbuffano, ironizzano, persino affibbiano ai lettori la patente dei noiosi, asociali, imbranati, pallosi. (cfr. LN 37 - dati da Rivisteria n° 56)

    Ma quale prezzo hanno pagato i lettori per poter leggere spendendo meno?

    E quali sono le prospettive della lettura (e delle librerie)?

    Basta una lettura non superficiale dei romanzi (ma, ahimè, anche dei saggi) per capire dove abbiano risparmiato gli editori per ridurre il prezzo medio del libro: su traduzioni, redazione, correzione bozze e, più in generale, su tutto ciò che rende un libro inanonimo, prezioso.

    É sempre più facile inciampare in errori di stampa, traduzioni sciamannate, affrettate, rozze e malcerte, colossali abbagli, ridicoli equivoci, frasi incomprensibili - prive di soggetto o sospese nel nulla - autori (esordienti e non) mal o per nulla trattati in editing, bibliografie selvagge o latitanti, riferimenti errati, citazioni sbagliate o malamente orecchiate, introduzioni assenti o buttate giù alla viva il parroco, postfazioni e commenti oscuri e maldigeribili, risvolti disonesti o semplicemente idioti.

    (e qui un esempio, almeno uno, devo metterlo. A pagina 76, 12ª riga dall'alto di A voce alta di Bernhard Schlink - libro peraltro bellissimo - si parla di eruzione giuridica in luogo, evidentemente di erudizione.)

    La palma del più allegro massacro va comunque sempre alla Newton Compton e ai suoi titoli inventati di opere ricucite insieme o estratte dalle viscere di altre (Nietzsche, E.A. Poe, Lovecraft, Seneca ecc. ecc.) il tutto per stare nelle 100 pagine 1000 lire o nelle 250 pagine a 2.000 lire.

    "Ma sono scrupoli da puristi, manie da intellettualoidi" si dirà.

    Non credo. A parte il disappunto di constatare di aver ricomprato un libro che si possedeva già, fuorviati da un titolo inventato, non c'è nulla di più irritante che scoprire che un libro, magari amato, non è in versione integrale (o vanta aggiunte posticce).

    Ugualmente irritante (e pericolosa per l'intero mercato librario) è l'attesa del passaggio in edizione economica di un libro che si intende leggere senza spendere 30.000 lire (ma ormai anche 15.000). "Questo qui esce nei Miti, che lei sappia?"

    In genere la risposta è no. No nel senso che proprio non si sa che cosa uscirà o meno nei famosi Miti (L. 5.900 copertina rutilante come un albero di natale, cartaccia pessima, caratteri da clausola assicurativa a piè di pagina).

    Cosa fa il cliente così disinformato? In genere aspetta. Poi si dimentica di tutto e non acquista più nulla.

    Forse sarebbe ora di piantarla con l'uscita ritardata in economica e fare come nei paesi civili, dove l'edizione economica è contemporanea o pochissimo successiva alla rilegata. Il danno per i fatturati sarebbe molto probabilmente inferiore al temuto e sensibile il beneficio per lettori e lettura.

    E invece no, si continua con il piccolo e piccolissimo cabotaggio, con la mediocre astuzia divenuta ormai abitudine. Si stampa la prima tiratura di 3550 copie a lire 28.000 e si aspetta la resa di 1122 copie per fare l'edizione economica ( talvolta rifilando e ricorpertinando le famose 1122 copie). Da notare: quando le 1122 copie sono rientrate è passato al minimo un anno e del nostro libro si è smarrita o quasi la memoria. Risultato finale: 755 copie rese dell'edizione economica e libro definitivamente morto.

    Il bello deve ancora venire. La Mondadori, editore talmente grande e bello che tutti noi (librai, ma anche lettori) non ce lo meritiamo proprio ha avuto la sua grandissima idea.

    É da un paio di anni che la G. & B. (Grande & Bella) Mondadori se la studia.

    Dovete infatti sapere che già nel '95, in un prezioso volumetto edito da Donzelli, titolo A scopo di lucro, il nostro augusto Kaiser Franz Tatonen enunciava la propria filosofia aziendale. Partito ora Kaiser Franz per altri più elettrizzanti lidi, il nocciolo della sua Weltanschauung (visione del mondo) è stato ereditato dai suoi successori. In poche parole: i librai italiani sono premoderni, patetici, vendono libri in locali troppo angusti, e, in qualche occasione, osano non acquistare le novità che la suddetta pubblica (e magari persino rendere l'invenduto).

    Questo è sempre stato il tormentone della politica editoriale mondadoriana. La G. & B. M. non tollera semplicemente che i librai possano disertare (e in questo modo giudicare) la sua politica editoriale. Basta leggere l'intervista al burbanzoso signor Gian Arturo Ferrari (direttore editoriale Mondadori) pubblicata in "La Resa" di Emanuela Zurli editore Sonda (libro sicuramente prolisso ma ricco di notizie e profili davvero interessanti) per capire che per lavorare con Mondadori bisogna limitarsi a dire sì, senza titubare e soprattutto dimenticando gli assurdi scrupoli che un operatore economico non deve mai avere (ma che un libraio non del tutto degenerato a bottegaio viceversa ha).

    E qui si vede come i Miti non fossero altro, in definitiva, che il lampo che annuncia il temporale, ovvero i modelli dell'editoria di domani: titoli prescelti dall'editore, tirature predefinite senza prenotazione, libri distribuiti capillarmente (librerie, supermercati, cartolerie, edicole), forte sostegno pubblicitario, autori sicuri e prezzo contenuto.

    Il temporale adesso è alle porte. Incombe mentre scrivo queste note. Nel corso del 1997 la G. & B. M. abolirà la prenotazione, ovvero quella procedura paleolitica per la quale un cortese signore visita le librerie con un cartoncino in una mano e un album pieno di copertine nell'altra, chiedendo: "Esce questo, lo vuoi? E quanti ne vuoi?"

    Tutto finito: la Mondadori ha deciso che adesso, grazie ai computer, sa tutto di tutte le librerie d'Italia, tanto da poter inviare autonomamente i titoli giusti e nelle quantità giuste a chicchessia.

    "Ci sono troppe rese" dicono a Segrate (come se la scelta dei titoli, dei quali un 20% circa sono inviati senza consultare nessuno, fosse fatta dal libraio), "ragion per cui vi proponiamo un sistema che in Germania funziona benissimo"

    Che dire? Provare si può anche provare, se non altro perché non si dica che siamo premoderni e perché, comunque, avanti così non si può andare, ma restano numerosissime, forse troppe perplessità.

    Un facile meccanismo di pagamento / resa mette teoricamente il libraio a riparo dalle brutte sorprese, anche se il catalogo (ovvero l'insieme dei libri pubblicati da più di sei mesi) viene venduto a condizioni meno vantaggiose, ovvero viene penalizzato.

    E qui siamo entrati quasi inavvertitamente nel secondo tema proposto: le prospettive della lettura e delle librerie. Cosa accadrà ora?

    Esaminiamo la possibilità peggiore (che è anche la più probabile, peraltro): Mondadori è la locomotiva dell'editoria italiana, il minimo che ci si possa aspettare è che continui nel proprio disegno. Ma a ben pensarci il problema assume contorni inattesi, quasi epocali. Mi spiego: esiste una linea di condotta aziendale che preservi fatturati, grafici che puntano al soffitto come nelle barzellette e insieme permetta il libero e gioioso fluire di autonomie culturali, tutelando la piccola / media libreria che lavora sul catalogo e su filoni culturali ben individuati?

    Calma, cerchiamo di non essere settari o addirittura comunisti. A pensarci bene alla Mondadori (o alla Rizzoli o a chi pare a voi) converrebbe, teoricamente, preservare alcune nicchie ecoculturali, parchi naturali, oasi di lettura. Ma c'è un ma. Stante il fatto i magazzini costano (ed è questo un assioma inviolabile per qualunque operatore economico che desideri continuare ad esserlo e non abbia denaro in sovrappiù da bruciare nella propria attività) quale politica aziendale sarà mai in grado di aiutare una libreria che vive (anche) di titoli non nuovissimi? Per esemplificare: attualmente il rapporto di vendita tra titoli di catalogo e novità è un R che oscilla tra 1/3 e 2/5. Un libro su tre che venga venduto è un libro di catalogo, ovvero un titolo uscito da più di sei mesi. Tale rapporto R, per quanto riguarda la Mondadori, è già adesso pari a 1/7- 1/8. Se si introduce un ulteriore elemento di penalizzazione, peggiorando le condizioni commerciali di acquisto del catalogo come pensate che possa finire il nostro R?

    Se la politica di Mondadori funziona, ovvero se diminuiscono le rese e le librerie si adeguano a tentare di vendere qualsiasi cosa l'editore decida di stampare, tutti gli editori che hanno abbastanza ossigeno (e denaro) si affretteranno a seguirla.

    Non credo che il meglio dell'offerta editoriale sia necessariamente annidato nella produzione della piccola editoria, ma ipotizzando che i titoli di catalogo possano diventare anche più irreperibili di adesso e che, in un futuro prossimo, l'80% degli editori italiani difficilmente riuscirebbero ad arrivare in libreria, qualcuno immagina come potrebbe mai sopravvivere un'offerta sufficientemente variegata? Chi si sobbarcherebbe la produzione di titoli e autori nuovi, sconosciuti, interessanti, chi pubblicherebbe saggi non ortodossi o decisamente scomodi?

    Non cominciate anche voi ad avere qualche dubbio sulla possibilità di conciliare le politiche commerciali dei grandi editori con le librerie di cultura? (Questo anche senza votare per Bertinotti)

    Probabilmente è stato proprio il sostanziale fallimento del tentativo di indurre i non-lettori a leggere (con montagne incommensurabili di rese di egregie scemenze) a indurre la G. & B. M. a infilare la strada della razionalizzazione forzata del settore.

    Adesso vi invito a riflettere: in Italia non esistono le University Press come non esiste alcun tipo di intervento pubblico nei confronti dell'editoria di qualità, non c'è alcun sostegno per le librerie che si preoccupano di mantenere a stock titoli a lenta vendibilità né sono previste facilitazioni di alcun genere (fiscali, creditizie) per la piccola e piccolissima editoria.

    Già adesso è veramente difficile (improbo) riuscire a individuare nella montagna di titoli pubblicati quelli a bassa tiratura, soprattutto se di narrativa, o rintracciare libri usciti da appena un anno. Adesso provate, se volete, a immaginare una possibile libreria italiana del 2010.

    Fatto?

    Non vi piace?

    Beh, leggetevi il signor Gian Arturo Ferrari. Lui ha sempre una risposta per tutto. (Da La Resa pag. 74 e segg.)

    "L'editoria è un commercio, è una roba destinata a fare dei soldi (...) E allora mi limito a pubblicare i libri che il pubblico ama leggere. Il mio giudice è il mercato.

    (...) I librai invece di stare a rompere i (omissis) facciano bene le librerie, vadano in giro a vedere come si fa." (il corsivo è mio)

    Per chi fosse interessato ad approfondire i temi accennati, leggendo direttamente le fonti e non solo le conclusioni del sottoscritto, allego qui una bibliografia essenziale:

    F.Tatò - A scopo di lucro - Donzelli 1995 - pp. 119 - L. 18.000

    E.Zurli - La Resa - Sonda 1996 - pp. 208 - L. 28.000

    Prefazione di G.Vigini a "CATALOGO DEGLI EDITORI ITALIANI 1996" Editrice Bibliografica 1995 - pp. 770 - L. 85.000

    Idem edizione 1996

    I S T A T - Rapporto sull'Italia ed. 96 - Il Mulino 1996 - pp. 163 - L. 15.000

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    da LN - LibriNuovi 2 - estate 1997

    Compiti a casa.

    "...Il corridoio, illuminato a distanze regolari da lampadine opache, si allungava interminabile davanti a lui, in lievissima pendenza, avrebbe detto. Le pareti alte e strette erano, per tutta la loro altezza, ricoperte di libri. Libri dello stesso formato e dello stesso colore: un verde oliva con appena una lieve traccia di azzurro. Una sottile striscia argentea di lettere sulla costa ne descriveva il contenuto.

    Dulcemio si concesse qualche attimo di silenziosa e inquieta osservazione. Il corridoio, innanzi tutto. Non sembrava avere fine e, particolare curioso, pur allontanandosi da lui in linea perfettamente retta non sembrava soffrire di alcuna distorsione dovuta alla distanza. Possedendo una vista d'aquila Dulcemio avrebbe potuto contare altre migliaia di piccole luci davanti a sé, senza esserne ostacolato dalla curvatura della Terra. Era davvero strana la cantina del Commendatore: una cantina allungata nello spazio come un ridicolo braccio che qualcuno aveva attaccato alla Terra. (...) E adesso? Allungò un mano e prese dallo scaffale alla sua destra uno dei libri. AJska adP?k/j,sd _ æ!!auT. era la scritta sulla costa. Lo aprì. In quanto a intelligibilità la cosa non sembrava migliorare. Lo posò e ne prese un altro: i caratteri argentei della costa recitavano: AKSsoia )OAA¤4 =?90421' )?=. A quanto pare il Commendatore amava collezionare libri incomprensibili, incredibili collezioni di errori di stampa. (...) Provò a prendere in mano un libro dallo scaffale di sinistra: Guerra e Pane di Lev Tolsoti. C'era qualcosa di molto strano, anche se, certamente, si andava già molto meglio. (...) "

    Prego perdonare la lunghissima citazione tratta da Prometeo nel Retrobottega di Roberto Donghi, Lexia edizioni. Ma, capitatomi in mano il libro per fortunata combinazione, non ho potuto resistere alla tentazione di usarlo per un breve commento sullo stato del libro nel 1997.

    Senza arrivare a dover leggere Tolsoti in prima di copertina, nella produzione libraria corrente l'aumento di errori ortografici (ma anche sintattici e lessicografici), le sillabe e le parole saltate, le traduzioni alla bersagliera sono divenute, fatte pochissime eccezioni, la regola.

    Negli ultimi anni il settore editoriale librario si è razionalizzato - parola difficile che, come competitività, rendimento e produttività serve a nascondere le vergogne - e le Case Editrici hanno ridotto il personale, spesso degradato a collaboratore esterno, mal pagato e ricattabile.

    Che non si tratti di una mia illazione lo si può facilmente constatare sfogliando l'edizione 1997 de Le cifre dell'Editoria, a cura di Giovanni Peresson, editore Bibliografica. In particolare segnalo la tabella 11 della sezione 8 (Aziende). Può essere interessante comparare il numero di dipendenti del Gruppo di Grandi case editrici (1992 - 1995). Si passa infatti dai 4206 dipendenti del 1992 ai 3368 del 1995 con una contrazione nei tre anni del 20 % circa. Questo con un fatturato che passa dai 1922.7 mld (miliardi) del 1992 ai 2142.9 mld del 1995 (+11%). É pur vero che, nello stesso gruppo di editori, il risultato di esercizio (in questo caso l'utile netto) passa dai 42.4 mld del 1992 ai 20.6 mld del 1995, ma questa cattiva performance si spiega facilmente con l'aumento degli oneri finanziari (interesse passivi su prestiti) e la diminuzione dei proventi finanziari (interessi attivi) nell'arco degli stessi tre anni.

    Ma ancora più interessanti per gli operatori del settore (ma anche per i lettori) sono i dati relativi al fatturato per addetto, passato da 0.457 mld / pro capite /anno (1992) a 0.636 mld / pro capite/ anno (1995). E, a ogni buon conto, il costo del lavoro è passato dai 282.5 mld del 1992 ai 267.3 del 1995. Fuori dal linguaggio delle cifre si può affermare senza tema di smentite che i 3368 poveri cristi superstiti del settore editoriale / librario sono riusciti in tre anni a lavorare per un 39 virgola spiccioli per cento in più. Sarebbe serio pensare che fino al 1992 i 4206 lavoratori del settore si prendessero interminabili pause caffè e facessero le parole incrociate, invece che produrre libri? No, non è serio, soprattutto in un comparto così altamente professionale. Allora bisogna proprio concluderne che - usando una parola assolutamente out-of-trend - il grado di sfruttamento del personale nel settore editoriale- librario sia aumentato di un buon 40%.

    Bene (cioè male), e allora?

    Allora sarebbe mentalmente igienico smettere di fare le anime belle pensando che i libri si producano da sé: immacolati, coloratissimi, senza nemmeno un refuso, pure Emanazioni dello Spirito. No, gran parte dei libri in commercio vengono prodotti dai 3368 superstiti di cui sopra. (Dimenticavo, siamo nel 1997, e - vista la tendenza - è piuttosto probabile che siano anche meno, mentre sto scrivendo questo articolo).

    E quindi, se non siete così gonzi da credere che i libri si compilino e si traducano da sé, dovrete ammettere che qualcosa nella vita reale di quattromila e passa nostri simili è profondamente cambiato. É mutato il loro ritmo di lavoro, è divenuta prepotente la necessità di fare presto, l'ansia di produrre è divenuta affannosa. Già, perché nello stesso arco di tempo gli editori hanno aumentato i titoli pubblicati (tabella 4, sezione produzione: 42.007 nel 1992, 49.080 nel 1995) con titoli tradotti passati dai 9.949 del 1992 agli 11.589 del 1995 (tab.7 sez.produzione).

    I nostri pacifici lettori, che magari generosamente deprecano il peggiorare delle condizioni di lavoro in Fiat, hanno così qualche ulteriore motivo per preoccuparsi. Fonti ufficiose, ma molto ben informate, ci dicono che all'Einaudi, per esempio, nel volgere di qualche anno i traduttori regolarmente assunti sono passati da 40 a meno di una decina, con un fiorire - viceversa - di collaboratori e consulenti esterni, più liberi e più belli. Già Stefano Benni attribuiva a Romiti (si era ai tempi della marcia dei 40.000) la frase: " Perché scaldarsi tanto per un lavoro fisso? Non è meglio la libertà? Oggi qui, domani a New York e dopodomani ai Tropici".

    Anche nel caso dei libri, come si vede, la libertà è un bene finito e non infinito, come a dire che la libertà della proprietà non è del tutto paragonabile alla libertà di chi produce (e anche di chi utilizza il prodotto finito). In sostanza per passare da un Tolsoti - ossia un errore di battitura - al modello di sviluppo capitalistico occidentale sono sufficienti tre pagine. Vi sembra un peccato veniale, tutto sommato, qualche errorino ogni tanto? Non ditelo a nessuno! Se lo sanno gli editori chissà cosa riusciranno ad inventare per ridurre ulteriormente i costi. Pensate piuttosto che gli editori hanno risparmiato sul personale per pubblicare (tre titoli a caso, recentissimi): Claudio Brachino e Guido Prussia: Ricomincio da Te, Maria De Filippi: Amici di Sera, Walter Veltroni: Governare da Sinistra (verso destra, verrebbe da aggiungere).

    Concludo con un problema:

    Sapendo che un manager costa quanto 10 direttori, e che 10 direttori costano quanto 50 redattori o 100 traduttori, calcolate quanto risparmierebbe un'azienda editoriale lasciando a casa il Manager.
    Sapendo inoltre che in Ipazia i manager sono 10.000, calcolate ora quanto risparmierebbero gli Ipaziesi se tutti i manager fossero spediti a colonizzare Marte.

    R. Donghi - Prometeo nel Retrobottega - Lexia - pp. 152 L. 22.000

    G. Peresson - Le cifre dell'Editoria 1997 - Bibliografica - pp. 408 L. 90.000

    " Risposta 1: Tanto "

    " Risposta 2: Anche di più "

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    da LN - LibriNuovi 3 - Autunno 1997

    C r e p a r e d'a b b o n d a n z a

    ovvero : della morte dell'editoria per eccesso di pubblicazione

    " Nel Masscult (e nel suo figlio bastardo, il Midcult) tutto diventa merce, da spacciare per tanti e tanti dollari, da usare per qualcosa che non è, da Davy Crockett a Picasso. Una volta che uno scrittore diventa un Nome (...) il meccanismo del Masscult (o del Midcult) comincia a "costruirlo", a imballarlo come un oggetto da vendere in tanti pezzi identici, in grandi quantitativi. Egli può andare avanti per forza d'inerzia per tutto il resto della sua vita; gli editori gli verseranno cospicui anticipi solo per avere il suo Nome nelle loro liste " (da Dwight Macdonald, Masscult e Midcult, e/o 1997, ed, orig. 1960)

    Chissà quanti di coloro che stanno leggendo annuiscono davanti a questa citazione? Non pochi, immagino, dal momento che stanno leggendo LN e non Tuttolibri, ma non ho intenzione di intonare qui il consueto de profundis della Fine del Talento e la Morte dell'Arte. Procedo piuttosto con un'altra citazione: " ... Nel caso dei best seller tale anticipo è molto elevato. Dal punto di vista contabile, i diritti d'autore rappresentano un costo variabile che incide sul reddito operativo di gestione caratteristica della casa editrice; gli anticipi sono invece contabilizzati nell'attivo dello stato patrimoniale come anticipi agli autori e considerati alla stregua di crediti. In caso di insuccesso di un titolo, l'impatto negativo è di natura patrimoniale." (da: Paola Dubini, Voltare pagina, economia e gestione strategica nel settore dell'editoria libraria, EtasLibri 1997).

    C'è una parola comune alle due citazioni - tratte da due libri molto diversi: un manuale di economia e un pamphlet sull'industria culturale - ed è anticipo. L'anticipo che i grandi editori versano agli autori affermati indicandolo in bilancio come credito, piuttosto che come costo. L'anticipo che trasforma gli autori in Nomi, brillanti ed effimeri produttori di libri di intrattenimento simili l'uno all'altro (come tante pagnottelle, dice Pennywise). Ma sono queste pagnottelle a permettere agli editori di lavorare su grandissime tirature che, come sanno ormai anche i sassi, consentono di ridurre i costi fissi di produzione. Grossolanamente: fatto 100 il costo redazionale e di composizione di un libro, tale cifra viene ad essere suddivisa su un alto numero di copie piuttosto che su un numero basso. Ad esempio, è a causa della bassa tiratura che LN costa L. 12.500 e non 6.000.

    Che tipo di editore può permettersi di pagare forti anticipi? Qual è la sua politica aziendale? Quali i suoi scopi (al di là di quello - ovvio - di produrre ricchezza per la Proprietà)?

    Attenzione, perché ora, con l'aiuto di Paola Dubini ed un pizzico di esperienza personale, stiamo per valicare le quinte della produzione editoriale.

    L'editore che paga forti anticipi NON offre il proprio marchio come garanzia per il lettore (pochi lettori sanno distinguere a prima vista un rilegato Longanesi da uno Mondadori o da uno Rizzoli mentre molti riconoscono senza difficoltà un libro Einaudi, Boringhieri, Laterza o Adelphi) ma piuttosto il Nome dell'Autore. In linea di massima (con le dovute eccezioni, sia pur marginali) questo genere di editore non opera - per ricavare il grosso del fatturato - sulla varietà e la ricchezza del catalogo (divenuto semplicemente stock nel linguaggio aziendale) quanto sulla produzione costante di novità, ovvero titoli inediti.

    La produzione continua di novità, d'altro canto, ha un senso se i mezzi di produzione, ovvero l'intera filiera redazione - tipografia - promozione - distribuzione fanno capo alla stessa società o gruppo industriale. Ed è chiaro che tenere ferma e improduttiva una tipografia e, a valle, l'intera catena produttiva, non conviene alla Proprietà. Ecco quindi che, tra una stampa di biglietti di auguri musicali e una di angioletti natalizi, si procede stampando libri, libri e ancora libri (o - soprattutto - non-libri, secondo la felice definizione a suo tempo coniata da Furio Colombo). Ma i Nomi sono pochi, come è evidente, e per questi la concorrenza è feroce. Urge quindi alimentare il moloch industriale di titoli purchessia che, tuttavia, rispettino alcune semplici regole: abbiano tempi di redazione ragionevolmente brevi, incontrino il gusto di lettori occasionali, possano essere stampati in quantità sufficientemente alte. Sia chiaro che non si tratta qui, in genere, di libri ma di oggetti cartacei di forma similare. Anche l'editore più rapace e spregiudicato conserva comunque alcune produzioni "di nicchia" (in termini di attività marginali) rivolte a un pubblico specifico o ai forti lettori.

    Ma questo panorama, apparentemente coerente, appartiene, almeno in parte, già al passato. Sì, perché l'ultimo anello della catena distributiva - le librerie - disponendo dello strumento della resa lo hanno utilizzato, soprattutto nel corso di questi anni, per ridurre l'indebitamento e il monte merci immobilizzato. E così l'Editore in grado di pagare cospicui anticipi ai Nomi si è trovato in ambasce, alle prese con una crescente quantità di rese, insolvenze, crediti in sofferenza. Si sono tagliate le spese fisse, operate acquisizioni societarie, tagliate le redazioni (cfr LN 2 - Compiti a casa) trasferite attività a terzi, operati riciclaggi di materiali redazionali fin oltre il limite della decenza ma infine per gli editori in questione è divenuto inevitabile alzare la posta, ovvero aumentare ulteriormente la quantità (essenzialmente in termini di titoli) di merce in circolazione ( ibidem).

    E qui tiro un attimo il fiato per dedicare qualche riflessione a un paradosso soltanto apparente. Molti lettori e frequentatori di librerie si sono più volte interrogati sull'eccesso di titoli pubblicati, osservando con logica stringente che in fondo tutti quei libri "dovevano avere un bel costo". Ma questa osservazione, come abbiamo visto, appare basata su una inoppugnabile logica quotidiana che NON è la logica in uso nel Nord del mondo alla fine del secondo millennio. In realtà il costo puro dei libri commercializzati, definito in termini di investimento ovvero di produttività a fronte di costi fissi, diviene - nel disegno dell'editore - un pagherò che passerà all'incasso il più tardi possibile, quando finalmente gli italiani acquisteranno libri come panini.

    Ma, intanto, diminuisce il numero di libri acquistati dai forti lettori segnale di insoddisfazione per la qualità della produzione nota Dubini, mentre i lettori occasionali non danno segni di divenire forti lettori.

    Può l'andamento di questi ultimi anni del settore (in costante contrazione) mutare l'indirizzo dei grandi editori? Difficile crederlo o sperarlo. Nulla lascia pensare che il numero di titoli prodotti possa diminuire. "Un gran numero di titoli è sintomo di salute del mercato e quindi della cultura." sostiene Gian Arturo (Artù) Ferrari, megadirettore editoriale galattico della Mondadori e come lui altri megamanager editoriali. Ed è difficile, di primo acchito, incarnare la parte degli oscurantisti che desiderano che voci vengano soffocate e libri non vengano pubblicati. Ma ciò che Gian Artù si dimentica di aggiungere è che:

    1) la qualità di tali produzioni è per lo più troppo bassa, sia perché basata su riciclaggi redazionali (che i lettori sono in genere in grado di riconoscere) o su testi insufficientemente curati o frettolosamente tradotti, sia perché legata a effimeri fenomeni televisivi e di costume.

    2) che l'eccessiva offerta disorienta i lettori abituali (il 5- 6% della popolazione) che formano il vero polmone del comparto, intasa le librerie privando il personale addetto alla vendita della possibilità di intervenire a valle, verso i lettori. (e chi se ne frega, dice Gian Artù) e, in ultima analisi, deprime il mercato piuttosto che stimolarlo.

    3) Lo scopo essenziale di tale sovrapproduzione è di natura economico-gestionale e nulla ha a che vedere con la promozione della cultura.

    Il fatto è che, secondo l'insegnamento confindustriale, Gian Artù e consimili scelgono di assumere - in rapporto alle circostanze - le sembianze di accorati paladini della cultura o di eroici difensori del profitto.

    E qui il ciclo si chiude. Corrispondere anticipi eccessivi ai grandi Nomi è, coerentemente, la scelta di barattare il futuro con il presente, ovvero di costruire un'editoria che non sa né può guardare al domani, che non vuole investire in ricerca e sviluppo ma che vive nella successione annuale di bilanci da presentare comunque all'attivo. Ed è in fondo questa la dannazione dei nostri tempi.

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    Le Letture del libraio

    Il mestiere del libraio e la sua formazione culturale e professionale
    di Rocco Pinto

    Le problematiche connesse all'esercizio quotidiano della mia professione, troppo spesso e da molti ignorate, e la mancanza di studi specifici sulla figura del libraio mi hanno stimolato ad intraprendere una ricerca che permettesse di capire, con l'aiuto dei colleghi, il ruolo che oggi ha il libraio in relazione soprattutto alla sua formazione culturale e professionale. La ricerca sul campo attraverso un questionario, articolato in 66 domande e inviato a 400 librerie rappresentative di tutto il territorio nazionale, è stata parte rilevante della mia tesi di Laurea in Letteratura Italiana, discussa nel mese di luglio di quest'anno presso l'Università degli Studi di Torino.

    Dalla ricerca emerge una libreria in grandi difficoltà, derivanti sia dalla difficile situazione economica sia dalla perdita di identità del libraio, il quale valorizza sempre di più gli aspetti tecnici e di gestione commerciale a scapito di quelli culturali e di promozione della lettura.

    Il libraio degli Anni Novanta ha un'età media di 44 anni: il 64% è costituito da uomini e il 36% da donne; il 13% possiede un diploma di scuola media inferiore, il 57% un diploma di scuola media superiore e il 30% una laurea. Dei laureati, il 55% ha una laurea in Lettere e Filosofia, il 15% in Scienze Politiche, il 10% in Giurisprudenza e il restante 20% in altre discipline. Ha una conoscenza delle lingue molto scarsa: solo il 4% parla un buon inglese e solo il 2% conosce bene la lingua francese. La scelta del lavoro di libraio è stata per il 39% casuale, per il 22,5% legata alla tradizione familiare e per il 38,5% dovuta alla vocazione.

    Poiché il filo conduttore della ricerca è stata la formazione culturale e professionale di chi dirige le attuali botteghe librarie, è interessante notare come negli ultimi decenni il tempo dedicato alla lettura si è sempre più assottigliato per due motivi: complessità di gestione dei una libreria da un punto di vista contabile-amministrativo, inserimento di operatori con un retroterra culturale e con interessi minori rispetto ai librai del passato.

    Le letture del libraio permettono di misurare la ricchezza e al contempo la povertà culturale degli operatori librari. La convinzione in base alla quale chi esercita questa professione sia un grande lettore è infondata, a meno che per grande lettore non si consideri colui che, secondo gli ultimi dati ISTAT, legge un libro al mese. In questo caso l'81% dei librai intervistati rientra in questa categoria. Il 16,5% dichiara di leggere fino a 10 libri all'anno, il 14,3% da 10 a 20 libri, il 22% da 20 a 30, il 9,9% da 30 a 40, il 15% da 40 a 50 e il 19,8 più di 50 libri all'anno. Un 2,5% sostiene di non leggere neanche un libro. Da parte dei colleghi intervistati c'è la percezione che il libraio legga poco (60%); il 34% dichiara che si legge abbastanza il 6% molto. Il libraio, quindi, sostiene di leggere abbastanza, ma è convinto che i colleghi leggano poco.

    Per quanto concerne il tempo dedicato alla lettura, riferita non solo ai libri, l'intervistato dichiara di leggere più di tre ore al giorno nel 11,2% dei casi, tra i trenta e i sessanta minuti nel 49,4% dei casi e tra i sessanta e i centoventi minuti nel 30,4% dei casi. La lettura dei librai non è sistematica; solo il 9,7% dichiara di non interromper o lasciare a metà un libro. Nonostante le letture siano poco costanti, è significativo che il 77% dichiari di leggere un libro per piacere, mentre il 23% dichiara di farlo per dovere professionale.

    Le letture dei librai sono condizionate da diversi fattori: il 28,8% dichiara di scegliere in base alle recensioni, il 21,9% segue i consigli di altri e il 49,3% legge sulla base delle più svariate motivazioni (gusto personale, conoscenza dell'autore, interesse per l'argomento, curiosità intellettuale, interesse del momento, necessità di vendita, stimoli derivanti dalla lettura di alcune pagine di un libro).

    Per quanto riguarda la lettura dei quotidiani, il più letto è La Stampa, con il 24%; seguono il Corriere con il 22% e La Repubblica con il 20%. Il Sole 24 Ore viene letto nel 9% dei casi, il 14% legge un quotidiano locale e il 13% legge altro. Degli inserti letterari i più letti sono Tuttolibri con il 63%, l'inserto della domenica del Sole 24 Ore con il 21%, il Corriere Cultura con il 9%, La Talpa con il 7%, Gutenberg del Quotidiano Avvenire con il 3%. Dei settimanali il più letto è Panorama con il 25%, segue L'Espresso con il 23%, Donna Moderna con l'8%, l'Europeo con il 7,5%, Epoca e Amica con il 4,5%, Famiglia Cristiana con il 4% e altri settimanali con il 24%.

    Tra le riviste di settore la più letta è il Giornale della Libreria con il 33%; va tenuto presente che si tratta dell'organo ufficiale dell'AIE (Associazione Italiana Editori). Altra rivista che si occupa dei fatti editoriali e che ha al suo interno un inserto dell'Associazione Librai italiani è La Rivisteria, letta dal 19% degli intervistati. Le altre rivista con una connotazione più letteraria vengono lette con le seguenti percentuali: L'Indice (11%), Leggere (9,5%), La Rivista dei Libri (9%), Linea d'Ombra (8%), altre (9,5%). I notiziari delle case editrici sono letti nel 69,4% dei casi, il 30,6% dichiara di non leggere alcun notiziario. I più apprezzati sono quello dell'editore Laterza, Asterischi, e quello del gruppo Longanesi: Il Libraio.

    Un altro aspetto importante del lavoro della libreria è il rapporto che si instaura con la clientela. Essendo l'80% delle librerie a libero servizio, il cliente ha la tendenza a ricorrere all'aiuto del libraio quando non riesce a trovare quello che cerca o quando ha bisogno di informazioni reperibili solo grazie alla sua competenza. L'81% dei librai sostiene di dare spesso consigli alla clientela, il 15,6% raramente e solo il 3,1% mai. I consigli riguardano quasi sempre la narrativa, genere preferito dal 70% dei lettori. Il libraio tende a consigliare libri che ha letto nel 60% dei casi, libri di cui conosce l'argomento nel 40% dei casi.

    Un altro dei punti su cui si è focalizzata la ricerca è l'introduzione dell'informatica in libreria. Il 65% delle librerie possiede un computer, e di queste il 45% ha un programma di gestione del monte merci, di cui il 20% è un programma standard e il 25% un programma fatto ad hoc. Un altro 20% prevede di informatizzarsi e un 15% ritiene che l'informatizzazione non sia necessaria. Questa è una delle questioni che genera i maggiori equivoci tra gli operatori del settore. Non basta un buon programma di gestione informatizzata per risolvere i problemi della libreria, è opportuno che chi la dirige abbia le capacità per farlo. Il tempo che il computer fa risparmiare nella gestione di operazioni abituali (prenotazioni, fatturazioni, ricerche bibliografiche, contabilità) dovrebbe essere impiegato dal libraio per seguire con maggiore attenzione il cliente, in molte occasioni abbandonato a se stesso.

    In una delle domande aperte del questionario ho chiesto ai colleghi quale poteva essere la strada per favorire la diffusione della lettura nel nostro paese: il 47% ha posto l'accento sul ruolo della scuola, soprattutto dell'obbligo, che dovrebbe avere il compito di trasmettere il piacere della lettura, il 20% ritiene fondamentale l'uso dei mezzi di comunicazione, soprattutto della TV, per avvicinare più persone al libro attraverso campagne promozionali, il 10% sostiene la necessità di cambiare le politiche distributive con una diffusione più capillare sull'esempio dei giornalai, l'8% sostiene che la famiglia possa avere un ruolo determinante, abituando i bimbi al contatto con i libri sin dai primi anni d'infanzia, il 7% individua nella teledipendenza il maggior concorrente della lettura, il 5% degli intervistati sostiene che un sistema bibliotecario efficiente e con personale preparato sia un buon metodo di diffusione, infine il 3% è convinto che una maggiore professionalità del libraio fornirebbe più stimoli all'incentivazione della lettura.

    Dinanzi ad un panorama che vede avanzare altri canali di vendita, come la grande distribuzione, l'unico modo per salvaguardare le librerie è quello di accrescere la professionalità (non è casuale che il 30% dei responsabili di libreria interpellati abbia seguito i corsi di formazione della Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri) arricchendo le conoscenze tecniche senza tralasciare la promozione del libro e della lettura. proprio per questo motivo diventa prioritario potenziare e migliorare il livello di cultura di chi opera in libreria.

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    da LN - LibriNuovi n° 6 - estate 1998

    Ci pensiamo un'altra (S)volta

    Paperone, Qfwfq e i bilanci degli editori

    Zio Paperone, e in genere qualunque imprenditore comparisse nei fumetti di Paperino degli anni '60 (forse anche dopo, ma non posso esserne certo) aveva sempre un grafico alle spalle con una bella linea a zig-zag che puntava - nel caso di Paperone - immancabilmente verso l'alto, per i suoi concorrenti generalmente in basso.

    Da più grandicelli si arrivava a ipotizzare che la linea significasse "vendite" o "guadagni". Ripensandoci a più di trent'anni di distanza si finisce col decidere che, con un termine molto più raffinato, la linea spezzata dovesse indicare il "fatturato" o, più in generale il volume d'affari.

    Come faceva Paperone a ottenere la sua bella linea? Beh, la desumeva dal bilancio, sembra ovvio. Ovvio, ma non poi troppo, vedremo poi il perché. Comunque immaginiamo un ipotetico signor Qfwfq che desideri sommare i fatturati di tutti i bilanci di tutti gli editori italiani per vedere se nel corso del 1997 le cose sono andate bene o male. Immaginiamo anche che - faticosamente - ci riesca. Qfwfq fa la sua bella sommetta, la paragona a quella dell'anno precedente e poi aggiunge una righetta alla sua linea spezzata. Se va in alto è andata bene, se va in basso è andata male, se resta dritta è andata così così.

    La notizia interessante è che Qfwfq esiste davvero, si chiama Giulio Vigini, è accreditato come attento osservatore del mondo del libro e ogni anno compila un rapporto, allegato all'elenco aggiornato degli editori italiani, denominato: Breve rapporto sullo stato dell'editoria in Italia.

    Nell'edizione 1998 del rapporto (pubblicata nel gennaio 1998 e finita di stampare a novembre 1997) Qfwfq/Vigini dichiara: "Per il 1997: dopo un primo semestre piuttosto altalenante e complessivamente al ribasso, si attende un buon recupero nel secondo e una chiusura in positivo, ma non saranno certo risultati eclatanti".

    Infatti non lo sono stati. Basta un giro di telefonate presso qualche libraio disponibile per ricavarne la sensazione di un Natale 1997 almeno fiacco a coronare un anno piuttosto deprimente. Ma Qfwfq/Vigini non telefona ai librai, anzi, poco dopo (gennaio 1998) rilascia un intervista al sito internet alice.it (www.alice.it) a cura dell'agenzia Informazioni Editoriali, nella quale si sbilancia ben di più: " Il Natale è andato benissimo... Nel secondo semestre c'è stata una ripresa che ha permesso all'editoria di tirare il fiato... il 1998 potrà essere l'anno della svolta...", e via disegnando magnifiche sorti e progressive. Nuovi giro di telefonate, nuovi incontri. Almeno per Torino e zone limitrofe le affermazioni di Qfwfq paiono un pochino troppo rosee. Nella famosa intervista, tra l'altro, Vigini fa alcune affermazioni sul futuro del libro, delle librerie e dei librai che merita commentare, ma non roviniamo la suspense.

    Perplesso, provo a cambiar fonte: Tirature '98, curato da Vittorio Spinazzola, editore il Saggiatore.

    Abbastanza interessante senza essere prodigiosa, la raccolta di articoli di Spinazzola non presenta dati diretti, ma ospita un intervento intitolato "L'Enigma dei lettori" di P. Attanasio e E. Carfagna ed uno intitolato "Niente Maastricht per i libri" di Giovanni Peresson che, esaminando alcuni parametri come il grado di istruzione, la sua qualità, le caratteristiche del sistema bibliotecario nazionale, le politiche per la lettura attuate o meno dai governi succedutisi in Italia, l'arretratezza del Sud, la scarsa abitudine alla lettura, non danno molte speranze non solo per il 1998 ma anche per diversi anni a venire.

    E allora da dove nasce l'ottimismo di Qfwfq, pardon, di Vigini?

    Dal buon risultato dell'editoria per ragazzi? Dallo sviluppo dell'editoria elettronica e multimediale? Dalla sua buona volontà e dal fiuto?

    Ritorniamo a Zio Paperone.

    La sua linea spezzata nasce dai dati del bilancio. Ma i bilanci degli editori si basano in buona parte sulle vendite alle librerie. E le vendite alle librerie, a differenza di quelle di lavatrici o di cocaina sono suscettibili di resa da parte del cliente (la libreria) verso il fornitore (l'editore).

    Ne avevamo già parlato in una vecchio numero di LN, addirittura il numero 12 della vecchia serie, uscito nel marzo '90. All'epoca si polemizzava con il signor Ungarelli, allora megaboss della Rizzoli, che accusava i librai di non conoscere la struttura dei bilanci delle case editrici. Ungarelli sottolineava - piuttosto irritato - l'esistenza di una voce passiva nel bilancio dedicata alle rese da pervenire relative all'anno di esercizio, ovvero rese fatte l'anno prossimo di libri fatturati quest'anno. Su LN si notava - all'epoca - che probabilmente tale voce di bilancio era un pochino sottostimata, ma non per malizia, per carità.

    Come è andata poi la vicenda Rizzoli lo sanno tutti e, diciamo così, nessuno di noi è stato costretto a cambiare parere sull'argomento.

    Ma questo incidente ci permette anche di comprendere il filo del ragionamento di Qfwfq/Vigini, ovvero quali sono i suoi dati di partenza e qual è il loro grosso vizio di forma. La somma paperonesca dei fatturati, infatti, non è in grado di imputare l'incidenza delle rese relative alla produzione di quel particolare esercizio sull'esercizio stesso. Se si ha buon senso e buona volontà si può iscrivere in bilancio nei passivi: rese da ricevere relative all'esercizio in corso, seguito da una cifra in rosso, ma si tratta non solo di fantascienza economica, ma anche di fantascienza catastrofica. Chi sarà tanto masochista da ipotizzare rese del 35-40% del fatturato? Il guaio è che tali percentuali di resa esistono davvero, ma un manager che abbia il fegato di inserire nello stesso anno di esercizio le rese relative all'esercizio precedente e quelle relative all'anno in corso si deve ancora vedere.

    Anzi, il sospetto che si proceda in modo esattamente opposto è molto forte.

    Immaginiamo un grosso editore che a fine anno, nonostante gli invii a pioggia di novità, si trovi ugualmente in affanno. Siamo a fine dicembre, che fare? Semplicissimo: si spedisce nel mese di gennaio 1998 con bolle di consegna in data 30/12/97 e 31/12/97 una mezza vagonata di libri alle tremila e passa librerie italiane. Ed ecco che il gioco è fatto: il bilancio 1997 è salvo. Alle rese del 1998 ci penseremo nel 1999.

    Sotto questa luce la frase "il Natale è andato benissimo" comincia a prendere contorni inquietanti. A chi è andato benissimo il Natale, agli editori fatturatori o ai librai affatturati?

    Vizio di forma, si diceva: gli editori scopriranno a marzo-aprile 1998, quando contabilizzeranno le rese (a meno che - realtà romanzesca n° 2 - i colli e i bancali non vengano proprio aperti per guadagnare spiccioli di tempo ) che l'allegro Natale 1997 è stato in realtà una strage degli innocenti. Ecco quindi il "Primo semestre 1998 altalenante" a cui fa seguito, necessariamente (come da bilancio) un ottimo Natale.

    In più, il 1997 è stato l'anno del Nuovo Modello Distributivo Mondadori, ovvero (vedi LN 1) quello nel quale la Mondadori ha iniziato a inviare libri e fatturarli ai librai senza chieder loro se pensano di poterli vendere a qualcuno, uomo, cane o gatto. Così facendo Mondadori ha fatturato un 35% in più, un risultato davvero prodigioso che fa davvero ben sperare in una svolta, almeno finché non arriveranno le rese... Ma le rese stanno già arrivando e infatti da Aprile 1998 Mondadori cambia la formula degli invii, accorciando i tempi di pagamento sulla prima fornitura (quella di gran lunga più corposa) e allungandola sulla seconda, cioè sugli spiccioli e introducendo clausole restrittive sulle rese... Ma sicuramente è solo per difendere "la grande svolta del 1998" dai librai perfidi che si ostinano a rendere gli invenduti per sabotarla.

    Bisogna adeguarsi, scrive in Internet Qfwfq/Vigini. "Non hanno futuro le librerie troppo piccole. Il ritmo di vita dei libri (...) trasforma la libreria in una sorta di stazione ferroviaria: più è grande e più a lungo e in maggior quantità può ospitare quei vagoni in transito che sono ormai i libri. (...) Sarà il libraio a dover acquisire competenze sempre maggiori, anche informatiche, anche di gestione economico-finanziaria".

    Il rapido non ferma più nelle stazioni troppo piccole, in sostanza, e il libraio deve passare la vita davanti al computer per calcolare attentamente la data della prossima resa (se vuol tentare di sopravvivere).

    C'è qualcuno che trova esaltante l'immagine della stazione ferroviaria?

    Dovendola rendere con due parole sceglierei Caos e Anonimato, due vocaboli che non si sposano bene con l'immagine della libreria così come la concepisce un lettore.

    Già, e i lettori?

    Superflui, anzi esuberanti. É sufficiente che le librerie diventino ancor più simili a stazioni ferroviarie e riescano a resistere a invii sempre più ingenti e dei lettori se ne potrà anche fare a meno, perlomeno per il bilancio dell'anno in corso... per il prossimo anno qualcosa si farà.

    Insomma, ci pensiamo un'altra (S)volta.

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    - - > Intervista a Giuliano Vigini (da www.alice.it)

    Dopo una lunga crisi, sarà l'anno della ripresa

    Politica della lettura, tendenze del consumo, settori in crescita, librerie, distribuzione... molto sta cambiando, e forse gli anni della "grande depressione" del mercato editoriale stanno per finire. Dal suo osservatorio privilegiato Giuliano Vigini, direttore dell'Editrice Bibliografica e "mago dei numeri" dell'editoria italiana, guarda al 1998. Con ottimismo

    Come è stato l'anno appena terminato?

    Il 1997 è stato ancora un anno incerto e altalenante, un anno difficile.

    Però il Natale è andato benissimo, e in generale nel secondo semestre c'è stata una ripresa che ha permesso all'editoria di tirare fiato. Forse ci siamo. Non abbiamo ancora dati precisi, ma tutto lascia sperare e pensare che siamo davvero alla fine degli anni bui.

    Che sono cominciati quando?

    Nel 1992, quando crollarono tutti i consumi. In questi casi il libro non fa eccezione, anzi. Risente molto dell'instabilità politica e della depressione economica: in più, esiste una sorta di "sindrome da baratro" che fa svuotare le librerie, per esempio sotto elezioni. Questo accade, è vero, anche in occasione di grandi eventi come le olimpiadi o i mondiali di calcio, che spostano su di sé tutta l'attenzione del pubblico, ma è un fenomeno di altro genere.

    E il 1998 come sarà?

    Se il 1997 è stato un anno di transizione, il 1998 potrà essere l'anno della svolta. Continueranno a consolidarsi quei settori che già negli ultimi mesi sono cresciuti, in percentuale, più degli altri. Penso ai tascabili, ai best-seller sia in hard cover che in edizione economica, ai comici, che sono un fenomeno ciclico ora nuovamente in ascesa, per esempio con La smorfia e Benigni. Penso ai libri per ragazzi, un settore che ha guadagnato moltissimo grazie al lavoro di scuole e biblioteche, e alla forte politica di marketing di editori come Mondadori e Piemme. É sicuramente in crescita anche la manualistica tecnica-professionale, tutta l'area della formazione e più in generale tutta l'editoria educational: cresce il bisogno di acquisire competenze che sopperiscano alla mancanza di flessibilità del mercato del lavoro.

    Per non parlare dell'editoria religiosa, con colossi come le Paoline, le Edizioni San Paolo, le Dehoniane, Piemme. Un settore in forte sviluppo, nella prospettiva del Giubileo. Una tendenza che è già in atto, se pensiamo ad esempio la che Bibbia del Giubileo delle Edizioni San Paolo ha esaurito l'intera tiratura, oltre 10.000 copie: ed è in vendita a 990mila lire!.

    E il resto?

    Il resto soffre. Soffre la saggistica culturale: esperienze come quelle di Bollati Boringhieri, di Laterza o del Mulino non si possono più fare, i costi aumentano mentre diminuisce quel tipo di pubblico. Soffrono soprattutto i piccoli editori, è sempre più difficile emergere in un mercato selettivo e radicale in cui i grandi dominano l'industria dell'informazione e dello spettacolo, le mode e i consumi, mentre ai piccoli rimangono non il mercato, bensì nicchie, microsegmenti di mercato. Può funzionare quando il piccolo editore riesce a coniugare specializzazione e identificazione del pubblico, come per Castelvecchi o per Iperborea. I ritmi di cambiamento, di accelerazione dei gusti sono però tali, ormai, che chi non sa prevedere e prevenire gli eventi viene catapultato fuori dal mercato: e se esci, è difficilissimo rientrare.

    A quali editori sta pensando?

    A Sellerio, a Garzanti, anche ad Adelphi, che mi sembra in un periodo di affanno... É sempre più difficile vivere di eredità anche prestigiose, la via mediana è ormai una terra di nessuno: perché gli altri non stanno a guardare, sono sempre più aggressivi. Penso per esempio a Piemme, ma anche al gruppo Longanesi, che pratica una politica apparentemente non aggressiva, epperò di grande lucidità, velocità e forza distributiva. C'è anche, è vero, chi può ancora permettersi di guardare in tante direzioni, di esplorare aree letterarie diverse: come Feltrinelli, che ha anche la forza di una catena di 34 librerie. Insieme alle Paoline, che hanno 82 punti vendita, è la maggiore catena italiana.

    Ecco, le librerie: anche lì vale la regola che lei sembra delineare per gli editori, ovvero che il successo non sta più "nel mezzo"?

    Sì, la libreria generalista sta scomparendo, così come non hanno futuro le librerie troppo piccole. Il ritmo di vita dei libri, che escono ormai nella quantità di 140 titoli al giorno, e sono in maggioranza veri e propri fast books che non resistono sui banconi più di 40\50 giorni, trasforma la libreria in una sorta di stazione ferroviaria: più è grande, più a lungo e in maggior quantità può ospitare quei "vagoni" in transito che sono ormai i libri. Le esigenze sono poi sempre più ampie e diversificate, ai settori tradizionali si aggiungono nuove aree di interesse e nuove merceologie, dai periodici al multimediale: la libreria del futuro sarà più grande e decisamente polivalente, più confortevole e dinamica (penso alle strutture modulari della Mel di Roma, che cambia lay-out a seconda delle esigenze e della stagione, ad esempio nel periodo della scolastica). Oppure andrà verso la direzione opposta, verso l'estrema specializzazione in aree commerciali e produttive emergenti.

    Questo significa, ovviamente, che cambierà anche il mestiere di libraio.

    Certo. Stanno modificandosi anche le figure dell'editore e del redattore, che sono ormai un insieme di mestieri, di funzioni, di vocazioni diverse. Ma poiché continua ad essere più difficile vendere un buon libro che farlo, sarà il libraio a dover acquisire competenze sempre maggiori, anche informatiche, anche di gestione economico-finanziaria - per un pubblico "professionalizzato", che richiede più titoli, più velocemente, con più servizi.

    Che cos'altro potrà significare la "svolta" del 1998?

    Bisognerà entrare in una nuova ottica anche distributiva: con il teleordering e le vendite via Internet, ma anche nell'organizzazione dei singoli distributori.

    E sotto il profilo istituzionale?

    Mentre il ministro Veltroni conferma l'intenzione di fare presto una legge per il libro, stanno per partire una serie di iniziative. Sul piano dell'internazionalizzazione (potenziando i corsi di lingua italiana all'estero, e cercando di raggiungere tutto il pubblico italofono nel mondo), delle misure economiche e fiscali (accesso al credito più favorevole per editorie librerie), del potenziamento delle biblioteche scolastiche, affinché divengano perno di attività di laboratorio, di animazione, di incontro fra scrittori e ragazzi. Perché la scuola in fondo deve fornire o generare tre cose: cultura di base, metodo e passione.

    É la scuola, cioè, a creare i lettori?

    L'editore non crea il lettore, crea il cliente. La base è l'istruzione, è lì che si può formare un circolo virtuoso: che si può, cioè, ampliare il numero dei lettori forti (quelli che leggono più di 12 libri all'anno, e che sono oggi il 6% della popolazione, circa 3 milioni di persone), o forse intaccare la percentuale dei non lettori, che è del 50% secondo la Doxa e del 61% secondo l'Istat. Tutti, nell'editoria, dobbiamo essere preoccupati di come costruiamo e coltiviamo il lettore di domani. Molte ricerche provano che l'abitudine alla lettura, alta negli anni delle elementari e delle medie, crolla intorno ai diciott'anni, quando l'adolescente assimila i comportamenti di lettura degli adulti. Cresce anche il distacco fra maschi e femmine, a favore delle donne, che leggono sempre di più, in tutte le stagioni, libri anche lunghi e impegnativi: ci sono tanti segnali della crescente femminilizzazione della lettura, dalla presenza di tante scrittrici nelle classifiche o nei premi, al successo degli Harmony o di autrici come Danielle Steel, Sveva Casati Modignani, Patricia Cornwell.

    Quali sono i nemici della lettura, allora?

    Non tanto la televisione, che non sradica la motivazione profonda alla lettura, tutt'al più la rallenta. Piuttosto, il mito più dannoso è l'informazione: la battaglia è carta contro carta, il libro contro la falsa illusione di ottenere la conoscenza attraverso un'informazione a pioggia, non selezionata. La lettura è un ecosistema delicato: quando il 49,5% dice di non leggere per mancanza di tempo, allude in realtà alla frantumazione del tempo interiore, alla mancanza di serenità, silenzio, concentrazione.

    Che cosa si può fare, in questo campo?

    Non illudiamoci, il tempo e la qualità della lettura non aumenteranno. Le ferite di cui stiamo ancora soffrendo sono lunghe da rimarginare, tutti insieme dovremo creare le strutture e le condizioni per un nuovo sviluppo. Anche avviando una vera politica della lettura, purché adeguata: se c'è chi sta affogando a cinquanta metri dalla riva, è inutile gettargli una corda lunga dieci metri...


    Data dell'ultimo aggiornamento: 9 febbraio 1998 ©opyright 1996-98 Informazioni Editoriali I.E.

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    da LN - LibriNuovi n° 7 - autunno 1998

    Vivere vendendo (e leggendo) libri

    LN - LibriNuovi, da quando esiste, ha sempre dedicato uno spazio alla realtà commerciale del libro e al rapporto che esiste tra essa e la fruizione, disponibilità e qualità del prodotto-libro. Questo percorso, che ha reso LN un'interfaccia molto porosa tra i lettori e chi del libro si occupa professionalmente (librai ma non solo, anche rappresentanti, distributori, editori, traduttori, redattori, tipografi) si articola ora meglio in questo spazio, aperto ad altre voci e ad ulteriori interventi.

    Non si tratta, lo vogliamo puntualizzare da subito, di uno spazio mondano, appagato, raffinato e sereno: la situazione del libro e delle librerie non ci permetterà per un lungo tratto di ostentare ottimismo e pace interiore. Non intende neppure assolvere una funzione di ordine sindacale, i librai posseggono propri organismi associativi ai quali fare riferimento per problemi normativi e di categoria. Il suo scopo è, ancora una volta, il dialogo con i lettori, la costruzione di punti di riferimento comuni sul tema del libro e della lettura in Italia.

    Dal canto nostro siamo librai e intendiamo restarlo, non vogliamo rendere le nostre librerie "stazioni ferroviarie" dove "ospitare quei vagoni in transito che sono ormai i libri" (vedi G. Vigini cit. in LN 6), siamo stanchi di orari di apertura che ricordano i turni di lavoro di fanciulli settecenteschi, e siamo nauseati dalla qualità, in caduta libera, di buona parte di ciò che ci viene proposto dagli editori. Facciamo resistenza - un po' infantili e un po' disgraziati - e siamo costernati di dover passare sempre più tempo attaccati ad un computer ad "acquisire competenze sempre maggiori, anche informatiche, anche di gestione economico-finanziaria [ibidem]" invece di leggere, suggerire percorsi di lettura, discutere di libri con chi entra nelle nostre bottegucce (non abbiamo grandi spazi a disposizione, noi). Siamo altresì persuasi che il nostro ruolo non sia esaurito, anzi, che eliminando il nostro ruolo di librivendoli, impedendoci di leggere, si finisca per rendere un pessimo servizio all'intero settore. Non crediamo esistano lettori disponibili a prendere sul serio un libraio incerto e senza opinioni, con l'occhio pallato da hacker nottambulo, un libraio che (guarda caso) consiglia (vergognandosene) proprio uno dei dieci libri segnalati nella classifica dei più venduti, un libraio del quale - tutto sommato - si può fare agevolmente a meno. La graduale scomparsa della figura del libraio rappresenta una grave perdita di competenze e sensibilità, e non solo per pochi romantici. É certo possibile che il lettore si trasferisca armi e bagagli al supermercato, come no, ma l'ipotesi non è così ovvia come appare. I lettori medi e forti non sono semplici consumatori ma appassionati individualisti, motivati e critici, e da come stanno andando le cose riteniamo più probabile che davanti all'agonia della libreria privata finiscano per rinchiudersi in casa a rileggere gli autori classici preferiti, magari scaricandoli da Internet.

    Come sanno anche le pietre (ma apparentemente non i grandi editori), la convinzione è convincente, e non esiste venditore migliore di un libraio che ha davvero letto e apprezzato il libro che presenta. Ma il guaio è che - sempre di più - non c'è tempo, che la libreria media e piccola (la clientela diffusa come la definisce cortesemente RCS Libri) o la libreria "storica", dalla forte connotazione culturale sono strozzature del sistema distributivo, intrinsecamente antieconomiche. Siamo onesti: il sogno dei grandi editori e distributori non sono forse poche, titaniche librerie che vendano tutto a tutte le ore del giorno e della notte, lustre, anonime ed efficienti? Questo permetterebbe loro di eliminare le reti commerciali e le filiali locali, abbassando drasticamente i costi di promozione e distribuzione, oltre a consentire succulenti e faraonici risparmi sugli invii.

    Ma come in tutti gli altri settori che hanno già sperimentato questo genere di razionalizzazione, questo felice sogno manageriale comporta una cospicua perdita di posti di lavoro, un grado zero di iniziativa e una caduta a vite della qualità della vita, sia per chi si serve presso questi futuribili megastore che per chi vi lavora.

    E poi, probabilmente, non si tratta solo di questo. Su LN 24 (prima serie) veniva citata una frase pronunciata dall'allora Manager Mondadori nel corso di una seduta della Scuola Librai di Venezia. Il Demiurgo in carica all'epoca, più o meno quattro manager fa, aveva candidamente dichiarato che un libraio "non ha il diritto di rifiutare un prodotto Mondadori, questo perché [esso è] frutto di scelte e investimenti insindacabili per lui". Come dire: c'è L'Imprenditore (grande, potente, che investe e produce) e l'imprenditore (con la "i" lillipuziana, quasi invisibile). Effettivamente avevamo già avuto la sensazione che le cose stessero in questi termini. É chiaro che partendo da assunti di questo genere un libraio (per giunta medio, piccolo o storico) che coltivi l'amore per la lettura ed esibisca propri gusti ben precisi diviene, ipso facto, un agente del caos, pericoloso per se stesso e per gli altri.

    Questo spazio diverrà così il luogo dove manifestare pubblicamente i nostri irredimibili difetti.

    Ma non siamo qui solo per polemizzare o per resistere, difendendo il nostro posto di lavoro e il vostro diritto di lettori di seguire percorsi personali e fecondi di lettura. Vogliamo anche proporre, organizzare, liberare energie. Così i Librivendoli nasce non solo come spazio aperto agli interventi, alle testimonianze, alle riflessioni, ma anche come marchio collettivo - modulare e polimorfo - che organizzerà eventi, incontri, letture pubbliche. Nulla di faraonico, corrivo, troppo rarefatto o prevedibile (almeno speriamo) ma opportunità e occasioni che mettano al primo posto il gesto di leggere, il confronto di esperienze, la riflessione sulla lettura, che - in breve - privilegino la qualità, ovvero, secondo Dietrich Bonhoeffer: "il più potente nemico di ogni forma di massificazione".

    Ci piacerebbe riuscire a varare una classifica dei libri che sono piaciuti di più (e non una pletorica classifica dei libri più venduti), ci piacerebbe rompere le tasche esibendo dati sul gradimento reale di un libro molto o abbastanza venduto, saremmo contenti di discutere dei postumi di una lettura e non solo di motivazioni all'acquisto. Infatti - ancora una volta rèprobi - siamo convinti che sia impossibile spezzare il ciclo della fruizione di una lettura in un punto desiderato. Il lettore deluso, infatti, diviene diffidente, sempre più diffidente, fino alla paranoia e alla rinuncia all'acquisto.

    Vogliamo invitare fin d'ora tutti coloro che non hanno del tutto perso le speranze, coloro per i quali i giochi non sono ancora chiusi, a partecipare a una giornata di riflessione e di iniziativa su questi temi, la cui data sarà comunicata personalmente a tutti coloro che si metteranno in contatto con noi.

    Vorremmo tornare a parlare di libri, per una volta, e non solo e non sempre di indici di rotazione, cash-flow, marketing e sell-out. Vogliamo tornare al punto, insomma, e il punto è leggere.

    i Librivendoli

    Massimo Citi - Libreria C.S. - Torino

    Silvia De Vecchi - Libreria La Città del Sole - Torino

    Rocco Pinto - Libreria La Torre di Abele - Torino

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    da LN - LibriNuovi n° 8 - inverno 1998

    L’importante è far finta di nulla

    Essere autori di una previsione che finisce con l'avverarsi procura, insieme alla soddisfazione, un certo grado di amarezza. Tanto più se la previsione riguarda la propria attività professionale e quindi, in ultima analisi, la propria esistenza.

    Non era necessario essere Isaia per profetizzare il fallimento del Nuovo Modello Distributivo Mondadoriano. Venduto come panacea di tutti i mali (".... questo ragasso ha dato il prodotto alla propia mamma morente e l'ha vista rialsarsi dal letto di malattia..."), presentato come l'avvento del Grande Fratello Benefico e armato di PC, che sapeva alla perfezione che cosa avremmo venduto senza nemmeno una telefonata, si è infine rivelato per ciò che era: un arrogante e maldestro tentativo di scaricare a valle, cioè sulle librerie, il fallimento della propria politica editoriale e commerciale.

    Adesso si parla di rese che superano i cento miliardi (quante migliaia di scatoloni sono cento e più miliardi in libri? Cinquantamila, centomila, centocinquantamila? E dentro ogni scatolone quanti libri ci sono? Venti? Trenta? Cinquanta?) e di una drammatica ristrutturazione della rete di promozione Mondadori per le librerie.

    Il 1998 l'anno della svolta?

    In un certo senso l'ipotesi presentata da Giulio Vigini si è rivelata vera (cfr. LN 6). Il fallimento del piano Mondadori e la susseguente riduzione della rete vendita accelererà la chiusura dei punti vendita minori e periferici. Sempre di più i colossi dell'editoria e della distribuzione punteranno su un numero ridotto di librerie, non per malinteso gusto del management moderno ma per stringente necessità, perché i conti vanno male e si devono ridurre i costi, tagliare, ridimensionare, razionalizzare.

    Le Messaggerie Libri hanno chiuso molte filiali periferiche - tra le quali quella torinese - e altre ne chiuderanno. Sempre di più l'editoria italiana è costretta a puntare sulla novità, sul "lancio" che crea fatturato subito, trascurando i rifornimenti spontanei da parte delle librerie, costosi in termini di stoccaggio, di personale e di consegna.

    In questo modo un libro pubblicato non più di sei mesi prima è condannato a una precocissima obsolescenza. I riordini tardano e le notizie in proposito sono vaghe, imprecise o decisamente inventate. Le riduzioni / razionalizzazioni del personale hanno fatto in modo che le stesse persone incaricate della contabilizzazione delle rese debbano anche smaltire gli ordini delle librerie. Nonostante le pretese di efficienza il risultato è sotto gli occhi non soltanto dei librai ma anche dei lettori: i libri richiesti non arrivano, si viene rimandati da un giorno all'altro, da una settimana all'altra.

    E questo andamento delle disponibilità, se accelera la crisi dei piccoli punti vendita, finisce anche con accentuare la disaffezione per la lettura.

    Farisaicamente sui quotidiani e settimanali giornalisti, scrittori e anime belle assortite - non escluse quelle di salda fede progressista - piangono sulla scarsa abitudine alla lettura in Italia. Ma non capita praticamente mai di leggere informazioni o reportage sul malfunzionamento della rete distributiva. Così questo genere di petizioni di principio, ad un orecchio esercitato, suonano grottescamente simili alle lamentela di un commerciante di carne di maiale che si lagni delle smanie per la carne di tacchino. Ciò che rende ipnotiche e bene accette le sofferenze (anche per i diritti d'autore non percepiti?) di intellettuali e giornalisti di vaglia è per l'appello alla complicità verso lettori di buone intenzioni e cuore puro, che prontamente deplorano ("ah, i giovani che non leggono!") mentre si lusingano di far parte della stessa categoria dei Citati, degli Scalfari, dei Serra.

    I fatturati dimagriscono, le rese aumentano e l'unica soluzione che i grandi gruppi riescono ad immaginare è di aumentare lo sforzo per riempire le librerie di altre novità, troppo spesso mal scelte, affrettatamente tradotte e peggio corrette, che intasano banchi e scaffali, asfissiando il libraio e mettendo in fuga anche il lettore più benintenzionato.

    Chi lavora nel settore ha la crescente sensazione che il punto di rottura sia già stato raggiunto e superato, ma non ha il tempo di riflettere. Ci sono altre scatole di novità da aprire, libri da disporre, rese da preparare, agenti da ricevere. Il cliente è diventato un rompiscatole, un accidente in una giornata interamente dedicata ad aprire e chiudere scatole negli intervalli di tempo non dedicati al computer.

    Infatti, per mettere insieme due idee per questo articolo ho dovuto aspettare di essere fuori dalla libreria, a casa, alle 22.50.

    Il "sogno delle grandi superfici", ovvero librerie e supermercati che siano in grado di assorbire senza fatica i numeri deliranti che possono permettere ai grandi dell'editoria di tirare il fiato per pochi mesi, ha assunto le caratteristiche di un incubo, per le piccole-medie librerie. I progetti della proprietà - di qualunque proprietà - hanno da sempre un suono mellifluo e modernizzante. "Librerie moderne, luminose, efficienti, che possano esporre nella maniera migliore il prodotto" (per il breve tempo che questo rimarrà disponibile). La velocità nell'arrivo e nella partenza dei libri presentata come frizzante ed eccitante novità, levigato gioco, elegante kermesse. Dietro, giù-e-in-basso ci sono le librerie vicine alla chiusura, il personale delle case editrici obbligato ad un rapporto di lavoro precario - spacciato per attività free-lance - i dipendenti della distribuzione ricattati e obbligati a turni di lavoro massacranti. Questo è il significato pieno della "razionalizzazione" del settore, una linea d'azione che - come sempre accade - viene sempre più accelerata in rapporto al profilarsi del suo fallimento.

    E il settore si riduce, si contrae, si impoverisce di passione, di talento, di speranze. Un management stupidamente caparbio continua allegramente a puntare sul sogno di un profitto purchessia da presentare al consiglio di amministrazione della holding di turno, un profitto risicato e con il fiato sempre più corto. Anche il libro, dopo anni di apparente immunità, è vittima del capitalismo nella sua fase matura, basato sulla contrazione piuttosto che sullo sviluppo, sulla sistematica emarginazione di gruppi di operatori, sospinti alla periferia ed infine espulsi dal settore produttivo.

    Sta accadendo anche ai librai, come è già accaduto (orrore!) ai lavoratori della siderurgia, ai salumieri, ai rappresentanti di tessuti, alle trattorie toscane... E c'è ancora qualcuno, tra i librai medi e piccoli, che crede di avere abbastanza iniziativa e intelligenza per non essere ingoiato dalla razionalizzazione. Qualcuno che rumina tra sé le stesse illusioni che hanno cullato milioni di lavoratori di ogni parte del mondo e di ogni settore, sicuramente la più ghiotta delle illusioni per chi deve progettare tagli e ristrutturazioni.

    L'importante è far finta di nulla, credere che in fondo lo scopo della grande editoria sia quello di vendere libri, e insieme, creare cultura. Ossia il nostro stesso scopo, di librai e di lettori.

    E invece no, non è vero. Scopo della grande editoria è quello di produrre profitto. Qui, adesso, ad ogni costo e ad ogni prezzo, macinandolo anno su anno. Altrimenti a rischiare sono le carriere dei manager. Dio non lo voglia!

    (Massimo Citi - Libreria CS - Torino)


    Se il 1997 non è stato un anno positivo, il 1998 è stato un anno ancor più radicale nel delineare le reali dimensioni della crisi.

    Quanti 1998 devono ancora venire perché chi opera nel settore cominci a rendersi conto che il livello di riflessione sullo stato del libro è tragicamente inadeguato?

    La Scuola Librai Mauri di Venezia invia annualmente ai librai il rapporto dei corsi tenuti, gremito di foto di docenti e discenti come un album di famiglia, accompagnato dall'intervento di qualche intellettuale di spicco - l'ultimo è stato Umberto Eco - tutti più o meno schierati dalla parte del progresso e delle magnifiche sorti del libro, in forma elettronica, telematica, virtuale, tutti accomunati (anche Eco) dall'assoluto disinteresse per lo stato reale del settore. Album di famiglia, si diceva, la grande famiglia intellettuale alla quale anche noi librai ci lusinghiamo di appartenere. Il guaio è che, ovviamente, non siamo una bella famiglia felice.

    Abbiamo la necessità di dati e di riflessioni nati all'interno del settore e non dispensati come unica realtà da un gigante della distribuzione unicamente (e giustamente, dal suo punto di vista) preoccupato dalle sofferenze delle proprie ricevute bancarie. A tutt'oggi mancano i dati reali degli invenduti, del reale assorbimento delle novità, dei titoli invenduti perché non ristampati tempestivamente dall'editore o non stoccati in quantità adeguata dal distributore di turno.

    Ognuno di noi librai è tentato di farne un proprio problema, di assortimento, di scelta, di esposizione, di iniziativa. E se non fosse così? Se il problema fosse davvero generale?

    Non penso che sia necessario ripetere quanto affermato nell'articolo precedente. Credo sia divenuto urgente avviare una seria riflessione - basata su dati reali - su situazione e futuro del libro.

    Lo scopo non è quello di trovare spalle sulle quali piangere ma di cominciare a definire con nostri strumenti, e valendoci della collaborazione di altri soggetti del settore (rappresentanti, grossisti, responsabili commerciali di piccoli e medi editori), tendenze e prospettive del libro.

    Abbiamo la semplice ambizione di farne un punto di partenza, un'occasione per confrontare dati ed esperienze, il via a un lavoro non breve e non facile e che, forse, arriva già a tempo scaduto. Ma noi ci siamo stancati di semplici lamenti e di buone intenzioni. E voi?

    (Rocco Pinto - Libreria La Torre di Abele - Torino)

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    da LN - LibriNuovi n° 9 - Primavera 1999

    Libri subito o mai più

    Come osservava un amico libraio: "...Ogni anno che passa questi qua (i manager editoriali / distributivi) diventano sempre peggio, sempre più aggressivi e protervi".

    Se qualcuno ne vuole una prova non ha che da leggere l'intervista apparsa su Tirature 1999 - autori editori pubblico, a cura di V. Spinazzola, Il Saggiatore Editore, concessa da Luciano Mauri, presidente delle Messaggerie Italiane, a Fabio Gambaro.

    Già il titolo: La lettura è legata alla modernità suona fortemente ambiguo, coniugando il bene supremo per tutti (la lettura) con la modernità, un formidabile feticcio ideologico che nessuno ha la sconsideratezza di sfidare. E poi, di quale modernità parla, Mauri?

    Ovviamente dell'unica modernità concepibile oggi, fondata sull'assunto che si sia destinati a uno sviluppo quantitativo ininterrotto, che le opportunità, le occasioni, la ricchezza - e soprattutto gli irriducibili indici che le misurano - non possano far altro che crescere. Così in meno di dieci pagine Mauri presenta l'ultima release del verbo manageriale in editoria che recita:

    A) Gli italiani sono ignoranti e quindi leggono poco, oppure leggono poco e quindi sono ignoranti. La colpa è di tanti, ovvero non è di nessuno. Ma la situazione non può che migliorare.

    B) Il numero di titoli pubblicati è un preciso segnale dello sviluppo del settore (l'hanno già detto Mondadori e Rizzoli, Messaggerie non è da meno).

    C) Solo facendo molti titoli nuovi si possono vendere anche i titoli vecchi (pagina 160), ma rendere disponibili i titoli vecchi è difficile e costoso e quindi non abbiamo più intenzione di farlo (pagina 165).

    D) Noi (loro) abbiamo i dati veri sulle vendite dei libri ma nessuno ce li chiede. E così gli intellettuali e gli universitari fatalmente parlano a vuoto. In tutti i casi i librai devono imparare a fare il loro mestiere. E per questo c'è la Scuola Librai.

    E) I librai devono accettare il fatto che non è (più) loro compito scegliere i libri, né tantomeno criticare o giudicare le scelte editoriali. Devono invece curare l'esposizione e l'assortimento, ruotare il magazzino, pagare puntualmente le ricevute bancarie e accogliere con gioia l'arrivo delle novità.

    Un simile atteggiamento i librai, e non solo loro, probabilmente se lo meritano. Se anche Mauri si cimenta, sul modello di Gian Arturo Ferrari della Mondadori, nell'insegnamento del mestiere a duemila e passa librai italiani che - fino a prova contraria - sono suoi clienti, dev'essere accaduto qualcosa che abbiamo dimenticato o rimosso, deve esserci uno snodo, un episodio che ha mutato le coordinate del sistema.

    Sarà per questo - detto en passant - che Tirature 99 non tenta neppure un accenno di contraddittorio e, parlando di distribuzione libraria, non dà la parola a nessun libraio? Eppure non parrebbe poi così irrilevante fornire ai lettori anche il parere di un professionista della distribuzione al pubblico e non solo quella di un big della distribuzione alle librerie. Siamo dunque divenuti tutti così ininfluenti?

    Nel corso dell'intervista Mauri fa cenno ad un livello minimo di vendite per salvare o meno un titolo in commercio, ossia di "almeno duecento copie all'anno".

    Non è molto, penserà il lettore, in fondo gli italiani sono 60 milioni. È vero, ma a leggere sono decisamente meno della metà, e a leggere abitualmente molti meno, e sono numerosi i titoli che escono con tirature che non superano le 2/3.000 copie.

    Il calcolo è presto fatto: ipotizziamo un titolo di saggistica stampato in 2.000 copie alla prima tiratura. Di queste le copie effettivamente vendute nel corso del primo anno di uscita, ovvero vendute ai lettori e non solo ai librai, sono state 1.000, un andamento tutt'altro che raro. Nel corso del secondo anno dall'uscita vi sono ancora 150 ordini da parte delle librerie d'Italia e Messaggerie queste copie (forse) le fornirà ancora, ma al terzo anno basta, chiuderà i rubinetti. Il titolo, infamato con l'appellativo "a bassa rotazione", cesserà semplicemente di essere distribuito.

    E al lettore che nel 1999 giunge in libreria fiducioso dicendo: "È un titolo recente, è uscito nel 1997" l'unica risposta possibile dovrà essere: "Ma si figuri, è a bassa rotazione. Legga piuttosto Wilbur Smith, che è sempre disponibile."

    Ma stiamo scherzando? Si parla di libri, ossia di cultura, il fondamento immateriale della civiltà, un bene che - sorge il dubbio - è davvero troppo fragile ed essenziale per essere amministrato dai manager editoriali.

    E le case editrici, che sono l'altro polo della clientela delle Messaggerie, cosa dicono? Poco o nulla, parrebbe. È pur vero che non poche tra loro sopravvivono anche grazie agli anticipi versati dalle Messaggerie sulle copie distribuite, ma questo non è vero per tutti e comunque quella di lasciarsi strangolare lentamente dal proprio partner può sembrare una buona idea giusto a dei masochisti ubriachi.

    Ma le convinzioni di Mauri non sono evidentemente solo sue e rappresentano la linea d'azione dominante nel comparto. Tuttolibri infatti ha da poco pubblicato un breve articolo sulle opportunità fornite dalla stampa digitale, che permette di ristampare in poche copie qualsiasi libro scarsamente disponibile. Certamente si tratta di un'ottima idea (non nuova, peraltro, basti leggere l'intervista all'editore Trauben pubblicata su LN 2, primavera 1997), sicuramente utilissima, ma la stampa digitale non crea i libri e, naturalmente, non può risolvere le difficoltà della piccola e media editoria, che per lo più non nascono da difficoltà nel produrre ristampe quanto nel renderle disponibili alle librerie, ovvero convincere il distributore a distribuirle...

    "Beh, ma le Messaggerie non sono l'unico distributore italiano."

    È vero, ma per una libreria media o medio-piccola che non vive esclusivamente di best-seller la mancata consegna di un titolo ordinato (in realtà i titoli non consegnati dalle Messaggerie sono mediamente il 20-30% a ordine, con punte che possono arrivare al 60%, e di questi non più del 5-10% sono effettivamente in ristampa o esauriti) costituisce un danno non solo economico ma anche - e grave - di immagine.

    I mancanti sono nella maggior parte dei casi (anche se non esclusivamente) esattamente i famosi "titoli a bassa rotazione", transitati dall'essere pocoroteanti alla virtuale inesistenza. Ma la colpa è degli editori, assicura Mauri, e gli editori si inchinano, vanno alle riunioni con le Messaggerie e annuiscono. Probabilmente sperano anche loro nel futuro sognato da Messaggerie e Mondadori, fatto di megalibrerie da 5.000 metri quadrati, le uniche che possano ospitare la megaproduzione di novità che ci attende.

    A proposito. Mauri spiega che un maggior numero di novità è un segnale di salute per la cultura italiana e che "finalmente l'Italia si sta allineando con la produzione straniera".

    Si guarda bene dal dire che non esiste uniformità a livello mondiale neppure nella definizione di "libro", dal momento che, tanto per fare un esempio, in Germania può essere considerato un libro - ai fini statistici - anche un foglio A3 piegato in otto. E non basta: non solo Mauri non azzarda calcoli controproducenti come, per esempio, dividere il numero di titoli per il numero di lettori abituali - quoziente che risulterebbe disastroso - ma neppure accenna al problema della lingua. Sì, perché a leggere in italiano ci sono soltanto gli italiani mentre a leggere in inglese, francese, tedesco, spagnolo sono in tanti, sparsi per tutto il mondo. Esistono - è vero - ostacoli nella circolazione di libri omofoni in aree geografiche differenti, come ricorda anche Paola Dubini in Voltare pagina, Etaslibri 1997, ma nulla di paragonabile, ovviamente, all'ostacolo insormontabile costituito dal fatto che l'italiano è comunque una lingua poco diffusa. E in tutti i casi la presunta "ricchezza" data dall'iperproduzione di titoli è solo un discutibilissimo parere dei giganti del settore, non una verità rivelata. Basti citare Peresson in Come e dove si legge: "...Francia e Italia hanno lo stesso numero di abitanti, ma un differenziale molto marcato nel rapporto tra numero di copie stampate e numero di abitanti (...) e nel fatturato per abitante. Il minor numero di copie stampate per abitante (...) rappresenta un rudimentale indicatore della propensione alla lettura...".

    E allora, come la mettiamo? La tiratura media delle opere pubblicate in Italia è in calo dall'inizio degli anni '90 e, se dobbiamo credere nel parere di Peresson, abbiamo ben pochi motivi per credere nell'ottimismo di Mauri.

    In realtà è proprio la profonda crisi dell'editoria a spingere un management pseudomoderno a tentare di salvare innanzitutto se stesso, a qualsiasi prezzo. La ristrutturazione da tempo attuata nel settore, una ristrutturazione basata su licenziamenti, prepensionamenti, diffusione del lavoro nero (gabellato da attività di consulenza), permette ai grandi editori di puntare su un ventaglio di titoli a bassa tiratura, piuttosto che puntare su pochi titoli ad alta tiratura. Questo scarica a valle, ossia sulle librerie, buona parte del rischio d'impresa (alla faccia di tutta la retorica neoliberista che circola ultimamente), obbligandole a sovraccaricarsi di titoli sempre più spesso maltradotti, poco curati e/o decisamente insulsi, al solo scopo di fare fatturato a tutti i costi e salvar l'anno (e il posto dei manager in questione).

    Le librerie, certo, renderanno gli invenduti (una percentuale che cresce di anno in anno), se non altro per ospitare altri titoli, ma a guadagnarci comunque da tutto questo movimento, questo balletto di libri sbattuti sui tavoli delle librerie e risbattuti a tempo di record negli scatoloni per tornare al mittente, sono esattamente (e solo) i distributori come le Messaggerie.

    Si comprende facilmente, a questo punto, l'ostinazione feroce nel caldeggiare la necessità di sempre più ampi spazi per la vendita. I librai dotati di un minimo di discernimento, infatti, cercano di sottrarsi a questa kermesse, si sforzano di valutare i titoli in anticipo, di controllare il proprio assortimento. Non sono semplici terminali della filiera editoriale, ma in non pochi casi un filtro all'iperproduzione. Sono probabilmente questi i "cattivi librai" dei quali parla Mauri, quelli che, pur avendo frequentato la Scuola Librai, se ne sono tornati a casa con un proprio gruzzolo di idee e convinzioni.

    Ma sono forse troppo pochi e ancor più sono isolati. Ecco la risposta all'osservazione riportata all'inizio dell'articolo. C'è un solo modo per rispondere all'aggressività del management: cominciare a ragionare sulla situazione. Noi non abbiamo in tasca soluzioni, né proposte immediatamente efficaci. Ma crediamo che cominciare a riflettere sullo stato delle cose possa essere un primo passo in avanti. Crediamo anche che altri soggetti - rappresentanti, distributori locali, editori di qualità - rischino quanto noi di essere emarginati o omologati, perdendo motivo di esistere.

    Per questo vi invitiamo martedì 30 marzo all'incontro: Librerie indipendenti: le ragioni per (r)esistere presso la libreria La Torre di Abele alle ore 21.00. Proprio per cominciare - insieme - a pensarci.

    (Massimo Citi, libreria CS, Torino - Rocco Pinto, libreria La Torre di Abele, Torino, Silvia De Vecchi, libreria La Città del Sole, Torino)

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    La cultura della Rotazione

    "...Il servizio alla clientela degli americani è migliore e inoltre ritengo che facciano più attenzione a essere buoni venditori che non profondi conoscitori dei libri che vendono ... Il numero di librai indipendenti americani è passato da quasi due terzi sul mercato del 1972 a meno di un quinto oggi... Penso anche che la vendita via Internet avrà un ruolo importante."

    Così Alan Giles, direttore generale di Waterstone's (una delle principali catene di vendita librarie nel Regno Unito), alla Scuola Librai edizione 1999.

    Deprimente, non è vero? Ma siamo solo all'inizio. Continuiamo con l'intervento di Herbert R. Lottman (La rivoluzione libraria), pronunciato nella stessa occasione. "...L'obiettivo di FNAC, nel lungo termine, assieme ai suoi partner italiani [Feltrinelli, si suppone, N.d.R.] è l'apertura di 30 librerie in Italia focalizzate su città prospere di medie dimensioni."

    In entrambi gli interventi vengono frequentemente citate le librerie di grande ed enorme superficie (superlibrerie, le chiama Lottman) con 150.000 titoli a stock e 3.000 metri quadrati di superficie, prospettandone di ulteriormente grandi (iperlibrerie? gigalibrerie? theralibrerie?) con 300.000 titoli e superfici di 6.000 metri quadri.

    A parte la sensazione di schiacciante inferiorità dovuta al fatto di lavorare in librerie che non superano i duecento metri quadri, ben lontane dall'avere a stock un simile numero di titoli (anche in omaggio al minaccioso e onnipotente iR o indice di Rotazione), l'impressione che si ricava dalla lettura di tali articoli e interventi è di una frenesia quasi carnale per il gigantismo (sinergie, sinergie...) che ricorda molto la corsa al tonnellaggio delle corazzate dei primi anni del secolo.

    Esattamente come nel caso delle Marine da guerra di inizio secolo ciò che sembra mancare completamente nelle cifre sparate a bordata è l'elemento umano. E non parliamo soltanto di autori, librai, editori e altri simili operatori, qui definitivamente standardizzati in un meccanismo di profitto senza controllo, ma soprattutto dei lettori, intesi come individui autodiretti tesi al soddisfacimento di una necessità di formazione, rigenerazione o ricreazione.

    Si obietterà che in una libreria dove sono presenti 150.000 o 300.000 titoli qualsiasi lettore, anche il più stravagante, potrà trovare il libro che cerca, ma ciò che non viene minimamente spiegato è il meccanismo che ha necessariamente condotto alla nascita di simili "mostri".

    E il nostro discorso non può che partire proprio dal famoso e già citato iR (indice di Rotazione).

    Che il magazzino debba "ruotare", ovvero che l'investimento in stock debba essere premiato e non restare immobilizzato, è una verità lapalissiana anche per chi non è stato alla Bocconi. Che si possa e si debba calcolare l'iR anche per argomento (libri per ragazzi, libri scolastici ecc.) o per casa editrice è sicuramente una condotta lodevole, tenendo presente che non si può ragionevolmente pretendere che lo scaffale di libri di poesia "ruoti" con la stessa velocità di quello dei gialli economici. Ulteriori e più complesse misurazioni sono possibili e in certi casi auspicabili, sempre commisurando il beneficio rispetto al costo di trascurare aspetti altrettanto vitali della propria attività.

    Una libreria che tenga sotto controllo in maniera tanto raffinata il proprio stock è in grado, presumibilmente, di giungere ad eliminare definitivamente dal proprio assortimento titoli che ruotino a una velocità troppo bassa. Finchè seduto davanti alla tastiera del PC vi è un libraio, ovvero un soggetto in qualche modo abilitato anche dalla personale conoscenza del proprio pubblico, da propri gusti e convinzioni personali, dall'esigenza di creare percorsi culturali a favore della propria clientela, la scelta dei titoli da eliminare sarà guidata da un elemento umano. Se il libraio sbaglia sarà il primo a pagare per le proprie errate valutazioni, se indovina è bravo.

    La ricerca di un ragionevole profitto è certamente un elemento che pesa in questo genere di valutazioni, ma non è il solo, o, perlomeno, è temperato da altre esigenze.

    Ma ora proviamo a postulare che a "decidere" lo stock sia esclusivamente l'iR.

    Scaffale di Archeologia: previsione 50 titoli. Domanda: quali sono i 50 titoli che hanno avuto il più alto iR negli ultimi 5 anni? Bene, ne compriamo 3 ciascuno. Se entrano novità con un iR più alto il PC provvederà automaticamente ad eliminare i titoli più lenti, senza alcun riguardo per il nome dell'autore o per il valore intrinseco del libro.

    Se la libreria è piccola i titoli saranno 10, se grande 50, se grandissima 200 o 300, numeri ovviamente suscettibili di fluttuazioni in rapporto ai momenti e alle mode. Il criterio dell'iR sarà comunque rispettato. D'altro canto, per citare Alan Giles, si tratta di essere "buoni venditori, piuttosto che profondi conoscitori dei libri in vendita".

    Al lettore non resta così che accomodarsi presso la superlibreria di turno, dove certamente troverà il suo libro, purché a iR sufficientemente alto. Non quasi come se si trattasse di marche di maionese, ma esattamente come se si trattasse di marche di maionese o barattoli di pelati.

    Ma il fatto è che la capacità di "proporre" un titolo al pubblico non è la medesima, ed è in rapporto alle dimensioni dell'editore e alle sue caratteristiche.

    Solo i grandi editori possono attuare una politica commerciale aggressiva e "invadere" le librerie, rendendosi così ben visibili. Non solo, le esigenze della distribuzione rendono difficile la vita dei medi e piccoli editori, basti citare Angelo Tantazzi (Previsioni economiche mondiali nel bollettino n° 17 della Scuola Librai, p. 17): "... se il fatturato complessivo non aumenta, la concorrenza si acuisce, ogni operatore lotta a spese dell'altro, e questo avviene sia all'interno della distribuzione che nel rapporto tra produttori e distributori".

    L'andamento del nuovo sistema di distribuzione attuato dalle Messaggerie, con la centralizzazione dei magazzini, ne è un eccellente esempio: nel breve volgere di un paio d'anni il numero di librerie clienti delle Messaggerie è drasticamente diminuito, esattamente come è aumentato il numero di titoli in commercio che, a insindacabile giudizio delle Messaggerie medesime, sono "non disponibili" o perennemente "in arrivo".

    Qui ci avviciniamo al nòcciolo del problema. Se a essere penalizzati sono proprio i piccoli e medi editori indipendenti, su quali garanzie possiamo contare (come librai, ma anche come cittadini) per la realizzazione di un'effettiva libertà di stampa?

    In democrazia non sono necessariamente le maggioranze ad avere ragione (John Stuart Mill), ma la dittatura dell'iR configura con tutta evidenza un meccanismo che premia sistematicamente il più piatto conformismo, ovvero alternative culturali prive di spessore (ad es. la New Age, gli UFO di Rosswell o il culto di Padre Pio). Non solo, come nel caso dell'industria cinematografica, la riproduzione finisce con il soppiantare la produzione, nel tentativo di azzerare il rischio commerciale e finendo con il ritagliare infiniti cloni da pochi modelli di successo.

    La ricerca affannosa di un profitto non ragionevole, che comporta l'offerta di quanto piace alla gente, è un intento semplicemente perverso, che prospera in una zona grigia dove è arduo stabilire la reale autonomia di scelta di chi riceve il messaggio. Ma è anche l'unica ragione di esistenza di molti grandi editori, ormai divenuti parte di imprese sovranazionali tese unicamente a raggiungere margini di profitto omogenei in ogni settore di attività, dagli abiti, ai cannoni, ai libri. Non a caso Hachette, il grande editore francese (citato da Lottman), "fa parte del gruppo Lagardère che oltre che occuparsi di editoria e distribuzione del libro produce armamenti [...]"

    In realtà le superlibrerie, nodi di grandi catene librarie internazionali, nascono e sono rese possibili proprio dal livellamento dei gusti, da una calcolata e incoraggiata asfissia di interessi e senso critico, ovvero dalla metamorfosi compiuta da cittadino a consumatore massificato.

    Una volta aperte e sviluppate, le brillanti e inoppugnabili argomentazioni degli esperti invitati alla Scuola Librai si mostrano molto meno scintillanti e seducenti di quanto appaiano a prima vista. Spogliate delle suggestioni moderniste e della rilucente potenza delle cifre si rivelano per ciò che sono: attività di pubblica relazione per conto delle imprese di appartenenza.

    Nonostante le seducenti scenografie e l'apparenza imperiale, le superlibrerie rappresentano il capolinea del libro, luoghi che, in tendenza, raccolgono e distribuiscono un'editoria depurata e sterilizzata, la cui stessa esistenza testimonia di una selezione di autori e temi ormai definitivamente avvenuta.

    I Librivendoli

    (M. Citi, S. De Vecchi, R. Pinto)


    In Italia non siamo ancora arrivati a un punto di non-ritorno, ma gli eventi procedono a una velocità che non concede pause di riflessione.

    A rischiare non sono, con tutta evidenza, le sole librerie indipendenti, ma anche gli editori di cultura, schiacciati tra le calcolate inefficienze della distribuzione, il numero crescente di librerie in sofferenza e un'insufficiente visibilità.

    A testimoniare una preoccupazione ben viva pubblichiamo di seguito, con il permesso dell'editore, alcuni brani della prefazione scritta da Alfredo Salsano, coordinatore editoriale per la casa editrice Bollati Boringhieri, al libro L'Editoria senza editori di Andrè Schiffrin, in uscita a gennaio 2000.

    ( ... ) La storia della Pantheon Books e poi di The New York Press di cui si leggerà l'appassionata ricostruzione ad opera del protagonista di quarant'anni di storia editoriale non solo americana, è per molti versi esemplare della grande trasformazione che ha colpito il mondo del libro negli ultimi decenni e in particolare negli anni novanta.

    "Si può dire senza tema di sbagliare - scrive Schiffrin - che l'editoria mondiale è cambiata di più nel corso degli ultimi dieci anni che nel secolo che lo ha preceduto. Questi cambiamenti sono particolarmente notevoli nei paesi anglosassoni che appaiono come i modelli di quel che rischia di verificarsi altrove nei prossimi anni.

    Negli ultimi anni le case editrici sono state comprate le une dopo le altre da grandi gruppi internazionali. In Inghilterra e in America la maggior parte di questi grandi gruppi sono immense holdings che regnano nel campo dei mass media, dell'industria del divertimento oppure di quelle che vengono chiamate ora le industrie dell'informazione."

    ( ... ) Si è imposta una nuova ideologia che invoca il mercato mentre afferma che "non spetta alle élites imporre i loro valori all'insieme dei lettori, spetta al pubblico scegliere quel che vuole, e se quel che vuole è sempre più modesto e volgare, tanto peggio". Le scelte editoriali hanno subìto una distorsione: "la decisione di pubblicare questo o quel libro non è più presa dagli editori ma da quello che si chiama il "comitato editoriale" (publishing board) dove il ruolo essenziale è tenuto dai finanziari e dai commerciali" che sono in grado di imporre, in base alla valutazione dell'esistenza o meno di un pubblico precostituito per ciascun libro, una vera e propria "censura del mercato" in grado di bloccare qualsiasi opera nuova ed originale in quanto per definizione priva di quella audience che va al noto e al corrivo. Ma soprattutto "la concentrazione crescente ha portato i grandi gruppi a esigere tassi di rendimento spettacolari. Nella maggior parte delle case editrici americane dagli anni venti sia in periodo di prosperità sa durante la grade depressione, i tassi medi si aggiravano intorno a 4 per cento al netto delle imposte, tanto per le case molto commerciali quanto per le più rigorose dal punto di vista intellettuale [ ... ]. I nuovi proprietari delle case assorbite dai grandi gruppi esigono che il rendimento dell'editoria libraria sia identico a quello degli altri settori della loro attività: giornali., televisione, cinema ecc., tutti settori notoriamente molto remunerativi. I nuovi tassi di profitto scontati si collocano dunque in una zona compresa tre il 12 e il 15 per cento, cioè tre o quattro volte di più del livello tradizionale dell'editoria".

    Di qui la centralità dei best-sellers.

    ( ...) È l'editoria manageriale che anche in Italia parla di razionalizzione per lo sviluppo ma in realtà produce qualcosa come desertificazione.

    ( ... ) Non che la produzione e la distribuzione del libro debba prescindere da criteri di sana gestione, né da competenze specifiche che non possono essere le stesse ai tempi di Mondadori (Arnoldo) e ai tempi di Mondadori (Berlusconi): un intervento manageriale è indispensabile quando si passa dalla dimensione artigianale, familiare a quella di un'industria razionalizzata; ma in questo come negli altri settori il manager non può sostituire l'imprenditore. Ogni libro di una casa editrice di cultura è una innovazione di prodotto, mentre la logica dell'editoria di massa condotta managerialmente si basa e non può non basarsi sulla iterazione di pochi tipi di best sellers.

    Gli esempi di questo avvento di una " editoria senza editori " liberale al punto da lasciare al solo mercato - lo stesso mercato del fast food e dell'entertainment - la decisione sulla pubblicabilità di quelle che un patetico arcaicismo continua a designare come " opere dell'ingegno " non mancano neanche in Italia, con il passaggio di gloriose case editrici di cultura alla distribuzione di scadenti prodotti cinematografici, la riproposta a vil prezzo di un catalogo che non tarderà a mostrare i suoi limiti e la subordinazione della produzione a criteri di rendimento immediato. Si è assistito più volte anche da noi alla ripetizione dello stesso scenario: "In un primo tempo il gruppo acquirente pubblica una dichiarazione entusiastica, facendo le lodi della società acquistata e promettendo di mantenerne le gloriose tradizioni: non ci sarà alcun cambiamento importante e, per quanto possibile, non ci saranno licenziamenti. Poi si annunciano economie assolutamente necessarie per migliorare l'efficienza: i servizi amministrativi saranno unificati e ben presto la contabilità, i magazzini , i servizi di spedizione si ritrovano sotto lo stesso tetto. Poi si riuniscono le forze di vendita; poiché è inutile che lo stesso territorio sia coperto da équipes diverse. Dopodiché si scoprono infelici sovrapposizioni nel campo della produzione editoriale, il che richiede certe razionalizzazioni. Poiché il numero dei titoli diminuisce ci si priva dei servigi di alcuni direttori editoriali e dei loro assistenti ( ... ). Per finire si annuncia la creazione di una nuova struttura editoriale che sarà comune alle varie sezioni dei catalolghi collettivi, si tratti di riprese in libri tascabili di vecchi titoli o di novità prodotte superando le vecchie e "inefficienti" divisioni del lavoro".

    Il risultato, nel complesso, è quello cui abbiamo alluso con il termine "desertificazione", per analogia con quanto i grandi gruppi della biochimica realizzano nel campo dell'industria agroalimentare: dopo alcuni anni di uso di pesticidi e di concimi chimici su monoculture di cui si detiene il controllo delle sementi, il suolo si isterilisce e lascia il posto al deserto, negli Stati Uniti come nel cosiddetto Terzo mondo. E tutto lascia pensare che le biotecnologie che hanno preso il posto della "rivoluzione verde" normalizzando e depauperando il patrimonio genetico - riducendo la biodiversità - porteranno a nuove catastrofi cui solo un'accresciuta dipendenza dalla tecnica potrà porre temporaneo rimedio...

    Così, nel caso del libro, quella che potremmo chiamare la monocultura del best sellers minaccia di perfezionare un'analoga desertificazione ( ... ) [e] il futuro della piccola editoria, stretto com'è tra stasi del mercato, difficoltà della libreria e acquisizioni eventuali, appare ben difficile.

    ( ... ) Forse è giunto il momento di un pacifico divorzio tra gli interessi finanziari che impongono un'inflazione di titoli a bassa tiratura per consentire con l'occupazione delle basse superfici la forte rotazione di un numero inevitabilmente limitato di titoli a prezzi medio-bassi gestiti managerialmente da una parte e gli interessi imprenditoriali dell'editore e del libraio di cultura o di proposta che sopportano rotazioni più lente e prezzi unitari più alti in cambio di una disponibilità nel tempo di un servizio personalizzato dall'altra. Con tutti i problemi che pone un sistema distributivo tutto orientato verso il primo modello. Ma se si riuscisse a far vivere il secondo, già presente in embrione nella attività professionale di singoli librai e a cui tende naturalmente tra mille difficoltà la produzione di vecchi e nuovi editori di cultura, la desertificazione sarebbe in parte scongiurata. A scopo di lucro, beninteso.

    ALFREDO SALSANO

    © Bollati Boringhieri editore Torino

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    Rottamiamo le promozioni!

    di Rocco Pinto - Libreria La Torre di Abele, Torino

    «Nella misura in cui un atto letterario è un atto di comunicazione realizzato attraverso la mediazione del libro, si può dire che la letteratura in generale presuppone il libro essendone la sua ragione d'essere. Il libro è ciò che è la sua diffusione»(1).

    Così lo studioso francese Robert Escarpit sottolinea l'importanza della diffusione, e quindi della promozione, del "prodotto libro".

    La civiltà latina, come già quella greca, affidava allo scrittore la responsabilità di curare la produzione e la vendita dei libri, concentrando così ruoli che oggi sono separati in unica figura: l'autore, che promuoveva la propria opera organizzando pubbliche letture nella cerchia di amici e letterati. Quando nel circuito letterario romano si inserì una nuova figura, quella del libraio-editore, cambiarono anche i modi di promozione del libro, che venne venduto nelle tabernae librarie, concentrate vicino ai templi e nelle zone più ricche di traffico. Non solo, già all'epoca vi era un altro canale di vendita, quello degli ambulanti, che facevano circolare libri di minor pregio e meno curati dal punto di vista filologico. In chi si occupava della commercializzazione dei libri era già diffusa la consapevolezza della necessità di raggiungere pubblici diversi, attraverso canali diversi; si adottava una formula che si sarebbe ripetuta nei secoli successivi, sino all'estrema diversificazione dell'odierno sistema distributivo.

    Oggi gli editori usano tecniche sempre più sofisticate per stimolare la vendita dei loro libri, ma spesso i risultati non corrispondono agli investimenti, anche perché - nella maggior parte dei casi - i loro interventi non sono coordinati e hanno come unico obiettivo quello di vendere di più a scapito del concorrente. Nell'ultimo decennio si sono moltiplicate le iniziative promozionali, sostenute soprattutto dai grandi gruppi editoriali che possono attingere alle risorse di tutti i mass media; i piccoli editori, che per intervenire su scala nazionale dovrebbero consorziarsi, restano invece ad assistere alla lotta senza esclusione di colpi tra i "grandi".

    Le librerie indipendenti vivono ormai in una situazione di promozione continua, con campagne che si susseguono per tutti i mesi dell'anno, da gennaio a dicembre. Le grandi difficoltà economiche in cui versa la stragrande maggioranza di loro non consentono in molti casi di rifiutare le proposte promozionali, per il timore di avvantaggiare la libreria concorrente. Come i piccoli e medi editori, anche le librerie non riescono a intraprendere iniziative comuni di ampio respiro, una debolezza, la nostra, che consente a molti editori di imporci iniziative promozionali spesso illogiche e inefficaci.

    Dopo l'unica Festa del Libro riuscita, nel 1992, quando per due giorni l'affluenza di clienti è stata simile, se non superiore, a quella del periodo natalizio, gli editori e i librai (tramite le loro associazioni) non sono più riusciti a realizzare iniziative promozionali collettive significative. Dopo quel successo, le "promozioni", e questo è un dato che dovrebbe far riflettere, non aumentano il numero di lettori e di libri venduti, ma quasi sempre si limitano a spostare fette di fatturato da un editore all'altro e da un mese all'altro. Infatti, benché queste campagne ripropongano sempre le medesime modalità, senza fantasia, com'è possibile competere con la grande distribuzione che durante le promozioni pratica sconti che vanno dal 20 al 40%?

    Questa corsa alla promozione, questa rincorsa affannosa al cliente, ha raggiunto livelli preoccupanti quando - negli ultimi anni - un nuovo attore è entrato prepotentemente sulla scena editoriale italiana: l'editore Piemme.

    Con una campagna senza precedenti Piemme ha lanciato una nuova collana per ragazzi, Il battello a vapore, investendo tre miliardi in pubblicità, dal mailing ai giornali, ai gadget. Quanti altri, pur con prodotti di qualità, possono fare simili investimenti? Questa casa editrice, sconvolgendo anche i metodi tradizionali di promozione, ha posto il gadget al centro della sua politica promozionale, entrando nelle scuole, nelle librerie e cartolibrerie con merendine e cioccolata. Alcuni esperti, tra cui Vigini, sostengono che Piemme è riuscita a portare in libreria ragazzi, insegnanti e persino genitori che "prima" non entravano in libreria. Mi domando se i ragazzi, invece che trasmettendo loro il piacere della lettura, possano essere avvicinati in maniera stabile al libro offrendo loro l'ennesima tavoletta di cioccolata, magari Nestlé (2).

    Ultima in ordine di tempo è puntualmente giunta in libreria la Rottamazione, una geniale promozione che, riprendendo la formula applicata alle autovetture, cerca in modo soft di proporre nient'altro che il 50% di sconto sui libri delle edizioni Piemme.

    Ma non stavamo invocando una legge sul modello di quella francese, che consenta uno sconto massimo del 10% sui libri? Il libraio non dovrebbe lavorare sul servizio offerto, invece che sullo sconto? E non accadrà che, abituando i lettori a sconti selvaggi e a gadget continui, finiremo per vederli, forse, solo durante le campagne promozionali?

    Se le librerie indipendenti non riusciranno a rispondere in breve tempo a questi interrogativi, a proporre nuove idee, rischieranno di diventare botteghe piene di gadget, disponibili ad ogni stupidaggine che gli editori inventano.

    «Va bene quasi tutto, pur di far legger di più gli italiani. Vendere i libri accanto ai surgelati sui banconi dei supermercati, gli sconti e le promozioni tre per due (se non costringono alla chiusura delle librerie di quartiere), gli spot in TV. Ma la Rottamazione dei libri provoca un brivido sgradevole [...] sarebbe ingenuo affermare che i libri sfuggono alla qualifica di "merce". Ma ci sono libri e libri, e c'è merce e merce. [...] quella misteriosa sequenza di segni, se vale, non perderà mai il suo valore, anzi lo cambierà e lo accrescerà con gli anni e le riletture, oppure passando di mano in mano, dal padre al figlio, dalla sorella maggiore a quella minore». In un suo articolo Bruno Arpaia(3), pur riconoscendo che il libro è una merce, mette in evidenza come non sia possibile paragonarlo ad un motorino o ad una lavatrice.

    Pochi anni fa, ad opera di alcuni grandi e medi editori in collaborazione con le istituzioni governative, è nata l'Associazione per il Libro, con lo scopo di promuovere il libro e la lettura. Tutte le manifestazioni promosse da questa nuova associazione non hanno cambiato il modo di proporre il libro, anche perché in buona parte gli editori che ne fanno parte sono gli stessi che "spingono" i loro libri con campagne a colpi di forti sconti e gadget. E non dimentichiamo che le campagne di sconto non sono solo a carico degli editori: nella stragrande maggioranza dei casi i librai "collaborano" rinunciando ad una parte dello sconto per qualche vendita in più.

    Che fare di fronte a un panorama così desolante, dove quelli che si distinguono con proposte intelligenti sono veramente troppo pochi?

    Alcune case editrici hanno capito quanto sia importante dialogare con il libraio: è il libraio che, consigliando i lettori, spesso può decidere la fortuna di un libro. Negli ultimi due anni qualche editore ha inviato ad un numero selezionato di librai alcune novità di rilievo prima dell'uscita in libreria. Questo modo di promuovere il libro, che fa a meno di supersconti e regalini, in auge negli anni Settanta, raggiunge - se non si eccede in invii - molti risultati. Rinsalda i rapporti di collaborazione tra editore e librai, che finalmente si vedono riconosciuti un ruolo nel determinare il successo di un titolo; stimola i librai a leggere: è molto difficile che ricevendo un volume in anteprima dall'editore un libraio, pur con i suoi limiti di tempo, non lo legga; consente al libraio di apprezzare da lettore un libro che poi sarà disposto a promuovere, indipendentemente da recensioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, e quant'altro. La formula dell'invio in anteprima fu inaugurata dalla Mondadori con il romanzo di Stefano D'Arrigo, Horcynus Orca. Questa prima operazione fu fatta a tappeto in tutte le librerie, cui venne inviata una copia del romanzo con dedica personale dell'autore e lettera autografa dell'editore.

    Questa è un'alternativa possibile alla corsa al gadget. Ma non certo l'unica, né la più importante. Le crescenti difficoltà economiche hanno spinto molti librai a cercare altre strade; un fenomeno degli ultimi anni è la ricerca di spazi diversi dalla libreria: sono sempre più numerosi i librai che organizzano, nelle piazze delle grandi città e dei luoghi di villeggiatura, incontri con autori, dibattiti e concerti. Un tempo i librai, nei periodi di minor affluenza, riempivano grandi ceste di libri e andavano a venderli davanti alle chiese e nei mercati, cercando il pubblico là dove sapevano di trovarlo. Oggi, però, che la politica editoriale ha lo scopo dichiarato di intasare le librerie di novità (poco importa se torneranno al mittente dopo pochi mesi, l'importante è fatturare, "movimentare"), i librai potranno (r)esistere solo riappropriandosi della loro professione, rafforzando la loro preparazione culturale e commerciale per gestire, autonomamente e senza essere pilotati dagli editori, la loro bottega.

    Ciò che veramente occorre in questo momento di grande confusione è che sia il mondo editoriale e librario che quello istituzionale mirino ad iniziative di ampio respiro rivolte soprattutto alla scuola. Tutto il proliferare di Mostre, Fiere, Feste del Libro di questi anni non è sufficiente a creare un legame di continuità con la scuola, le biblioteche, le librerie, e tutti coloro che si occupano di libri e di lettura nel nostro paese. Laura Lepri, intervenendo su Tirature 2000 afferma: «Da qualche tempo è scoppiata la febbre dei Festival letterari. E così non c'è Ente, Assessorato, Circolo o Associazione (da Mantova ad Asti, da Forlì a Venezia) che non si senta in dovere di lanciarsi nell'organizzazione di giornate in cui la letteratura [...] diventi la vera protagonista»(4). Quello di cui abbiamo bisogno, in un paese dove - ancora oggi - la metà della popolazione non legge nemmeno un libro all'anno (al sud i livelli di lettura sono bassissimi), sono iniziative articolate, che non possono non coinvolgere il mondo della scuola. Per contagiare i ragazzi con il piacere di leggere bisogna prima viverlo. Giancarlo Ferretti nella nuova edizione del suo libro Il Mercato delle Lettere pone l'accento sulla necessità di avviare un processo formativo che veda un'azione intrecciata tra famiglia e scuola per la formazione di "piccoli lettori": «La formazione del lettore abituale passa attraverso un processo assai lungo: retroterra familiare, scuola, vita di relazione, informazione, altre esperienze culturali»(5). Negli ultimi tempi in molte città italiane le librerie hanno iniziato a collaborare con le scuole, non solo con mostre di libri, ma organizzando iniziative culturali, coinvolgendo autori e gruppi teatrali. Tuttavia si tratta per ora di iniziative spontanee e non di collaborazione tra operatori del mondo editoriale, di quello della scuola, e delle istituzioni. Perché non proporre, invece delle tremila promozioni annuali, una settimana dedicata alla promozione del libro e della lettura che non si limiti alla libreria, ma coinvolga biblioteche, scuole, editori, associazioni culturali, giornali nazionali e locali, radio e tutti quanti si occupano del libro a vari livelli? Un evento culturale, oltre (e prima) che commerciale, che pur essendo per gli operatori un "secondo Natale" sia, per lettori e neo-lettori, un vero momento di crescita?

    1) Escarpit R., La Rivoluzione del Libro, Marsilio, 1968

    2) Nel 1998 Piemme, in collaborazione con Nestlé, "invitò" tutti i bambini, anche classi intere, a far merenda nelle librerie. L'Editrice Missionaria Italiana in una lettera aperta di denuncia indicò in Nestlè «la multinazionale che viola di più il codice dell'OMS», colpevole - tra l'altro - di promuovere nel Sud del mondo l'uso del proprio latte in polvere invece di quello materno per allattare i neonati. La lettera venne firmata da numerosi gruppi di volontariato, associazioni culturali e di categoria, librerie e riviste, tra le quali LN-LibriNuovi. (cfr LN-LibriNuovi 6: Vieni a far merenda da noi, piccolo lettore!)

    3) Arpaia B., Il libro non è un rottame, «Inserto del Sole 24 Ore», 23 gennaio 2000

    4) Lepri L., La febbre dei festival, «Tirature 2000», Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori - Il Saggiatore, 2000

    5) Ferretti G.C., Il Mercato delle Lettere, Il Saggiatore, 1994

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    Tirature: quando le librerie?

    di Massimo Citi - Libreria CS Coop. Studi, Torino

    Sempre scarsi i libri dedicati allo stato dell'editoria in Italia, e l'ormai famoso Tirature a cura di Vittorio Spinazzola è davvero uno dei pochi, se non l'unico, riferimento largamente accessibile. Sorge quindi spontanea la domanda: qual è l'utilità di Tirature rispettivamente per il lettore e per il libraio?

    Cercherò di rispondere ad entrambe le domande, ammettendo fin da ora di non essere un lettore "ingenuo", e sforzandomi - nei limiti del possibile - di separare le mie anime di lettore e libraio.

    Tirature è sempre stata una curiosa chimera, per una metà fatta di giornalismo culturale e per l'altra di bilanci, dati, notizie relativi al mondo editoriale. Questa formula, apparentemente disomogenea, in realtà ha il medesimo pregio della Selezione del Reader's Digest (ammesso che qualcuno lo ricordi) e in generale delle riviste più ponderose e polimorfe: ciascuno può leggere ciò che gli aggrada e interessa, senza curarsi del resto.

    Io stesso ho sempre fatto un uso discriminante e strumentale delle numerose edizioni di Tirature (dal 1991 al 2000), leggiucchiando con interesse relativo le sezioni dedicate agli autori, e dedicando più tempo ed attenzione alle sezioni "professionali", dove comparivano i dati ai quali ero professionalmente interessato: chi legge, quanto legge, dove si legge e se si legge di più o di meno degli anni precedenti.

    Ma nello scrivere questo articolo avevo promesso di dare spazio a entrambe le voci, del lettore e del libraio, quindi così farò.

    In quanto lettore mi è difficile - vista l'organizzazione dell'annuario - svolgere argomentazioni perfettamente coerenti, mi limiterò così a semplici constatazioni. In Tirature è possibile trovare sia opinioni e analisi perfettamente sintonizzate con quelle a suo tempo comparse sui grandi mezzi di comunicazione, che buoni esempi di giornalismo letterario; analisi di fenomeni editoriali basate esclusivamente sull'attento studio delle classifiche di vendita, ma anche riflessioni più attente su autori e testi meno immediatamente appariscenti.Fin qui nulla di strano: Tirature possiede una dimensione giornalistica dalla quale è impossibile prescindere ed è quindi normale che gli articoli legati all'attualità formino la spina dorsale del testo.

    Ma questo significa che lo spazio dedicato alla riflessione ed alla scoperta risulta largamente minoritario rispetto a quello che celebra il già celebrato e il già letto, visto e discusso. Tirature preferisce spesso, al compito di vedetta del nuovo che avanza, quello di esegeta dei successi già avvenuti, di cane da caccia dei possibili nuovi best-seller.

    E qui giunto debbo ammettere che non è semplicemente possibile mantenere serenamente la veste di "lettore". Le analisi di Tirature, infatti, per evitare toni accademici o eccessi polemici, si fermano alla fenomenologia del "successo", lasciando ben poco da mordere al lettore che cerca qualche riflessione più sostanziosa e qualche azzardo. E comunque ciò di cui si discute sono, come sempre, le classifiche pubblicate dai quotidiani (peraltro mai concordi) e le quantità di libri venduti alle librerie, al lordo delle rese che puntualmente si scaricheranno nei magazzini editoriali nei primi tre mesi del nuovo anno. Peccato (ma grazie al cielo per librai ed editori) che non esista in forma ufficiale il diritto di resa per i lettori...

    A voler essere onesti fino in fondo si dovrebbe ammettere che i lettori sono una categoria troppo ampia e differenziata perché si possa parlare per loro conto. E certamente deve passare qualche tempo per cominciare a riflettere seriamente su fenomeni editoriali di successo istantaneo.

    Resta infine da sottolineare che l'analisi del successo editoriale in forma di critica del costume e dell'ideologia ha fatto troppe poche comparse in Tirature. Ma, nuovamente, constato che di annuario, e per giunta bric-a-brac, si tratta e mi adeguo.

    In quanto libraio non posso completamente ignorare le prime sezioni di Tirature. Se non altro perché si tratta, in genere, di libri che mi hanno fornito il pane quotidiano. O almeno credo.

    Già, perché il mercato dei best-seller è sempre meno faccenda da librai. Corro a leggere le ultime sezioni dell'annuario. I forti lettori in Italia sono circa tre milioni e da soli acquistano la metà dei libri venduti (lo dice Gian Arturo Ferrari della Mondadori, fonte più che attendibile). Hanno richieste bizzarre, esigenze fortemente diversificate, estri e capricci personali. Talvolta non si accontentano del libro prelevato dalla pila più alta sui tavoli o, quantomeno, richiedono un motivo per l'acquisto, mettendo a dura prova competenze e dialettica del libraio.

    Secondo Giovanni Peresson questa categoria di lettori forma il nucleo dei clienti della libreria, ossia coloro che ci forniscono davvero il pane e buona parte del companatico. Continuo a leggere i dati forniti da Peresson: il numero di forti lettori nel 1997 (non esistono dati più recenti) è aumentato, come è aumentato quello dei lettori occasionali o deboli, mentre è diminuito quello dei lettori medi.

    Se chi mi legge facesse il libraio quali conclusioni dovrebbe trarre da questi dati? Provo a indovinare. Potrebbe essere una buona idea per il libraio coltivare la fascia dei forti lettori, disponendosi comunque ad accettare di buon grado le eventuali invasioni di lettori deboli e occasionali alla ricerca del best-seller del momento.

    Ma non potete sapere, librai o no che siate, se avete fatto centro. Infatti in Tirature non è previsto (non è mai stato previsto in forma organica) uno spazio per i librai e le librerie. Quindi non troverete riflessioni e valutazioni di colleghi o magari del vostro libraio, ma, come sempre, le riflessioni più o meno attente di qualche esperto del settore. Non mancano, com'è ovvio, articoli sulla libreria, ma, per esempio nel caso di Tirature 2000, si tratta di interventi, come vedremo, di dubbio interesse e scarsa utilità pratica.

    "La libreria non è un tempio" di Bea Marin di Rivisteria, pubblicato nell'ultima edizione dell'annuario, parte male già dal titolo.

    Non perché personalmente conservi qualche vestigio di atteggiamento sacrale nei confronti del libro: in fondo sono solo un commerciante (anche se quel rompiscatole di Günther Grass, premio Nobel 1999, dice: «Anche i libri di scarso valore sono pur sempre libri e quindi cosa sacra»). Ma ho imparato ad esitare davanti agli appelli all'insubordinazione provenienti da qualche stanza, anche periferica, del Palazzo. A pensarci bene forse la differenza tra libero pensiero e liberismo ha molto a che fare con la provenienza dell'appello.

    La lettura dell'articolo, a ogni buon conto, giustifica il sospetto iniziale: "La libreria non è un tempio" è un articolo affannato e sommario, concluso con la celebrazione delle nuove librerie Fer Net (Feltrinelli - Ricordi), perfettamente intonata al coro degli entusiasti della modernità a tutti i costi che sbucano in tutte le pagine culturali dei grandi quotidiani. Marin facendo riferimento al "sociale", categoria tanto vaga da permettere di affermare tutto ma anche il suo contrario, e alle trasformazioni di consumi e consumatori, esalta con malcelata eccitazione la novità, la multimedialità, la contaminazione e sancisce la morte definitiva dell'attività di libraio che dovrà lasciare il posto al "commerciante di cultura", categoria non meglio definita, ubicata tra il lapalissiano e il fuzzy. Suggerimenti fattivi, praticabili anche nelle nostre piccole botteghe, pochi o poco utilizzabili: organizzare il magazzino per temi piuttosto che per editori; non stressare l'ospite della libreria con occhiate troppo dirette e inopportune impazienze; aperture a tutte le ore: «[il nuovo consumatore] è un soggetto [che] non ama le imposizioni (di orario, per esempio)»; inseguimento dei nuovi trend (dai pesci rossi, al piercing, alla vela), spazi ampi, nuovi generi merceologici.

    Nulla di nuovo in sostanza, ma all'incirca le stesse raccomandazioni già udite alla Scuola Librai Umberto ed Elisabetta Mauri di Venezia. Inviti a divenire librai "deboli", una volta seppellita definitivamente la figura del libraio carismatico.

    Ma Marin è da tempo un'adepta del nuovo, basta andarsi a rileggere Tirature 1991, quando salutava la massiccia apparizione dei libri nel supermercato come l'alba del trionfo definitivo della lettura (cfr. Tirature 1991, pag. 156 e segg.), per collocarla.

    Già allora, come adesso, il problema è ciò che sottointende il lessico utilizzato. Sarà bene chiarisca che non avevo e non ho nulla contro la libera vendita dei libri nei supermercati o in qualunque altro luogo, ma naturalmente a pari condizioni di vendita, se non di acquisto. Giusto perché i lettori possano scegliere senza l'affanno e il fastidio di un volgare incentivo in denaro (in forma di sconto eccessivo) se gradiscono il servizio offerto da una libreria o preferiscono il confortante anonimato della vendita al supermercato, con la possibilità dell'acquisto d'impulso o del semplice capriccio.

    E anche per le librerie che non son templi e i commercianti di cultura lo snodo sta ancora una volta sotto le parole, da rivoltare come pietre. Orari più ampli e flessibili sono praticabili e umanamente tollerabili soltanto da esercizi medi o grandi. Le grandi opportunità offerte dalla legge Bersani sul commercio vanno lette anche sotto questa luce, altrimenti si rischia un candore sinceramente sospetto. Discorso non troppo diverso per quanto riguarda le superfici. Ha un bel dire, Marin, che «non è più vero che una libreria più è piena di libri e più vende», di fatto da anni i librai lamentano una produzione eccessiva di novità di basso profilo - non poche delle quali stampate per inseguire trend anche molto più ridicoli di quelli della passione per gli acquari - e l'unica risposta (indiretta) finora avuta è stata di Luciano Mauri su Tirature 1999: non possono (leggi: non hanno da) esistere librerie sotto una certa superficie.

    In sostanza: che si sia commercianti lo si sa, e che ci si debba preoccupare di bilanci ed altro lo si sa altrettanto bene. Ciò che non si sa, viceversa, è come utilizzare gli sbrigativi consigli di Marin che, evidentemente, ha esaurito la pazienza verso i librai, definitivamente archiviati come piagnoni e passatisti.

    Se questo è un esempio dello spazio dedicato ai librai in Tirature, viene voglia di dire: no grazie. Non è il vedere in azione l'ennesimo soccorritore dei vincitori a deludere, semmai lo è la superficialità e la scarsa attenzione con la quale l'articolo è stato scritto. Se vogliamo discutere seriamente delle librerie del futuro sarà forse bene "partire informati", porre un minimo di attenzione alla capillare rete di lettura e lettori che le sole librerie hanno saputo costruire in passato e che tuttora mantengono ben viva. E non solo e non tanto le grandi e grandissime librerie o le librerie di catena, ma soprattutto le piccole e medie librerie, dotate di un servizio personalizzato, del quale il lettore può, se lo desidera, avvalersi. E servizio personalizzato non significa, evidentemente, assillare il potenziale cliente (come ben pochi ormai fanno, peraltro) ma fornirgli - a richiesta - servizi personalizzati: ricerche bibliografiche, assistenza, informazione, anche on line. Certamente Bea Marin quando entra in una libreria sa ben orientarsi, ma questo non è necessariamente vero per tutti; non solo, qualcuno ama chiedere informazioni, qualcuno cerca il contatto, il rapporto con chi sta alla vendita. Per vendere pochi titoli, sempre i medesimi (che non richiedono certo enormi scaffalature), non è necessaria alcuna competenza, per fare il libraio (o, magari, il commerciante culturale) è viceversa richiesta una competenza che si costruisce in anni.

    Nella capacità di fornire servizi non sono pochi i librai ad essere in ritardo, perché negarlo, soprattutto per quanto riguarda le enormi possibilità di informazione personalizzata e di consulenza offerte da un media come Internet, ma, non potendo contare su nessun tipo di sostegno pubblico (anzi...), le cose devono per forza procedere lentamente e in modo, finora, disorganico.

    Quasi a smentire, comunque, la superficialità di Marin i dati di Peresson, peraltro già citati prima e posti in calce all'annuario, sembrano con tutta evidenza premiare il nostro lavoro, in gran parte passato a costruire pazientemente una libreria dove questa competenza sia presente nei fatti: nelle scelte dei titoli a magazzino, nella posizione, nell'attenzione all'esposizione. E secondo norme e scelte frutto delle intenzioni, del gusto, del temperamento e della formazione di tanti librai, in questo tutti diversi tra loro.

    Perché i librai non scrivono su Tirature? Mah, forse perché nessuno ha chiesto loro di farlo.

    O forse perché almeno qualcuno di loro, qualche volta, rischierebbe di cantare fuori dal coro. O forse perché i librai sanno benissimo che accanirsi annualmente a "studiare" fenomeni volatili o autori transitori non è poi troppo utile a nessuno. O ancora perché molti librai hanno udito i commenti dei lettori reduci dalla lettura di qualche "successo di vendita" o perché, infine, in molti casi hanno passato le serate a riinfilare nelle scatole per le rese le seconde o terze prove meno riuscite degli autori decretati come fenomeni assoluti solo l'anno precedente.

    O semplicemente perché non pochi di loro sanno ormai distinguere i consigli per gli acquisti dalla vera programmazione?

    Ma al di là dei suoi numerosi limiti Tirature ha il grosso pregio di riprodurre abbastanza fedelmente gli umori e le intenzioni della grande editoria italiana. Lì in genere vi è scritto quanto - come altrettanti quadri del PCUS anni '40 - piccoli, medi e grandi manager dell'editoria ripeteranno ad nauseam durante riunioni, incontri, workshop e tavole rotonde. Non è poco: infatti leggere Tirature permette di preparare le proprie risposte con mesi di anticipo. Con notevole risparmio di tempo e fatica.

    a cura di VITTORIO SPINAZZOLA

    TIRATURE 2000

    Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Il Saggiatore - pp. 288 - L. 35.000

    => per approfondimenti:

    AIE - Editoria Italiana. Un'editoria in cambiamento: tra libri e cd-rom, in www.aie.it

    Forum: quale futuro per l'economia dei libri e delle librerie? «Surplus, rivista bimestrale di Economia », 4 - 1999


    Slow Book
    Come si costruisce un Arcipelago

    Il Complotto gentile del quale riferiva una manchette pubblicata sul numero 13 di LN - LibriNuovi ha completato la prima fase con l'incontro del 14 maggio alla Fiera del Libro con la presenza di André Schiffrin. Con l'occasione LN ha pubblicato uno speciale editoria (il numero 3 della serie degli speciali, ora disponibile in formato RTF) interamente dedicato alla serie di incontri tenutisi nelle 11 città italiane coinvolte nell'iniziativa contemporanea di presentazione del libro di Schiffrin.

    I librai coinvolti hanno avanzato proposte e idee per resistere all'editoria veloce. Tante proposte e tante idee. Abbiamo constatato che altrove in Italia esiste la stessa attenzione e una grande disponibilità e voglia di partecipare, anche molto oltre le nostre aspettative.

    Non possiamo che aggiungere "avanti così".
    Sull'onda di questa disponibilità abbiamo lanciato, purtroppo in ritardo e con gli scarsi mezzi che ci sono caratteristici, una campagna di boicottaggio della presunta "Festa del Libro" indetta dall'Associazione per il Libro e sponsorizzata da Omnitel, che, nonostante i nostri limiti, ha comunque coinvolto decine di librerie italiane. Si è trattato di un passaggio delicato perché non aderire alla Festa comporta rinunciare a sovrasconti da parte degli editori e rischiare di deludere la propria clientela.

    Ma non si è trattato di una "serrata" contro gli utenti, è bene ripeterlo anche qui, non abbiamo rifiutato la Festa per non fare lo sconto. Semplicemente abbiamo giudicato che i costi accessori alla Manifestazione (aperture straordinarie, condizioni di sconto particolare) non fossero coperti adeguatamente da molti degli editori coinvolti. Con il solito eclatante esempio della Mondadori (non siamo noi ad avercela con la Mondadori, è la Mondadori a non smentirsi mai) che per non adempiere al proprio impegno (il 10% di riaccredito, cioè metà dello sconto offerto) ha inventato un patetico gioco aritmetico che gli permette di risparmiare un 3-4%. Piccinerie.

    L'esito sostanzialmente deludente dell'iniziativa, bisogna dire ben al di là del nostro impegno, sgombra forse definitivamente il campo da questo genere di baracconate ipersponsorizzate.
    Ora si tratta di inventare insieme - librai ed editori - una vera Festa del Libro.
    Già, perché secondo alcuni esponenti locali dell'ALI, l'Associazione dei Librai Italiani (che nel merito della nostra iniziativa ha "approvato" senza aderire) non ha intenzione di rinnovare la propria adesione all'Associazione per il Libro. E questo significa, evidentemente, che l'Associazione per il Libro cessa di essere una struttura paritetica - ammesso che lo sia mai stata - ed è destinata ad una fine mediocre quanto la propria esistenza. Aspettiamo e vediamo.

    In tutti i casi qualunque futura "Festa del Libro", comunque la si voglia chiamare, dovrà avere al centro il libro e i lettori, non dovrà essere un evento ma un processo, dovrà lasciare tracce, ricordi, emozioni. Una festa "dentro" i libri e con i libri, per appassionare chi già legge e incuriosire chi non lo fa.

    Ritornando al nostro Complotto la palla ora torna nel campo degli editori.
    Sono loro a dover compiere, una volta verificata l'esistenza di una "rete" di librerie disponibili, un altro passo, a dover sostanziare una proposta di Arcipelago del Libro che riunisca editori di proposta e librerie di servizio in una struttura che rallenti la macchina impazzita dell'editoria "globalizzata", che introduca finalmente il concetto di Slow Book, di libro lento e non volatile, da leggere, rileggere, trovare o procurarsi. Senza rifiutare l'occasione offerta dall'editoria digitale, ma anche senza degradare il libro a samizdat da capitalismo reale.
    ( I Librivendoli, Torino)


    Parlare per parlare, scrivere per scrivere, ovvero: Tolstoi e il Banale

    La signora E. M. di Parma nel Venerdì di Repubblica di qualche settimana fa si interrogava, in un lettera indirizzata ad Eugenio Scalfari (rubrica: Scalfari risponde), sulla presunta "divisione" degli editori in due gruppi: da un lato i "Mondadoriani" che puntano sul best-seller e «Su una produzione in linea con la società di consumo e di massa» dall'altro «Un gruppo di editori minori raggruppati attorno al Salone del Libro, [che] scommette invece ancora sui libri di cultura e letteratura...»
    Nel prosieguo della lettera, che suppongo almeno un po' ridimensionata in sede redazionale, la lettrice si chiede per quale motivo questa separazione quando «... L'essenziale è un buon testo, evento sempre più raro».
    Temo che il ridimensionamento in sede redazionale sia stato davvero drastico se a una lettura anche superficiale saltano all'occhio diversi non sequitur, ma in tutti i casi resta la domanda: chi mai dovrebbe stamparlo questo "buon testo" gli editori della prima categoria o della seconda? «Personalmente se trovo un buon testo da leggere preferisco avere in mano l'oggetto libro ben stampato e di buona carta piuttosto che vederlo scorrere sullo schermo di un computer, ma questa è una scelta del tutto soggettiva» aggiunge la lettrice. E io mi chiedo ancora: dove potrebbe trovarlo il suo buon testo la signora di Parma se tutti, per assurdo, preferissero invece leggere a video e nessuno si sognasse più di stampare i libri?
    Come "addetto ai lavori" non posso che rammaricarmi per la quantità di ovvietà: «Il guaio è che il mercato della parola scritta si sta rapidamente prosciugando in favore delle immagini» e inesattezze contenute nella lettera, segno evidente che si è fatto davvero troppo poco per informare i nostri migliori interlocutori: i lettori. Rammarico almeno in parte temperato da qualche piccolo sospetto, un prurito, un dubbio di apocrifo redazionale che non riesco a rimuovere.
    Come abituale lettore di giornali mi chiedo viceversa, costernato: se un lettore di una certa cultura ha compreso di tutta la querelle Mondadori / Ferrero / Schiffrin / Salsano giusto che ci sono gli editori buoni ma un po' retrò che comunque non sanno fare bei testi e gli editori cattivi internettisti che comunque anche loro non sanno fare eccetera, non sarà il caso di farsi qualche domanda sulla qualità di quotidiani e riviste in Italia? Su un modo elementare e distorto di presentare le notizie che, sistematicamente, assume che il lettore sia un semplice fesso destinato a comprare il giornale per comprare pubblicità?
    Questo sempre che E.M. sia ingenua come appare essere e che intendesse davvero dire ciò che compare nella sua lettera.
    La risposta di Scalfari ovviamente si guarda bene dal chiarire le idee alla lettrice, accennare almeno per sommi capi ai problemi reali nascosti dalla schiuma degli articoli di giornale.
    Si dichiara subito d'accordo con lei e poi parte alla carica con un «Considero fasulla la distinzione tra libri "colti" e "incolti"» frase tanto perspicua da essere riportata in una finestrella blé nel mezzo della pagina, e continua citando Proust, Joyce, Dumas, Tolstoi e l'immancabile Umberto Eco. Si rivolge domande retoriche: «Si può paragonare Proust a Joyce?» (qualcuno ha osato tanto?) «I tre moschettieri è un testo colto o incolto?» (altra porta aperta bravamente sfondata: difficile trovare ancora i bei pedanti di una volta per i quali divertente = rozzo) e conclude denigrando la stampa italiana, della quale è insigne (o forse ingombrante) esponente con la frase: «Il resto - ha ragione lei - sono parole senza qualità».
    Bravò, ben detto. Ore rotundo, con quel giusto grado corrucciata passione civile che fa fremere il lettore medio di Scalfari.
    Che nel corso delle polemiche comparse sui diversi giornali italiani non si sia mai parlato di qualità estetica del libro (categoria troppo labile e incerta) ma semplicemente e giustamente del suo tempo di sopravvivenza in libreria e di disponibilità o meno, Scalfari non sembra averlo colto. Alla maniera di Gian Arturo Ferrari e dei suoi sottopancia, il fondatore di Repubblica ci ammaestra a non fare gli intellettualoidi, esclusivi e magari post-adorniani.
    Ma adesso siamo seri.
    Domande: Scalfari legge i giornali? Se li legge li capisce? E legge almeno Repubblica? Per la precisione un numero di Febbraio 2000 dove compariva un lungo articolo di Simonetta Fiori sull'editoria, con interviste a Gianarturo Ferrari ed Alfredo Salsano? O l'articolo di Oreste Pivetta comparso su un numero dell'Unità sempre a febbraio? O l'articolo di Cinzia Fiori comparso sul Corsera a maggio, sempre sullo stesso tema?
    Ma nemmeno Scalfari può leggere tutto. E che diamine!
    Vero.
    Il bar dove prendo il caffè la mattina è frequentato da alcuni esegeti del campionato di calcio che già verso le sette e mezza del mattino, sono in grado di snocciolare dati, commenti e riflessioni sulla domenica calcistica desunti dalla lettura attenta e comunitaria dei principali quotidiani di informazione sportiva. Si intende che, con questi cordiali signori, non mi imbarcherei mai in una discussione di tema sportivo: sono troppo ignorante di calcio in generale e non sono informato sui temi di attualità. Non so, se non per sommi capi, dove sta andando il calcio italiano e sono in dubbio persino sull'identità della squadra nella quale gioca Batistuta (si scrive così?).
    Sicché, se tenessi una rubrica su un settimanale e ricevessi una lettera che mi chiede di commentare la questione arbitrale, avrei la scelta se far rispondere qualcuno che ne sappia qualcosa o leggere almeno qualche articolo significativo, chiedendo lumi a un collega informato.
    Già, ma io non sono Eugenio Scalfari. Non sono un tuttologo né sono pagato per sapere tutto di tutto in tempo reale. O, perlomeno, sono incapace di far finta.
    Il problema, tuttavia, è un altro.
    Scalfari Eugenio scrive su un giornale e un giornale ha, naturalmente, un editore.
    La sorte dell'editoria su carta stampata è, naturalmente, sorte anche della civiltà e della vita politica di una nazione. Ogni forma di espressione su carta stampata va a costituire un frammento del paesaggio intellettuale di un'epoca, contribuisce al formarsi di idee ed opinioni, può nascondere o esaltare fenomeni, punti di vista politici, riflessioni più o meno allineate.
    Il destino dei libri, non meno di quello dei giornali, tocca ognuno di noi molto più da vicino di quanto possa apparire ad un'occhiata superficiale. Non è indifferente, ai fini della civiltà - letteraria e non - se è Rupert Murdoch (o Silvio Berlusconi) a pubblicare libri e giornali o se a farlo sono editori appena meno ossessionati dal profitto e dal potere politico.
    Allora tutta l'eleganza salottiera esibita in citazioni di autori (piuttosto scontate), i rituali di compianto per il buon libro che non c'è più (da qui il sospetto su una lettera che assomiglia molto a un motto lanciato all'artista dalla claque per offrire spunto alla battuta) o il desiderio di vedere in azione un nuovo Tolstoi (pubblicato da chi? con quali risorse? per rimanere in libreria tre mesi?) vengono ad assumere il senso di una penosa pantomima, una manifestazione di disinteresse per il destino della parola che stupisce, soprattutto in rapporto alle stravantate credenziali dell'articolista.
    Non resta così che rileggere Karl Kraus, maestro di giornalismo indipendente e autore pubblicato su buona carta ben stampata da un editore che si preoccupa ancora - piaccia o non piaccia - di fare il proprio mestiere. Ci sono un paio di frasi, tratte da Detti e Contraddetti (Adelphi 1994), che mi piace citare nel contesto di questo articolo: sarà responsabilità del lettore utilizzarle secondo il proprio estro.
    «Ci sono imbecilli superficiali e imbecilli profondi» (p. 143)
    «Uno scrive perché vede, l'altro perché sente dire» (p. 137)
    (Cybermanuzio)


    Un commesso viaggiatore al Salone di Parigi

    Se amate la cultura francese, le Salon è un appuntamento da non mancare: una fiera da grande pubblico (molto più Torino che Francoforte, per intenderci), che si svolge a marzo alla Porte de Versailles. L'editoria di lingua francese è presente a ranghi completi: i grandi e medi editori dispongono di stand autonomi, mentre i piccoli sono spesso raggruppati in padiglioni regionali; vanno segnalati anche gli editori francofoni di Belgio, Svizzera, Canada, Africa e Oltremare.
    Ogni anno c'è un paese ospite: quest'anno il Portogallo, presente coi suoi editori, scrittori quali Saramago, Lobo Antunes, De Andrade, e appuntamenti con la musica, il teatro, la cultura portoghesi: a me è capitato di assistere ad un incontro con un gruppo di insegnanti di una scuola professionale della periferia di Lisbona che, con l'aiuto di un video, raccontavano la loro attività e le loro esperienze di docenti in un quartiere della città socialmente difficile per problemi di immigrazione e di abbandono scolastico.
    L'atmosfera del salone è perennemente viva ed eccitante: nel corso dei cinque giorni passano fra gli stand più di 1800 scrittori, dalle vedettes come Coelho e Pennac ai più oscuri pennivendoli e ovunque si vedono sciamare scolaresche variopinte e chiassose.
    Uno spazio abbastanza esteso, il cosiddetto villaggio E-book, è dedicato al libro elettronico, all'inchiostro elettronico, agli internauti.
    Ogni giorno viene stampato e distribuito gratuitamente in 30.000 copie un quotidiano di 16 pagine, Le jour du livre, che contiene interviste a scrittori, editori, visitatori e il programma con tutti gli appuntamenti della giornata.
    Nel complesso la situazione francese dell'editoria mi ha dato l'idea di una maggiore serietà, rispetto alla nostra, grazie anche ad una legge sul libro che ha consentito la sopravvivenza degli editori e dei librai indipendenti, fissando regole certe nel sistema commerciale e distributivo; c'è inoltre una casa editrice specializzata, Electre, che pubblica un settimanale illustrato di circa 200 pagine, LivreHebdo, dedicato a tutte le tematiche dell'editoria e ricchissimo delle informazioni e delle analisi che in Italia raccogliamo a fatica spulciando decine di quotidiani e periodici. Un altro segnale importante che mi pare la dica lunga sulla qualità dei rapporti fra gli attori del mercato: l'associazione degli editori ha invitato a Parigi per tutta la durata del salone 100 librai provenienti da tutti i paesi del mondo, complici della diffusione della cultura francese.
    Naturalmente anche in Francia ci sono grandi turbolenze, ma la sensazione è quella di un paese in cui la lettura si trova ad un livello assai più alto nella considerazione generale.
    Sulla stampa specializzata si fa notare che 15 anni fa c'erano 1500 negozi di dischi sul territorio nazionale, ridotti oggi a meno di 150, mentre le librerie, anche perché tutelate dalla legge Lang sono circa 2000, come all'inizio degli anni '80: credo che ci farebbe bene lanciare un po' più spesso lo sguardo al di là delle Alpi.
    (Daniele Giovanardi)

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    Il prezzo della lettura

    di Massimo Citi

    «Eh, ma i libri sono cari. Se risparmio 20.000 Lire ogni 100.000 mi restano i soldi per un altro libro».

    Questo tipo di osservazioni accade di sentirle anche nel corso delle riunioni di redazione di LN e sono tornate di attualità durante il dibattito (interminato e interminabile) sul libro di André Schiffrin (cfr LN 12, 13, LN speciale editoria n° 3) e sulla funzione delle librerie nella difesa del libro di qualità.

    Siccome c'è stato un tempo nel quale non facevo il libraio ma lo studente e, appassionato alla lettura com'ero, economizzavo per ottenere il maggior numero possibile di pagine con il minor investimento, sono automaticamente sensibile al problema sollevato dai redattori più giovani.

    Mi rendo conto che la battaglia in difesa di un'offerta libraria quanto più possibile diversificata e ricca ha come snodo ineludibile il problema del prezzo di copertina del libro. Lo sconto del supermercato o della catena libraria (già esistente o dietro l'angolo, come FNAC) è, effettivamente, un grosso incentivo all'acquisto per i forti lettori, spesso generosi, disordinati e in ristrettezze finanziarie come ero io a vent'anni.
    Certo, è possibile riaprire qui i termini di una querelle più o meno secolare, sottolineando il costo relativamente contenuto del libro in rapporto ad altre merci, o ribadendo che il lettore serio è responsabilmente obbligato a scegliere tra il libro e la discoteca o il capo d'abbigliamento firmato, come se un'occasione di socializzazione (sia pur futile, perlomeno per chi ha la giovinezza alle spalle) o una necessità (deprecabile finché si vuole, ma reale) relativa alla propria immagine sociale fossero alternative allo svago e alla passione letteraria. In realtà queste opzioni fanno parte ad uguale titolo ed uguale dignità dell'orizzonte di vita dei venti-trentenni di questi anni.

    Come molti sanno la spesa pro-capite per la lettura in Italia è una delle più basse della UE, ma uno degli elementi cardine di questa cattiva performance è la bassa scolarità della popolazione più anziana che abbassa rovinosamente la media, tanto è vero che il lento miglioramento dell'indice di lettura della popolazione italiana è (macabramente) dovuto alla scomparsa delle fasce di età più elevata, sostituite dai bambini, in genere medi o forti lettori. Ma anche qui in molti finiscono per essere abbagliati dall'uso sommario della statistica, limitandosi ad uno sguardo superficiale su dati che andrebbero meglio analizzati per essere realmente compresi.

    In realtà mai come negli ultimi decenni la popolazione italiana si è avvicinata alla lettura, divenuta parte delle abitudini quotidiane di milioni di persone. La scarsa propensione alla spesa per i libri ha probabilmente ragioni più complesse e sfumate di quanto possano apparire ad un'occhiata superficiale.

    Personalmente ritengo positiva la convinzione di molti che il libro sia un bene fondamentale e irrinunciabile, convinzione cui fa da corollario l'intolleranza, basata su un concetto illusorio del prodotto libro, per prezzi soggettivamente ritenuti troppo elevati.

    Il libro è parte di un sistema più generale di formazione ed informazione, uno degli elementi del paesaggio mediale al quale tutti siamo avvezzi. Che la qualità dell'informazione corrente sia, nella maggior parte dei casi, di valore culturale medio-basso (infotainment, ossia information + entertainment, viene definita negli USA), soprattutto se posta in rapporto al profilo elevato dell'informazione libraria, non è un genere di riflessione che nasca spontaneamente nella mente del lettore, soprattutto se giovane. Se il prezzo dei quotidiani è mantenuto artificiosamente basso grazie all'intervento pubblico (e anche grazie, talvolta, a spregiudicate operazioni di marketing), se il costo di una videocassetta di un film d'autore si approssima a zero nel momento in cui viene offerta con il settimanale o il quotidiano, se è possibile raccogliere grandi quantità di informazioni grazie a una manciata di minuti di connessione ad Internet, diventa arduo giustificare un costo di qualche decina di migliaia di lire per un libro, soprattutto se il libro in questione non possiede i connotati di un prodotto di grande pregio formale, categoria che ha comunque importanza relativa per il lettore appassionato.

    Il problema è ovviamente quello del valore aggiunto, ossia del lavoro contenuto in un libro in termini di attività redazionali, di controllo delle fonti e di rigore formale, rispetto ad una pagina internet scaricata da un sito privo di adeguate referenze o ad una pagina di giornale o di settimanale.
    Il concetto di valore aggiunto, nonostante la persistenza secolare in Italia di partiti di sedicente cultura marxista, non è mai entrato nel bagaglio critico dell'intellettuale italiano, messo in ombra da categorie direttamente mediate dalla cultura cattolica. E uguale destino hanno subito i concetti di competenza, professionalità e rigore, scarsamente compatibili con un ceto politico e una classe imprenditoriale che dai tempi dell'Unità d'Italia interpretano in maniera felicemente intrecciata e sussidiaria l'etica liberale.

    Se a questo si aggiunge il fenomeno, più evidente nell'ultimo decennio, di un appiattimento della produzione e di una progressiva perdita di rigore nella cura e nella redazione dei testi da parte delle case editrici, segnatamente di quelle di maggior peso, come si può seriamente pensare di riesumare il disgraziato concetto di valore aggiunto, che rischia di apparire, a questo punto, la semplice foglia di fico di un comparto industriale in piena crisi?
    Eppure, non mi stancherò mai di sottolinearlo, siamo di fronte ad un concetto-chiave dell'organizzazione mediatica contemporanea, un concetto che, non a caso, costituisce attualmente uno dei principali problemi della rete internet dove, al di fuori delle strutture culturali tradizionali (editoriali o accademiche), l'attendibilità dell'informazione circolante è quantomeno opinabile.

    Il problema è, in sostanza: un'informazione accurata e attentamente verificata, un testo adeguato alla propria funzione di formazione ed intrattenimento comportano un costo variabile ma reale e contribuiscono a formare in misura non secondaria il costo del prodotto libro. Si parla qui, naturalmente, del libro in prima uscita, della novità, i cui costi sono interamente affidati all'azzardo dell'esistenza o meno di un pubblico ricettivo. Discorso diverso per le ristampe e le edizioni in collane economiche, che hanno generalmente già alle spalle il rientro dei costi dell'investimento.

    Altra voce molto rilevante del prezzo finale del libro (50 - 55% del prezzo di copertina) è il costo di distribuzione, ossia dell'attività amministrativa, commerciale e logistica di fornitura ai punti-vendita - librerie e grandi superfici - e il margine lordo previsto per questi ultimi. La percentuale media di sconto a favore dei punti vendita varia dal 40 - 45% delle grandi superfici al 30% medio per i piccoli e medi punti vendita (percentuale naturalmente compresa nel 50 - 55% di costi distributivi).

    La sensazione che spesso si ha, stando in libreria, è che i lettori abbiano la convinzione che il costo di un libro sia formato in misura preponderante dalla sua natura fisica (carta e rilegatura), dall'entità dei diritti d'autore e dal lucro del libraio, voci che, viceversa, raggiungono a stento la metà del prezzo di listino del prodotto libro. Quasi a nessuno viene in mente che spostare i libri, incaricare qualcuno perché li verifichi e controlli, corregga le bozze, li scelga, li impagini, li illustri, li presenti ai librai, siano attività che hanno un costo. Che in Italia predomini questa visione del prodotto - nata, si direbbe, ai tempi dei problemi di aritmetica: («un lattaio compra a L. 50 al litro tre ettolitri di latte...») - lo si può comprendere dall'affermarsi, a suo tempo, della leggenda metropolitana per la quale il prezzo elevato dei Cd musicali era dovuto al costo del supporto.

    Alla mancanza o insufficienza di nozioni minime di micro- e macroeconomia nel pubblico, fa da contraltare una managerialità corsara, ma in qualche caso solo pavida, nel campo dell'editoria.

    In più occasioni ho messo in evidenza il ruolo esclusivamente finanziario, ossia di temporanea raccolta di risorse, di buona parte della produzione dei grandi editori. La sovrapproduzione di titoli ha il compito di creare credito per l'impresa editoriale, credito che le permette di produrre altri libri. Un salto di prospettiva rispetto ai tempi della buonanima di Arnoldo Mondadori, perfettamente conscio che era Topolino a permettere la stampa delle collane di più alto profilo culturale. Ora, decaduta la teoria dei vasi comunicanti, la produzione punta, in realtà, su pochi titoli e pochi autori, affidando al resto della produzione il compito di "tentare" la fortuna del best-seller inatteso o di creare credito a breve e brevissimo termine.

    I pochi autori, prevalentemente stranieri, sono, manco a dirlo, oggetto di aste suicide combattute a colpi di milioni di dollari. Il costo di queste operazioni si scarica, naturalmente, sull'intera filiera e sul costo finale di tutta la produzione (con un rovesciamento di termini rispetto ai vasi comunicanti di un tempo) sicché anche chi legge Proust finisce per pagare, sia pure in modo limitato, i diritti per la stampa dell'ultimo Grisham.

    Sarebbe ingenuo pensare che sia possibile porre un freno a questo genere di operazioni, ma è salutare tenere presente che a mantenere elevato il prezzo di copertina del libro cospirano alcuni elementi - necessità di creare credito per l'editore, costo delle operazioni di acquisizione di diritti - che non sono immediatamente riconducibili alla dinamica della produzione.

    Alle storture create dalla grande editoria corrispondono le difficoltà dei piccoli e medi editori che non possono puntare sistematicamente sull'indebitamento delle librerie né assicurarsi autori di grande richiamo e che, contemporaneamente, debbono cercare di mantenere uno standard accettabile nella redazione, nelle traduzioni e nella distribuzione, pena la perdita della frazione più attenta e sensibile dei propri lettori.

    In questo caso è il rischio imprenditoriale a spingere in alto il prezzo di copertina del libro (questo discorso è valido, ovviamente, anche per la rivista che state leggendo).

    Per meglio definire il problema del prezzo del libro va introdotto ora il concetto di tiratura, ossia del numero di copie di un libro messe in distribuzione in prima edizione. Per farlo userò un esempio che rispecchia solo in modo molto rozzo e sommario il meccanismo reale di determinazione del prezzo.
    Ammettiamo che l'editore Libribelli abbia prodotto un libro con un costo vivo in termini di spese di stampa, diritti d'autore e costi redazionali pari a 10.000 Euro. Per arrivare al prezzo di copertina è ancora necessario un lungo viaggio. L'editore Libribelli deve infatti calcolare in anticipo la possibilità di un numero ragionevole di rese (un 15% del totale messo in circolazione) e una onesta percentuale di utile (un 10% del totale). Sono altri 2.500 Euro da aggiungere ai 10.000. I nostri 12.500 Euro devono essere ora moltiplicati per 2 (il costo della distribuzione è pari ad un 50% del prezzo di copertina del libro). Si arriva così ad un totale di 25.000 Euro. Se la tiratura stimata, ovvero il numero di copie prenotate dalle librerie, sarà pari a 500 copie il libro costerà la bellezza di 50 Euro a copia (circa 97.000 L.), ossia un prezzo che lo pone automaticamente fuori mercato. In questo caso non è escluso che l'editore rinunci alla produzione del libro.
    Con 1000 copie si va già meglio, 25 Euro a copia, un prezzo che comincia ad essere ragionevole per un saggio abbastanza approfondito e con una paginazione di 300- 400 pagine. Chiaramente con duemila copie prenotate (sempre che questo non comporti un numero eccessivo di rese) si scende ancora, e così via.
    Il problema reale è che la tiratura media di un testo, sulla base delle prenotazioni delle librerie, difficilmente supera le 1000 copie in prima battuta, sia talvolta per l'argomento del saggio o, nel caso di romanzo, per la scarsa notorietà dell'autore, sia, infine, per le dimensioni oggettive del mercato italiano.

    E infatti è qui che riemerge il problema della scarsa propensione degli italiani alla spesa per la lettura. Infatti, al di là degli anziani a scolarità bassa o quasi nulla, per ampi settori della popolazione nazionale l'acquisto di un libro costituisce tuttora una spesa problematica, priva di un profilo di promozione o rilevanza sociale e dai connotati perennemente facoltativi, a cominciare dall'acquisto dei libri scolastici. Per molti l'unico tipo accettabile di investimento in carta stampata (recentemente sostituita da batterie di CD-ROM) è quello in dizionari o enciclopedie, ossia in forme di trasmissione della conoscenza che sempre più spesso rischiano una rapida obsolescenza. Parliamo qui del famoso cliente «che compera i libri a metri», categoria ben nota e di rilievo tutt'altro che secondario nel panorama della ricchezza nazionale.

    Dato un quadro di questo genere, come si può ragionevolmente pensare di giungere ad una diminuzione dei prezzi di copertina dei libri?

    Può apparire paradossale ma, a mio parere, è proprio la riduzione dello sconto ai clienti dell'editoria (in particolare catene librarie e grandi superfici) e, contemporaneamente, ai clienti ultimi, cioé i lettori, una possibile via per giungere a questo risultato.

    Sono ben conscio che questa osservazione ha il pregio di rendermi contemporaneamente inviso ai colleghi ed ai lettori, tanto più in considerazione della mia qualifica professionale di libraio cooperatore, ma se gli uni e gli altri avranno la pazienza di continuare a leggere, spero di motivare a sufficienza la mia "assurda" idea.
    Ritornando all'esempio dell'editore Libribelli e del suo libro, avrete notato che l'unica quantità determinata nell'intera operazione è il costo vivo di produzione del testo, per il resto si tratta di percentuali variabili. E credo che non pochi abbiano sobbalzato nell'apprendere la percentuale del prezzo di copertina dovuta al costo della distribuzione.
    Come è possibile giungere ad una riduzione di questa percentuale?
    L'autodistribuzione è una via praticabile solo per editori piccolissimi (di nuovo LN), visti i rischi non piccoli di insolvenze e i ritardi nel ritorno delle rese. Quindi, a meno di ipotizzare "reti" di editori e librai uniti da un patto d'onore che scavalchino definitivamente il problema della distribuzione, cosa che comunque è tutt'altro che fuori discussione (cfr LN 3 speciale editoria, pag. 46,47: Indipendenti di Davide Vender della Libreria Odradek, Roma), l'unica percentuale sulla quale è ragionevole pensare di intervenire è proprio quella dello sconto al punto vendita finale.

    Se l'esistenza di un prezzo di copertina prefissato ha permesso la sopravvivenza dei piccoli e medi punti vendita, ha anche finito col favorire l'emergere di un "doppio mercato" con un differenziale di condizioni che può arrivare al 15%. La grande superficie o la catena libraria, che sono in grado di praticare abitualmente lo sconto del 20 - 30%, determinano a monte le condizioni per mantenere prezzi di copertina più elevati. Infatti, continuando ad esemplificare, se l'editore Libri Cosicosì (editore di grosse dimensioni e la cui produzione è assorbita in misura notevole dalle grandi superfici) sa già in partenza che il prezzo imposto non verrà realmente praticato, non avrà remore a ritoccare il prezzo di copertina del best-seller di turno. Questo lo salverà dal rancore dei lettori e contemporaneamente gli permetterà di acquisire un maggior monte crediti dalle librerie. Non solo, in questo modo l'editore Libri Cosicosì potrà pagare diritti più alti ai pochi autori "vendibili", tenendosi ben stretti i propri e, magari, portandone via qualcuno agli altri.

    Parificando le condizioni di acquisto per piccoli e grandi punti vendita si eliminerebbe un grave fattore di turbamento del mercato, "ripulendo" il settore da operatori privi di scrupoli (squali) e determinando le condizioni per una politica di contenimento dei prezzi di copertina.

    Chi dovrebbe farlo? Difficile dirlo. Siamo infatti entrati nel recinto sacro del "libero rapporto di compravendita", ovvero uno dei tabù della società capitalistica.

    La riduzione o la virtuale scomparsa dello sconto ai clienti privati, conseguenza immediata di una riduzione delle condizioni di sconto alla fonte, avrebbe il benefico effetto di rendere meno selvaggio il mercato, permettendo ai punti vendita meglio attrezzati dal punto di vista del servizio al cliente di emergere e imporsi. Un altro degli esiti, sia pur graduali, del fenomeno sarebbe una generalizzata riduzione dei prezzi di copertina, basata sull'affermarsi di una vera libera concorrenza, e il nascere e il fiorire di nuove iniziative editoriali a basso costo. Nella realtà è quindi l'esistenza dello sconto a favorire gli alti prezzi di copertina, particolarmente per quanto riguarda la grande editoria o l'editoria universitaria e professionale.

    In questo senso la recente proposta di legge Melandri, che prevede uno sconto massimo del 10% di copertina alla clientela privata, e che di primo acchito si presenta come un provvedimento che riduce la possibilità di lettura per i forti lettori dotati di scarsi mezzi - ossia prevalentemente il pubblico giovane - avrà in realtà il risultato, se giunta ad approvazione (risultato non così scontato), non solo di garantire l'esistenza dei piccoli e medi punti vendita, ma anche - ovviamente non in modo automatico - quello di favorire in tendenza la riduzione del prezzo di copertina dei libri.
    Ovviamente il mercato dei media va nella direzione esattamente opposta. Il fanatico liberismo più o meno prezzolato dei burocrati della UE (tra cui l'indimenticabile fondatore dell'Ulivo, Prodi) da tempo spinge per la liberalizzazione del prezzo di copertina, accampando la consueta retorica della libera concorrenza. L'esito sarebbe non solo la scomparsa dei punti vendita qualificati e dell'editoria di proposta (cfr. André Schiffrin, Editoria senza editori ) ma anche quello di una rincorsa al basso prezzo per quanto riguarda i pochi best-seller e i titoli rivolti ad un pubblico "popolare" mentre, come è avvenuto per l'editoria americana, la saggistica più rigorosa e i titoli meno frequentati dal grande pubblico rischierebbero la virtuale scomparsa, ovvero l'imposizione di prezzi di copertina troppo elevati per quegli stessi lettori che adesso gioiscono alla vista dello sconto 30% nel settore libri dei supermercati.

    Non si tratta quindi di implorare chi frequenta le librerie di sottoscrivere un patto di fedeltà, chiedendogli di acquistare a condizioni peggiori un titolo che potrebbe trovare anche altrove, ma semplicemente di renderlo cosciente che lo sconto è attualmente uno dei principali ostacoli ad una riduzione del prezzo di copertina del libro.

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    Book o e-Book?

    di Alfredo Salsano

    Arieccolo! Avevamo lasciato Alberto Vitale intento a gestire lo smantellamento della Pantheon Books con i criteri di chi dirige una fabbrica di calzature che produce scarpe troppo piccole per la maggior parte dei clienti; e mentre chiedeva «Chi è questo Claude Simon?», «E questo Ginzburg?», si lasciava sfuggire nientemeno che il primo titolo milionario dei Simpsons (cfr. A. Schiffrin, Editoria senza editori, pp. 41 e segg.).
    Ed eccolo di nuovo in pista come presidente della International e-Book Award Foundation (New York), che prepara per il prossimo 20 ottobre, alla Buchmesse di Francoforte, la consegna di un premio di 100.000 dollari destinato a incoraggiare l'emergente industria dell'e-Book: «La novità più sensazionale potrebbe essere proprio l'avvento dell'e-Book che sta aprendo la strada per nuove opportunità editoriali. L'e-Book innescherà un cambiamento mondiale nel modo in cui si pubblicano, distribuiscono e leggono i libri». E, dopo aver indicato il crescente potenziale e impatto del nuovo medium, chiude con l'invito a unirsi ai promotori del premio nella nuova «eccitante e remunerativa» impresa: «Gli e-Books stanno indicando la strada del futuro della lettura e dell'editoria ...» (dal Message to Frankfurt Book Fair Exhibitors spedito nel giugno 2000).
    Certo, Vitale non dice che il nuovo medium è destinato a sostituire in toto il libro, come si continua a leggere sotto la penna dei nostri giornalisti a corto di domande e a caccia di brividini («scusi... È vero che il libro è morto? Che gli editori sono condannati? Che i librai farebbero meglio a non ostinarsi?»).
    Ma l'aria che tira è quella: Alberto Vitale, che la carica ricoperta qualifica come alta espressione della finanza applicata al campo dell'editoria (o della editoria al servizio della finanza), continua nella sua lotta contro il libro - quello vero, fatto da editori che cercano di realizzare un progetto culturale, distribuito da librai che conoscono sia i libri sia i loro clienti, letto e conservato (tesaurizzato) da lettori in bibliotechine personali che invece di fare arredamento proiettano l'arredo interno della mente.
    Al posto di questo mondo, che ha già dimostrato di saper profittare delle tecnologie informatiche più avanzate (dalla redazione alla tipografia, al sistema distributivo) al servizio, però, del libro ad alto valore aggiunto, nella sua materialità destinata a durare, l'e-Book propone qualcosa come l'allucinazione del modello - che si sta rivelando anche economicamente perdente - del fast book: modello intrinsecamente contraddittorio di masse di best sellers svenduti a prezzi sempre più bassi. Non è strano che qualche autore si sia messo direttamente in rete. Come non è strano che, mentre rileva il calo di best sellers nel 1999, Giuliano Vigini, intervistato su Tuttolibri del 26 agosto, fornisca dati che confermano un aumento del fatturato librario globale in Italia, interamente attribuibile a una sorta di "rivincita gutenberghiana", ovvero al precisarsi di un'offerta qualificata e personalizzata che, se stenta ancora a trovare luoghi e canali distributivi, configura già un mercato che non ha mai smesso di esprimere la sua domanda, diversa da quello del fast book.
    Di fronte a questa modesta ma significativa realtà nazionale, l'irruzione dell'e-Book si rivela come facente parte del mondo dei sogni: sogni di finanziari, sogni di giornalisti che succhiano la penna in cerca di "notizie", sogni di non lettori che, sotto l'ombrellone, si vedono intenti a "scaricare" e a chiamare su schermi portatili (a forma di libro, ma di plastica) tutto un mondo di testi virtuali in perpetua circolazione nell'etere (romanzi di casalinghe, reinterpretazioni della Bibbia, autobiografie di trapiantati, diari del nonno o della zia, accanto ai classici di ogni letteratura, alle cento opere salvate dall'UNESCO, per dire, a tutto Calvino e all'ultimo premio Viareggio per la letteratura, ex aequo): insieme opere insigni già reperibili nella comoda forma libro e tutta quella massa di rotture di coglioni che sarebbe compito istituzionale delle case editrici rendere impubblicabili. Vorrei proprio vedere Alberto Vitale che si scarica lo Zibaldone di Giacomo Leopardi...
    Più ragionevole sarebbe vederlo alle prese con Van Straten e/o Veronesi: una mezz'oretta e via, cancellazione e nuovo collegamento. Che l'e-Book possa davvero segnare la fine di questo tipo di libri? Non sognamo.
    Intanto, anticipando su Alberto Vitale (ma senza i 100.000$), il 18 ottobre, alla Buchmesse di Francoforte, gli esponenti di alcuni editori europei (Wagenbach, Verso, Ordfront, Bollati Boringhieri) che hanno pubblicato le traduzioni nelle rispettive lingue di Editoria senza Editori, si riuniranno intorno ad André Schiffrin per discutere del destino del libro, del Book (senza e).

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    A sud del Libro:
    Librerie, editori ed intervento pubblico nel mezzogiorno italiano

    L'articolo che segue è un ulteriore passo di un lavoro che, reso urgente dal dibattito aperto con il libro di André Schiffrin (Editoria senza editori, Bollati Boringhieri 2000), ha fatto la sua apparizione nello speciale editoria 3 di LN. In quell'occasione librai, editori e intellettuali di Cosenza, Matera, Napoli, Messina e Lecce si ritrovarono a discutere della sorte del libro nel Sud, dove l'industria e il commercio editoriali soffrono di uno storico ritardo nei confronti del resto dell'Europa e dove l'arrivo del commercio librario globalizzato rischia (come altrove, peraltro) di cancellare esperienze editoriali uniche sostituendole con gli ormai consueti templi del consumo.
    Piero Manni, editore pugliese, in quell'occasione disse: « [...] Gli spazi per l'editoria di ricerca e di progetto diminuiscono sempre più, perché gli spazi, dalla distribuzione alle librerie, si stanno calibrando sempre più sull'altro tipo di editoria, quella "commerciale"» (da LN - LibriNuovi speciale editoria 3, p. 25). Più in generale gli interventi pervenuti dalle città del mezzogiorno delineavano un quadro ricco di attività, idee e impegno, ma senza nascondersi i ritardi, le occasioni mancate, i provincialismi, l'attività editoriale intesa come piccolo e piccolissimo cabotaggio all'ombra di enti locali e strutture pubbliche.
    Ci è sembrato quindi utile e interessante risentire un paio dei protagonisti di quel giorno, due librai (per cominciare). Il primo, Raimondo Di Maio della Libreria Dante & Descartes di Napoli, impegnato anche in una promettente attività editoriale, la seconda, Catia Pastura della libreria Hobelix di Messina una figura pressoché storica dell'attività commerciale libraria in Sicilia.
    Prima di procedere, comunque, e a titolo di preambolo, diamo volentieri spazio a una comunicazione di Raimondo Di Maio (da lui semischerzosamente definita «requiem») sulle librerie ed il commercio librario.

    «Prego osservare un minuto di silenzio in memoria delle librerie piccole, medie e grandi che a Napoli hanno chiuso i battenti negli ultimi anni. Erano librerie che avevano nomi illustri, alcuni storici: Cuen, De Simone, Parnaso, Trama, Violante...
    Ci sono altre librerie piccole, medie e grandi conciate male, qualcuna è agonizzante. In realtà più nessuno conduce la propria libreria senza preoccupazioni e affanni e il futuro si annuncia carico di pericoli. Voglio contribuire alla costituzione di un Osservatorio delle librerie italiane, prima che sia troppo tardi e il disinteresse delle istituzioni pubbliche, l'aggressione delle catene di librerie "improprie" e la concentrazione dell'industria editoriale renda vana ogni resistenza
    » (Raimondo Di Maio).

    [LN] Per prima cosa parliamo di distribuzione libraria. Nella vostra città, quanto pesano la grande e la media distribuzione? E, per quanto riguarda i grandi distributori con magazzini centralizzati, quali sono i tempi di invio dei libri, la percentuale di smaltimento dei titoli ordinati, le differenze nel servizio tra i vari gruppi?

    [C.P.] La situazione della distribuzione a Messina è identica, per i grossi editori, a quella delle altre città siciliane. I magazzini più vicini di Messaggerie e R.C.S. sono a Napoli, Elemond è, come sapete, centralizzata a Verona. Da Palermo funzionano PDE, Didattico (che comprende la rete dehoniana) e altre agenzie che talvolta fanno da grossisti. I più veloci? R.C.S. e Messaggerie: consegna a due-tre giorni dall'ordine, con percentuali di smaltimento del 70-80% dell'ordine. Mediocre, per tutti, la precisione e l'informazione circa i titoli non disponibili. Ci serviamo raramente dai grossisti locali, per le note ragioni di svantaggio economico, lacunosità dei magazzini e tempi di consegna.

    [R.d.M.] La distribuzione a Napoli attraversa da anni una situazione di profonda trasformazione. La tendenza è verso la verticalizzazione, un rapporto diretto tra grandi editori e librai riducendo il ruolo di mediazione del distributore. Si veda, ad esempio, il gruppo Mondadori - Elemond.
    Esistevano prima alcuni grossisti editoriali - NES, DEROMA - che distribuivano i maggiori editori. Erano comodi e veloci specialmente per la piccola libreria, ma l'ipertrofia editoriale-finanziaria (che è un disegno e non una tendenza) li ha spazzati via. Il peso della grande e media distribuzione è abbastanza forte nell'attività libraria perché Napoli ha sempre avuto il ruolo di centro di distribuzione per le altre regioni del Sud: dallo scolastico-universitario alla varia. La verticalizzazione della distribuzione sta impoverendo questo ruolo di centro distributivo.
    I tempi a Napoli città sono veloci, un giorno, massimo due, ma i libri richiesti che non arrivano sono ogni giorno sempre di più. C'è un collasso dei grandi cataloghi editoriali perché gli editori rincorrono solo le novità e di queste ultime soprattutto la fatturazione.

    [LN] Vi sono rapporti tra librerie ed editoria locale? Come sono?

    [C.P.] I rapporti con l'editoria locale sono duplici: un patto di tacita tolleranza e di reciproca utilità gestito, nel caso della varia, in modo semifamiliare, con promozione inesistente e rendiconto vendite, fatta eccezione per la casa editrice Mesogea, che viene promossa da Vivalibri e distribuita da Messaggerie. Per l'universitario, invece, lo sconto massimo per le librerie arriva al 25% e la massima dilazione di pagamento è di 30 giorni (!!!), ma il pagamento immediato è la regola più diffusa.

    [R.d.M.] L'incidenza dell'editoria locale nelle vendite rappresenta oggi una piccola percentuale, mentre in passato c'era un maggiore assorbimento di libri locali di buona qualità e contenuti. L'ultimo grande editore ad avere chiuso è stato Morano, un editore storico. Occorre produrre e vendere meglio i libri prodotti al Sud per avere maggiore indipendenza ed essere meno legati alla produzione-distribuzione del grande capitale.
    Un esempio: le Edizioni dell'Anticaglia nascono dall'incontro tra librerie storiche e nuove, alcune anche case editrici. Sette librerie napoletane (Berisio, via Port'Alba, 28; Botteguccia, via D. Capitelli, 39; Cassitto, via Port'Alba, 10; Colonnese, via S. Pietro a Majella, 32/33; D'Ambrosio, via S. Sebastiano, 43; Dante & Descartes, Via Mezzocannone, 75; Narciso, P.za Cavour, 60) si uniscono e diventano editori di libri in proprio. Il modello di produttori associati si era sviluppato in molti centri europei già nei primi anni successivi all'invenzione della stampa, quando librai e tipografi si organizzavano per realizzare edizioni partagée, divise in parti uguali con l'indicazione degli indirizzi di ciascun editore-libraio.
    Le Edizioni dell'Anticaglia, dopo due fortunate ristampe di libri sulla rivoluzione napoletana del 1799, hanno pubblicato, in edizione anastatica, con un'ottima introduzione di Paolo Macry, le Notizie del bello e dell'antico e del curioso della città di Napoli, la maggiore guida storico-monumentale della città, ritenuta a ragione la migliore opera di documentazione in materia. L'opera, 5 volumi in 8 tomi - più di 4.000 pagine - racchiusa in astuccio per un prezzo di copertina di L. 360.000, ha avuto ben 604 sottoscrittori privati e 200 prenotazioni dalle librerie cittadine, diventando un vero caso editoriale come non se ne vedevano da tempo.
    Mi sono un po' dilungato sull'esempio perché è chiaro che questa operazione editoriale ci ha garantito veri utili e, per una volta, ci ha reso protagonisti in un processso dove, solitamente, siamo invece quelli che lo subiscono e, volenti o nolenti, devono sopportarlo.

    [LN] Qual è la situazione rispetto alla grandi librerie di catena? Ne esistono o è in progetto la loro apertura? Quali sono stati, eventualmente, i riflessi sulla vostra attività?

    [C.P.] A Messina non ci sono grandi librerie di catena.

    [R.d.M.] A Napoli c'è solo una Feltrinelli molto funzionale e produttiva che ha messo in gioco mezzi che nessuna libreria cittadina, per quanto grande e storica, possedeva. È una libreria che funziona molto bene, è sempre affollata ed è diventata presto la più grande della città. Ha preso clienti a tutte le altre librerie ed è molto fornita, specialmente di scintillanti novità. Ha un pubblico di lettori e studiosi, ma si ha l'impressione, a un'osservazione più attenta, che la forza del successo di queste grandi aree sia lo strutturarsi di uno stile di vita a trent'anni dal boom economico di consumatori maturi... Quindi una maggioranza non di lettori ma di consumatori, che soddisfa i propri bisogni di possesso seguendo tendenze effimere ed è sedotta più da avvincenti grafiche di copertina che dai contenuti del libro... è indubbio che nel nostro paese c'è una crisi culturale profonda.
    C'è un progetto di una nuova Feltrinelli Megastore Multipiano con un fitto da capogiro (1 miliardo e 400 milioni annui) e arrivano anche le FNAC. Entrambi gli Store (chiamarli librerie è improprio per noi e per loro) apriranno in due luoghi strategici dello shopping cittadino. È un'azione di forza sul tessuto commerciale della città, ma si sa che aziende tanto grandi possono anche venire a spalmare perdite. Basta loro riuscire a battere i concorrenti (Mondadori e Rizzoli avevano da anni in progetto di aprire a Napoli una propria libreria).

    [LN] «Nell'Italia meridionale i lettori sono pochi». Frase usata e abusata sui giornali e nei libri inchiesta sull'editoria. È un luogo comune o corrisponde alla verità? Esiste una fascia di lettori invisibili, sommersi, non rilevata dalle statistiche?

    [C.P.] È vero che i lettori sono pochi, ma, anche se crescessero di numero, la mancanza di rilevamento statistico - che confermo - li renderebbe invisibili anche a Vigini e al grandefratello!

    [R.d.M.] Non conosciamo il numero di lettori e i dati di assorbimento non corrispondono alla realtà. Abbiamo lettori appassionati e non-lettori di professione fra le nuove generazioni, ma è fuor di dubbio che lo stile di vita che tutti immaginano per se stessi è socialmente elevato: Registi, Scenografi, Giornalisti, Scrittori, Professori universitari. È la syndrome coloniale di un paese in crisi. I lavori non - high li affidiamo agli immigrati.
    Il numero di libri che si vendono a Napoli in luoghi diversi sfugge a qualsiasi statistica, così come l'industria dei libri falsi e delle fotocopie, mentre non è ancora seriamente monitorato il numero di lettori delle biblioteche, dimenticando che il ricorso al prestito è un istituto molto più diffuso al Sud. Infine - e rispondo anche alla domanda successiva - la diffusa presenza di remainder's, veri o presunti tali, e la distrazione dai maceri di interi TIR di case editrici del Nord che abbiamo visto in questi anni, rendono complicata una risposta. Se è vero che c'è una generazione che legge e ama i libri, è altrettanto vero che la stragrande maggioranza diserta la lettura. C'è al Sud, un serio problema economico: a lavorare è spesso uno solo in famiglia e il costo di un libro ha il suo peso. I media, invece, incoraggiano a consumare alcoolici, auto, telefonini, sesso...

    [LN] Esiste un mercato remainder's? È vero che la maggior parte dei titoli resi al Nord finisce sul vostro mercato attraverso questo canale, creandovi ulteriori problemi di concorrenza?

    [C.P.] A parte qualche bancarella in periferia e qualche manifestazione periodica in piazza, non ci sono remainder's. Piuttosto sono le edicole i concorrenti con il «tagliaprezzi», i «riciclarese» più visibili e concorrenziali, senza contare la UPIM, dove si possono trovare, scontate, le novità appena uscite.

    [LN] Quali iniziative consideri indispensabili per affrontare i vostri problemi?

    [C.P.] Il varo di una seria legge per il libro, con regole chiare e trasparenti per quanto riguarda sconti e distribuzione. La costituzione di consorzi di librerie medio-piccole.

    [R.d.M.] Innanzitutto una legge che limiti lo stravolgimento dei tessuti commerciali urbani a vantaggio di poche grandi strutture commerciali. E una legge che sostenga e comprenda il ruolo sociale e culturale che svolge una piccola libreria in città come in provincia, dove spesso è l'unico luogo dove circolano idee e cultura.

    [LN] Quali rapporti avete - se ne avete - voi librai con le facoltà universitarie umanistiche e/o scientifiche e con istituzioni locali? Comuni e Regione, biblioteche civiche e scuole collaborano con voi a promuovere la lettura?

    [C.P.] Qui, forse più che altrove, la parola «biblioteca» è qualcosa a metà fra un'utopia e una bestemmia e la Regione taglia sistematicamente e pesantemente i fondi alle poche biblioteche che abbiamo, già endemicamente poco aggiornate e funzionanti. Gli enti locali? Tengono su assessorati alla cultura che sono incapaci di fare e pensare cultura, impegnati come sono a fare spazio a discutibili eventi episodici e di facciata. Il rapporto con l'Università? È un rapporto molto mediato dalle figure dei docenti che hanno una precisa idea del «servizio» che possiamo offrir loro, malgrado la calcificazione di storici sodalizi saldati nel tempo con questo o quel libraio. La nostra collaborazione è ampia nel momento in cui le dinamiche interne alle scelte dell'istituzione accademica aprono spazi possibili. Quanto alla promozione della lettura... nel senso più ampio e scevro da speculazioni commericali, conosco solo Hobelix che la faccia, e, con lei, piccoli drappelli di insegnanti di ogni ordine e grado. Le istituzioni locali se ne infischiano e non ne sanno molto, né mostrano di volerci investire anche minime risorse economiche. Ma su questo tema ci sarebbe moltissimo da dire e spero che vi sia spazio in un prossimo numero della rubrica.

    [R.d.M.] Indifferenza, latitanza, familismo, anche se non manca qualche spazio per costruire rapporti e relazioni. Ci vorrebbe un numero speciale della rivista solo su questi rapporti con l'istituzione...

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    Arrivano i Loro!
    Vargas Llosa vs. Vargas Llosa

    «La Repubblica», 7 novembre 2000. Esce un articolone di Mario Vargas Llosa intitolato: Una piccola libreria contro la globalizzazione.
    Articolo davvero interessante, anche se non precisamente incoraggiante.
    Lo scrittore racconta ai lettori della catena di librerie Waterstone's dove, visti gli esiti commerciali non esaltanti (500 milioni di sterline di perdita), è saltata la testa di Mr. Topping, sostituito dall'ex-direttore della Boots, multinazionale del farmaco.
    Waterstone's perdeva denaro secondo i dirigenti della HMV Media, « [...] potente multinazionale» scrive Vargas Llosa. Il difetto principale di Topping - o almeno quanto gli viene rimproverato - pare sia l'essersi ostinato a voler acquistare e mantenere a magazzino « [...] libri di poca tiratura da case editrici minime».
    Topping non si è rassegnato tanto presto e, nei giorni in cui l'articolo è stato scritto, stazionava di fronte all'ingresso di una delle librerie Waterstone «con un cartello in mano, accompagnato da un gruppo di alleati». La sua protesta « [...] gode di grande simpatia in tutto l'ambiente culturale e, soprattutto, tra le case editrici piccole e di qualità».

    Se avete la sensazione che qualcosa non quadri nel racconto, avete ragione. Come può l'ostinazione di Mr. Topping aver condotto a una perdita consolidata di 500 milioni di sterline (1.675 miliardi di lire)? Tutta di libretti e librini di alto profilo culturale? In Gran Bretagna il mercato del libro è sì più vasto del nostro, ma un deficit pari a un terzo del totale del mercato librario italiano non è un po' esagerato? E chi ha esagerato, Vargas Llosa, il traduttore dell'articolo o la HMV Media?

    Nebbia. Inutile cercare lumi in altre parti dell'articolo: non li troverete.
    Una volta messo così sull'avviso il lettore (sia dell'articolo sia in generale) il Nostro continua con i propri ricordi di giovanotto, lamenta la vendita di libri che «esibiscono colori sgargianti e copertine volgari» e si rammarica di dovere, ormai, comprare i libri per via elettronica.
    Se il lettore ha almeno un'idea del credo politico recente di Vargas Llosa comincia molto presto a subodorare il bidone - troppa fretta nel dare per defunte le librerie - ma se (anche giustamente) non ricorda l'infelice conversione al thatcherismo e la dura battaglia da destra all'esimio golpista Fujimori, può anche andare avanti un pezzetto confidando nel Vargas Llosa scrittore e non nel politico.
    La disillusione è perfida e totale: «È un illusione credere che, trattandosi della vita culturale, i prodotti commerciali ad essa associati, riceveranno un trattamento speciale che li escluda dai rischi e danni inerenti alla libertà di mercato» sentenzia VL, dopo il consueto fervorino sulle meraviglie della libera concorrenza e dopo la stoccata agli intellettuali «dispoticamente illuminati» che non hanno a cuore la sorte di «milioni di consumatori che sono anche padri di famiglia» che con una politica di protezione dell'editoria e delle librerie di cultura non possono acquistare i libri scolastici con lo sconto.
    Conclusione: «[...] le masse preferiscono leggere bazzoffia letteraria e comprarla a buon prezzo, non nelle belle librerie di un tempo ma nei librodromi o su Internet».
    Insomma, fessi i librai che cercano di tenere in piedi le loro baracchette, fesso il popolo bue che compra stupidaggini, fessi gli intellettuali conservatori, spocchiosi e aristocratici. Tutti fessi, parrebbe, a eccezione del mercato che, come sanno anche i sassi, si autoregola ed è intelligentissimo e lungimirante e Mario Vargas Llosa che non produce bazzoffia quindi, virilmente, si prepara a non vendere più e a entrare in insanabile contraddizione con se stesso.
    È pur vero che VL afferma che: «La soluzione del problema della cultura sta nell'educazione del pubblico», ma, visto che l'intervento statale è in partenza bandito, come è possibile «educare» le masse? Esistono forse multinazionali benefiche disposte a spendere denaro per aumentare cultura e senso critico nel popolino? Dove sono?
    In realtà la lettura degli sproloqui dei vari adepti del neoliberismo ha sempre un suo interesse psicologico. Fantastica la loro rapidità nel mulinare i concetti come spade o come carte da gioco, come è fantastica l'abilità di accusare gli avversari in anticipo del reato di tentata richiesta di sostegno pubblico. L'ostinazione nell'affermare che solo la piena libertà del mercato può sanare tutte le contraddizioni, anche a prezzo di autocontraddizioni e cadute nella demagogia più idiota, ricorda molto l'apodittica fede e l'ingenuo e acritico materialismo dialettico di gran parte della sinistra italiana e non degli ultimi cinquant'anni. Sarà forse l'affinità nel metodo di analisi della realtà ad aver favorito il traghettamento massiccio di ex-comunisti - tra cui anche il benamato VL - sulla sponda del neoliberismo ?
    In quanto all'accusa di richiedere il sostegno pubblico a ogni costo non merita dar risposta a soggetti come VL, troppo infatuati del loro pseudodarwinismo economico. Ad accettare un simile taglio ideologico l'uomo saggio ha solo da perdere, prima la lucidità e poi il lume degli occhi. Se vogliamo parlare seriamente di libri e di cultura come inestimabile bene civile siamo pronti e disponibili. Il chiasso e la malafede, viceversa, lasciamoli pure ai vari Vargas Llosa del liberismo sfrenato. (Cybermanuzio)

    Esordienti inanonimi

    (Lo strano manoscritto di Monsieur Plon)

    Può capitare anche questo: che qualcuno mandi allo stesso editore in forma di manoscritto un libro già pubblicato tre anni prima, per vederselo restituire a stretto giro di posta accompagnato dalla consueta lettera: «non adatto alla pubblicazione... distinti saluti».
    Nulla di (troppo) strano se non fosse per il fatto che non è stato l'autore originale a inviare il manoscritto, ma alcuni redattori del settimanale Voici nei panni di hacker gutemberghiani, che hanno rimandato all'editore francese Plon il romanzo di Claire Chazal, giornalista e anchorwoman della televisione francese. Che nessuno in casa editrice l'abbia in realtà letto è ben più di un sospetto. D'altro canto - lo sanno tutti - l'unico modo certo per vedere pubblicato un libro è quello di essere già noti per altri motivi... (Cybermanuzio)

    Sinergie

    Grandi e piccoli fratelli

    In questi giorni diverse librerie italiane hanno ricevuto i normali riordini di 1984 di George Orwell, un vero long-seller edito negli Oscar Mondadori, decorati da una strana fascetta dorata e argentata con la scritta: «La vera storia del Grande Fratello».
    Non so quanti librai abbiano esposto il volume così sconciato e nemmeno si riesce a immaginare quale sia stata la fervida mente che ha concepito una simile «sinergia» tra un romanzo - simbolo del nostro secolo- e un programma insulso nato per sviluppare il voyeurismo nelle famiglie italiane.
    Chissà se qualcuno è caduto nel tranello mondadoriano e si è portato a casa il capolavoro di Orwell pensando di trovarvi l'antefatto del programma di Canale 5?
    Ma, come insegna Gian Arturo Ferrari, qualunque sistema è buono per aumentare le vendite di libri. Bisogna attivare tutte le sinergie... (Cybermanuzio)

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    Febbraio 2001: La Legge sul libro

    Al momento i giochi non sono forse del tutto chiusi, vista la possibilità di successive integrazioni e modifiche in sede governativa, ma sulla base di quanto divulgato dall'A.L.I. (Associazione Librai Italiani) la legge sul libro attesa da almeno un decennio è ora realtà
    Sono inevitabili alcune perplessità sulle numerose eccezioni e deroghe previste dall'articolo 11 (sconto massimo 10 per cento sui libri normali e 5 sui libri scolastici). Ma la legge, accogliendo un parere dell'EU sul libro come «prodotto dal duplice valore, commerciale e culturale», lo colloca nell'area dei beni fondamentali per lo sviluppo e la crescita culturale del paese. Questo modifica profondamente le coordinate della situazione editoriale e libraria in Italia e apre possibilità e speranze che fino a ieri sembravano negate.
    Di interessante e positivo vi è senz'altro l'articolo 9 della legge che istituisce un «fondo per la promozione e la distribuzione del libro e dei prodotti editoriali di elevato valore culturale», anche se rimane apertissimo – com'è ovvio – il criterio che verrà utilizzato per classificare un libro «di elevato valore culturale». Altrettanto positivo che lo stesso articolo riprenda uno dei punti qualificanti della Legge Tapparo (cfr. LN 3 - Speciale editoria), prevedendo fondi per l'apertura di nuove librerie o per la ristrutturazione e l'ammodernamento di quelle già esistenti.
    L'enfatizzazione posta dalla legge (ma anche nei primi commenti a essa) sul tema del «multimediale» può forse lasciare perplessi librai ed editori più tradizionali – tanto più in tempo di eclissi della new economy – ma ha il pregio di sollecitare un'evoluzione nel rapporto tra editoria cartacea e elettronica, estendendo il concetto di prodotto editoriale anche ai siti internet. Che cosa questo comporti in termini di regolarizzazione del mondo del web rimane comunque un problema apertissimo e di non certo facile soluzione. Basti pensare agli enormi problemi posti da un lato dall'esistenza di un vasto settore informativo privo di garanzie occupazionali, dall'altro dai rischi che possono sorgere da una regolamentazione di tipo corporativo dell'informazione sul web.
    Sulla questione del prezzo di copertina dei libri, infine, anche alla luce di quanto già dichiarato (cfr. LN 15 - Il prezzo della lettura), non c'è da augurarsi che il dettato di legge resti invariato, nonostante il parere di Forza Italia che parla di «una norma illiberale». Uno sconto massimo del 10 per cento sul prezzo di copertina dei libri può contribuire alla sopravvivenza di una vasta rete di piccoli e medi punti vendita e di librerie indipendenti e creare le condizioni per una diminuzione reale del prezzo di copertina dei libri.
    La deroga prevista per le librerie on line non è al momento eccessivamente preoccupante, vista la scarsa diffusione delle carte di credito in Italia e i costi di recapito. Curioso, comunque, che la legge che da un lato vuole favorire una capillare diffusione territoriale dei punti vendita, dall'altro contribuisca a sviluppare massicciamente un e-commerce librario che ha per primi possibili referenti i lettori che abitano lontano da centri forniti di librerie. In altre parole: perché aprire una libreria in provincia se tutti comprano i libri da Zivago o da Bol?
    In ogni caso un passo avanti è stato fatto. Una legge che non protegge automaticamente l'editoria di proposta e le librerie indipendenti dalla «desertificazione» culturale (cfr. nello spazio «I Librivendoli» di questo numero: Protagonisti e comparse), ma che interrompe un processo di emarginazione dal mercato che sembrava ineluttabile. A questo punto – sempre ammesso che la legge non venga del tutto snaturata – costruire rapporti di sempre maggiore integrazione tra editoria e commercio librario indipendenti diventa il tema all'ordine del giorno, da non rimandare.
    (Massimo Citi)

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    Protagonisti e comparse:
    piani di sviluppo e censure del mercato

    L'articolo che segue nasce da alcune telefonate, un incontro a quattr'occhi e soprattutto da un sentimento di risentito divertimento o, se preferite, di ironica indignazione.
    È frutto della collaborazione di due cronisti - addetti ai lavori -
    Cybermanuzio & Il Viaggiatore - che incerti tra la risata e il pianto dirotto hanno scelto la prima. La forma parzialmente dialogica dell'articolo nasce anche dalla sua genesi a due voci. (M.C.)


    Conviene sempre passare dal sito di Alice (www.alice.it). Costa poco ed è sempre istruttivo.
    Come in questo caso, quando, attirato da un titolo decisamente suggestivo (Commercio librario in Italia: protagonisti a confronto), sono andato a leggere un articolo rivelatosi davvero goloso per l'involontario humour contenuto nelle dichiarazioni e nei progetti dei protagonisti.
    Chi sono i «protagonisti» del commercio librario italiano, per cominciare? L'A.I.E., ovviamente, (Associazione Italiana Editori) che ha promosso il convegno «Il libro tra prezzo e servizio» a Milano lo scorso 17 gennaio. E poi i responsabili di «alcune delle principali catene librarie presenti in Italia e delle maggiori librerie online». Altri protagonisti, anche se un po' defilati, «esperti di ricerche sui comportamenti d'acquisto dei lettori» e «rappresentanti della grande distribuzione».
    Ci siamo sentiti, a quel punto. Sapevo che Il Viaggiatore era stato testimone oculare dell'evento e non volevo perdermi la sua impressione a caldo:

    
    - ...E librai ce n'erano? 
    - Certo, erano presenti i responsabili di «alcune delle principali catene...»
    - No, sul serio. Librai ce n'erano?
    - Ma librai nel senso di librai privati? 
    - Sì
    - No
    - Ah ... nemmeno l'A.L.I. (Associazione Librai Italiani)?
    - No
    - Eh, già. Cosa c'entrano i librai con il commercio librario in Italia? Ovvio. Sarebbe come invitare dei cuochi o dei violoncellisti. E poi si rischia di sentire qualche stecca, qualche commento indesiderabile. Magari va a finire che va tutto in vacca, che poi a leggere si finisce per ridere, per trovare ridicola tutta la cosa...
    - Ahem...
    - Cosa?
    - Niente. Proseguiamo?
    - Sì, sì, va bene, proseguiamo pure.
    
    

    Ma cosa si saranno mai detti tutti questi importanti signori, responsabili di gigantesche catene librarie? (FNAC, Librerie Mondadori, Librerie Feltrinelli, MeL Bookstore, Librerie Rizzoli, Il Libraccio)?
    Molto semplice: hanno indistintamente presentato faraonici piani di espansione dei propri punti vendita:

    FNAC: 5 nuove grandi librerie a Genova, Verona, Milano (la seconda), Napoli e Padova.
    Librerie Mondadori: Sviluppo punti vendita in franchising, librerie Mondadori e Mondadori multicenter (Libri + musica + prodotti digitali + servizi per il tempo libero). Non si quanti ma certamente tanti.
    Librerie Feltrinelli: da 58 punti vendita a 150 entro il 2004.
    MeL Bookstore: altri 5 punti vendita entro il 2005.
    Librerie Rizzoli: nuove librerie in franchising (sempre a copiare Mondadori, eh?) e (impagabile): «offrire al cliente più che una gran quantità di titoli, una selezione ragionata di libri che siano però molto visibili e rendano "facile" l'operazione di acquisto» Come dire: «Io vendo solo i libri che si vendono, quelli che non si vendono, non li vendo.» Si chiama Paolo Zaffaroni, comunque, il responsabile Rizzoli non Lapalisse.
    Il Libraccio: collaborazione con Messaggerie Libri per aprire nuovi MeL Bookstore.

    Difficile fare due conti. A spanne, saranno dai 150 ai 200 nuovi punti vendita. Ovviamente quasi tutti giganteschi e tutti o quasi multimediali. «E che tengono i libri che si vendono, non gli altri», insiste Lapalisse, pardon Rizzoli.
    Non solo: tutti preconizzano e si impegnano a favorire il commercio online con un impetuoso sviluppo delle librerie virtuali.
    Insomma, parrebbe proprio che librerie private e editori che non vendono best-seller ma soltanto libri abbiano i giorni contati. Entro il 2005 i primi riusciranno (forse) a trovare un posticino, magari uno sgabuzzino delle scope nei negozi «tra i 500 e i 2500 mq» dei quali parla Antonini (Librerie Feltrinelli). In quanto ai secondi faranno bene a produrre qualcos'altro. Infatti tra i Rizzoli Store dei quali si è già detto e la «selezione "feroce" del prodotto» che avviene nel rifornimento verso la grande distribuzione, non si capisce come faranno a vendere i loro libri. A meno di tornare ai carrettini trainati a mano.
    In ogni caso ci saranno sempre a disposizione i «Lampi di stampa», ovvero il print on demand di Messaggerie Libri. O le «guide al libro ritrovato» del Libraccio.
    Inutile domandarsi cosa ne sarà dei libri che non verranno nemmeno più stampati e che non avranno neppure la possibilità di essere riesumati nei lampi di stampa o dal Libraccio. Queste non sono osservazioni pertinenti.
    Molto pertinenti, viceversa alcune semplici riflessioni che, a una lettura anche distratta, saltano subito all'occhio nate da tre osservazioni riportate nel testo dell'articolo.
    La prima, di Alessandro Baldeschi, fatta durante la tavola rotonda finale, per la quale: «I progetti di forte espansione che prevedono la nascita di molti punti vendita non sembrano del tutto in sintonia con un mercato stagnante» (apprezzate, vi prego, l'eufemismo gentile di quel «del tutto»: incantevole), la seconda di Carlo Erminero di Demoskopea che con un ennesimo studio statistico ridimensiona brutalmente i dati ISTAT (che davano i lettori di almeno un libro all'anno - da dividere come i torroncini tra duri e "morbidi" - al 54% della popolazione), parlando di «un 29% della popolazione italiana, ossia 14 milioni di persone, [che] compra almeno un libro all'anno» e di «un 40% dei libri acquistati da circa un milione e ottocentomila persone, coloro che prendono più di 11 libri l'anno e che rappresentano solo il 13% degli acquirenti». Di ulteriore interesse, in questa indagine Demoskopea, che «il punto vendita preferito resta la libreria».
    La terza e ultima riguarda la mancanza, divenuta ormai una vera piaga, di una regolamentazione efficace del prezzo di vendita del libro. A quanto pare, comunque, all'AIE non è arrivata traccia né della legge Tapparo (cfr LN 3 speciale editoria) né della legge Melandri. Nell'articolo si parla infatti di una bozza di disegno di legge del tutto diversa dalle due (ultime) leggi presentate, che, comunque, non è ancora nemmeno stata presentata in parlamento (e allora perché parlarne?). [vedi Febbraio 2001: la legge sul libro]

    Allora, cosa si deve pensare di un pattuglione di manager in preda a deliri di onnipotenza, impegnati in una gara di «ce l'ho più grande io (la catena di librerie)», che, come giustamente fa presente Baldeschi, sembrano non cogliere che il mercato del libro (anche grazie alle scelleratezze editoriali di questi anni) non dà segni di ripresa?
    A ben pensarci averli riuniti è stata un'operazione provocatoria, da situazionisti. Finché ognuno parlava della propria grande espansione c'era poco da ridere, ma se le espansioni diventano plurime è difficile restare seri.
    Questo non significa, ovviamente, che non bisogna essere preoccupati, anzi. Noi, per esempio, siamo preoccupatissimi. Una delle caratteristiche principali del management è di attaccarsi ad un'idea sbagliata, ripeterla a mantra in ogni occasione - come un testimone di Geova affetto dal morbo di Alzheimer - e non staccarsene più, almeno finché l'idea non è stata distrutta dalla realtà ingrata. Generalmente il manager a quel punto concepisce un'altra idea e va a combinare guasti da qualche altra parte.
    Apparentemente a dettare legge sono le esperienze straniere. Ma si tratta di paesi dove la lettura è pratica diffusa e comune e dove - spesso - esistono leggi che tutelano il libro e i lettori. Basti pensare all'esperienza francese di legge sul libro, che ha permesso a FNAC di affermarsi anche senza fare uso di politiche aggressive in termini di sconto e, nel contempo, a molte piccole e medie librerie di sopravvivere.
    In mancanza di una legislazione analoga in Italia, alle prese con megalibrerie, librerie virtuali, lampi di stampa e libracci cosa devono fare librai indipendenti, grossi, piccoli e medi e editori che sanno produrre solo «i libri che non si vendono»? Ma a ben vedere, cosa devono fare anche i rappresentanti editoriali, che possono sopravvivere solo grazie alla presenza di una vasta rete di librerie sul territorio?
    Organizzarsi, parrebbe. O quantomeno cominciare seriamente (seriamente, non partecipando a convegni futili & futuribili) a parlare delle prospettive di un commercio librario coerente e maturo, nel quale i lettori non fungano da pedine di un plastico.
    La «censura del mercato», ovvero l'eliminazione di tutto ciò che non rientra nelle economie di scale del management, non è un'invenzione dialettica del popolo di Seattle, ma una realtà che dovrebbe, innanzitutto, preoccupare i lettori.

    Un'ultima osservazione merita la «provocazione» del direttore responsabile della rivista Mark Up, Luigi Rubinelli.
    Sono anni che con insistenza qualcuno, in genere reduce da un viaggio all'estero, ritira fuori la storia della libreria dove, volendo, «si può anche prendere il caffé». Ultimamente si è aggiunta a questa smania caffeinomane anche quella di Internet. Quindi adesso servono librerie dove: «...prendere il caffé (o il té) e navigare in internet».
    Rubinelli aggiunge anche «mangiare». Vista l'ora dell'intervento doveva avere appetito. Naturalmente è il mercato, anzi le «diverse tipologie di clienti» a imporre questa mutazione alle librerie. Inutile dire che, viste le metrature medie delle librerie italiane è praticamente impensabile che tutte possano trasformarsi anche in cyberstazioni, café chantant, tea-room, emeroteca e fast-food (oltre che trattare DVD, palmari, cellulari, poster, CD audio e CD-ROM ecc. ecc.). Non resta quindi che affidarsi alla generosità delle librerie di catena che dovranno imitare «l'atteggiamento delle grandi catene di librerie estere, in particolare di Border's e Waterstone [per Waterstone cfr. LN 16, I librivendoli: arrivano i loro! ] dove tutto è curato per venire incontro alle necessità [...] dei clienti.»
    Per «provocazione» noi intendiamo una cosa diversa, tipo: «Quale tipo di editoria presuppongono canali di distribuzione tanto standardizzati? È possibile che tutto il comparto possa seriamente pensare di sopravvivere su una manciata di titoli e di autori? La prima funzione delle librerie non è quella di far incontrare il libro con il suo lettore e non occuparsi di tartine, pizzette e caffettiere?» Ma la provocazione di Mark-Up è di un tipo assolutamente innocuo. Un po' come il compagno di scuola più grande e scafato che ridacchia vedendo il tuo compito.

    
    TU: (Sicuro) Va bene, no?
    LUI: Ah, se lo dici tu
    TU: No, dico, va bene, sono sicuro.
    LUI: Sì, sì... fai un po' tu
    TU: (Meno sicuro) Ma cosa c'è che
    LUI: Niente, niente... solo
    TU: Solo?
    LUI: Hai tenuto conto che «le librerie in Italia sono fatte "ospitare" libri e per soddisfare autori ed editori e non per rispondere alla esigenze, alle speranze e alle attese dei clienti»? Ne hai tenuto conto?
    TU: Ma va. Non lo chiedevano mica.
    LUI: Questa volta (ride). Ma la prossima?
    

    Odiosi quei compagni lì. Soprattutto tenendo conto che in genere, a grattare bene, si scopriva che sapevano giusto ripetere due o tre formulette per poi arenarsi miseramente. Senza mai smettere di sorridere, però.
    La prossima volta, comunque, sarebbe bello se qualcuno pensasse di invitare anche i librai, sia pure in forma di comparse, dal momento che i protagonisti sono già predeterminati e il copione già scritto.
    Se poi non invitano, pazienza. Sappiamo ridere anche da soli...
    (Cybermanuzio & Il Viaggiatore)

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