Il Telelavoro
Lavoro virtuale, sfruttamento reale
Pino Caputo
Il telelavoro [il termine fu coniato nel 1973 da Jack Nills, un consulente statunitense] si sta facendo a poco a poco strada nel mondo del lavoro contemporaneo. In Italia sia questa nuova forma di prestazione lavorativa che il dibattito attorno alle sue tipologie e implicazioni sono però molto indietro. In questo articolo, lungi dall'essere esaustivo su un argomento in forte evoluzione, tenterò semplicemente di fornire alcune informazioni cercando, al contempo, di far nascere un minimo di dibattito sulla trasformazione delle modalità lavorative nell'era del postfordismo.
Che cosa è il telelavoro?
La definizione qui di seguito riportata è dell'Osservatorio sul telelavoro, istituito dalla Telecom
come sito di informazione e discussione sul telelavoro, ed essenzialmente votato a darne una
visione completamente positiva, che si trova in Internet.
Dunque <<il telelavoro puo' essere definito, in via generale, come l'uso integrato ed organico
delle telecomunicazioni e del trattamento automatico delle informazioni all'interno del processo
produttivo>> [Telecom Italia, Osservatorio sul Telelavoro, http://servop.interseg.it/studi.html].
Un'altra definizione che riporto è quella data dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro di
Ginevra: secondo questa organizzazione il telelavoro è <<una forma di lavoro effettuata in un
luogo distante dall'ufficio centrale o dal centro di produzione e che implichi l'uso di una nuova
tecnologia che permetta la separazione e faciliti la comunicazione>>. Tali definizioni, che
evidenziano aspetti diversi del telelavoro, sono naturalmente molto generiche e in esse è
compreso anche ciò che sta diventando il telelavoro per antonomasia: ovvero il lavoro svolto a
casa in cui la comunicazione con l'azienda per cui si sta prestando l'opera avviene tramite un
collegamento in rete. A molti, infatti, alla parola telelavoro viene in mente l'immagine, utilizzata
ora anche in qualche spot pubblicitario, di una persona seduta in casa sua di fronte ad un
computer sul cui video compaiono immagini altamente "tecnologiche", mentre su un seggiolone
di fianco vi è un bambino sorridente che gioca.
Alcuni dati
I lavoratori attualmente coinvolti nel processo sono stimati in circa 8 milioni negli USA e circa
1,5 milioni in Europa [fonte Osservatorio sul telelavoro-Telecom]. La FIOM-CGIL stima che
in Italia i telelavoratori siano circa 100 mila e che il mercato potenziale sia di circa 2 milioni
[FIOM-CGIL, Pagina dedicata al Telelavoro, http://www.cgil.it/fiom/telelav/index.htm]. Infatti
l'integrazione delle telecomunicazioni (TLC) nei processi produttivi investe potenzialmente le
attività e le fasi produttive basate sull'acquisizione, organizzazione, trattamento delle
informazioni di qualunque genere e tipo. Tale comparto tende ad assumere dimensioni sempre
maggiori in quanto il processo di produzione di beni materiali comprende quote sempre
maggiori di ricerca, progettazione, gestione delle scorte, analisi di mercato, verifiche degli
standard qualitativi ecc. Si calcola che in Europa la quota di lavoratori che in qualche modo
"tratta informazioni" sia valutabile nell'ordine del 50% della forza lavoro complessiva, negli
USA intorno al 60% e si stima che l' 80% dei nuovi posti di lavoro sia compreso nel comparto
di trattamento dell'informazione. Quindi il comparto in cui potenzialmente potrebbe svilupparsi
il telelavoro, a condizioni di convenienza e fattibilità, è quello relativo al trattamento delle
informazioni e all'uso di strumenti informatici.
Una ricerca pubblicata un anno fa (Pan-European Telework Survey Results, Telework
International - Electronic Edition, Vol. 3, n. 2, Estate 1995, da una indagine svolta dalla rivista
inglese Flexibility, Aprile 1995) indicava in 1.250.000 le unità che svolgevano un telelavoro nei
cinque stati europei più popolosi (Germania, Gran Bretagna, Italia, Francia e Spagna), si può
capire quanto il fenomeno sia in espansione.
L'indagine di Flexibility dava anche altre informazioni che riporto:
- il 5% delle organizzazioni europee pratica il telelavoro;
- circa metà dei telelavoratori europei sono in Gran Bretagna;
- larghi strati della popolazione europea non ha mai sentito parlare di telelavoro: inglesi e
francesi costituiscono notevoli eccezioni.
Un'altra interessante indagine è stata svolta dalla canadese University of British Columbia su un
campione di 1677 telelavoratori. Il ritratto che ne viene fuori è quello di una persona (non ci
sono specificazioni sul sesso) di oltre 40 anni che vive in una villetta di proprietà, mediamente
di 149 mq, in possesso di diploma o con primo grado di istruzione universitaria e che guadagna
oltre 45000 $ l'anno, di cui meno della metà derivano dal lavoro svolto in casa. Le conclusioni
dell'indagine delineano che:
- il telelavoro e l'autoimprenditorialità sono in crescita;
- il lavoro in casa richiede nuove soluzioni abitative per combinare al meglio le attività
lavorative e familiari;
- il lavoro in casa provoca un maggiore rinnovamento delle propria attività;
- può inoltre essere un importante fattore nel decidere di spostarsi;
- può creare l'opportunità di far connettere se stessi e i familiari alle autostrade
dell'informazione.
Rimangono da citare pochi ultimi dati tratti da una rilevazione dell'Osservatorio sul telelavoro
che si è concentrata su coloro che all'interno di un'azienda utilizzano abitualmente strumenti
informatici. Il dato che emerge è che circa l' 80% fa un uso solo elementare degli strumenti
informatici: il computer è vissuto essenzialmente come una macchina per scrivere evoluta o una
calcolatrice particolarmente flessibile. Solo il restante 20% utilizza il computer in maniera
avanzata. Dalla stessa indagine emerge un ritratto delle persone interessate al telelavoro che
combacia abbastanza con indagini americane su persone che già sono telelavoratori. E cioè si
mostra interesse in base a:
- condizioni socio-familiari favorevoli (nuclei familiari con entrambi i coniugi occupati);
- disponibilità di spazio presso la propria abitazione;
- condizioni di stress dovute agli spostamenti casa - lavoro.
Mentre, secondo lo stesso campione, il telelavoro permetterebbe:
- un aumento della flessibilità;
- una riduzione degli spostamenti casa-lavoro;
- una delocalizzazione dei lavoratori;
- un allargamento del mercato del lavoro;
- un'offerta di lavoro in un bacino geografico più ampio (coincidente al limite con il mondo
intero).
Riflettendo sui dati
Questi dati servono esclusivamente a inquadrare il telelavoro, ma si prestano comunque ad una
serie di riflessioni. Innanzitutto si può dire che siamo in presenza di un fenomeno ancora
marginale ma in netta crescita e, se le previsioni della FIOM si realizzassero i telelavoratori
potrebbero rappresentare a breve il 10% della forza lavoro attiva in Italia. In altri stati, quali la
Gran Bretagna e la Francia, questo fenomeno assumerà senz'altro dimensioni maggiori.
Si può poi senz'altro dire, basandosi sulla rilevazione dell'Osservatorio, che il concetto di
telelavoro è poco conosciuto e, quando lo è, ne sono evidenziate le sue connotazioni "sociali"
(allargamento del mercato del lavoro e offerta di lavoro in un bacino più ampio) e positive
(aumento della flessibilità e riduzione degli spostamenti casa-lavoro). Il punto di vista è però
quello privilegiato di chi ha un lavoro stabile in un azienda e una certa disponibilità di risorse di
base (condizioni socio-familiari favorevoli e disponibilità di spazio presso la propria
abitazione).
Inoltre si sta sviluppando una notevole retorica istituzionale sul telelavoro e sui suoi presunti
vantaggi sociali. Nell'estate del 1994, per esempio è stato presentato il cosiddetto rapporto
Bangemann su "Europa e Società dell'Informazione Globale", secondo il quale telelavoro
significa "più lavoro, nuovi lavori, per una società in movimento". Non è certo difficile ribattere
a questa affermazione evidenziando, come alcuni osservatori hanno fatto, che il telelavoro è
semplicemente un diverso metodo di lavorare più che un'occupazione di per sé. E che, quindi,
se si può ammettere che il telelavoro produca nuove metodologie lavorative (dal punto di vista
della tecnologie utilizzate, del luogo in cui si svolge, del rapporto con l'azienda), non si può
assolutamente affermare che perciò si creino necessariamente più posti di lavoro.
L'istituzionalizzazione della doppia servitù
Ma in sostanza, cos'è il telelavoratore?
Riferendosi all'Italia e al presente, rispondere risulta abbastanza semplice. Attualmente sei
grandi aziende italiane hanno stipulato dei verbali di accordo con i sindacati che regolamentano
un periodo sperimentale di telelavoro. Le aziende sono la Telecom, la Seat, l'Italtel, la Dun &
Bradstreet SpA, la Saritel SpA e la Digital Equipment SpA. Mentre alla IBM Italia già da tempo
3 mila lavoratori svolgono la propria attività senza recarsi quotidianamente in ufficio. Tutti i
lavoratori interessati rimangono comunque dipendenti delle aziende per cui lavorano. Ma ci
sono già molte aziende, medio-piccole, per cui non è così. Qui, e ciò vale per la maggior parte
dei 100 mila attuali telelavoratori italiani, essi sono invece dei prestatori d'opera esterni, dei
lavoratori autonomi, sulle quali le aziende scaricano i costi strutturali (computer, contribuzioni,
linee telefoniche, spazio fisico dell'ufficio, riscaldamento, trattamento mensa) e fiscali, pagando solo la prestazione a prezzi "di mercato". Non bisogna poi dimenticare i cosiddetti guerrilla
workers, cioè i telelavoratori che operano nel sommerso, che non hanno rapporti di lavoro
continuativi, che non sono controllati dai sindacati.
Quindi, in mancanza di una forte legislazione di regolamentazione, il telelavoratore, o almeno la
gran parte di essi, è destinato, nei casi più fortunati, a diventare imprenditore di se stesso
(dando alla parola imprenditore anche un significato di progettualità). Negli altri casi lavoratore
a contratto o a cottimo. Comunque non impiegato dell'azienda, ma collaboratore esterno o
consulente, dotato di partita IVA e costituente impresa autonoma.
Tutto ciò naturalmente, al di là delle rappresentazioni pubblicitarie, significherebbe un
peggioramento delle condizioni di lavoro: nessun diritto alle ferie retribuite, nessuna
retribuzione dei giorni di malattia, nessuna contribuzione pensionistica da parte dell'azienda,
nessuna retribuzione della maternità, nessun corso di aggiornamento retribuito (essenziali per
rimanere sul mercato). Bisogna infine tener presente che è in corso un evidente tentativo politico
di limitare sempre di più la forbice fra il lavoro dipendente e il lavoro esterno a commessa o
consulenziale, per esempio con la nuova legge sulle pensioni o con la proposta del governo
tedesco di non pagare più al 100% le giornate di malattia dei dipendenti, oppure con la recente
proposta della Confindustria italiana di abolire i contratti collettivi nazionali di lavoro.
Alcune delle precedenti considerazioni si possono trovare anche nel rapporto alla Task Force
sull'occupazione della Commissione Europea presentato come aggiornamento del Libro Bianco
di Jacques Delors [Ursula Huws, Follow-up to the White Paper - Teleworking, 1995,
http://www.agora.stm.it/ectf/followup.html]. Vi sono diversi aspetti negativi e deleteri del
telelavoro, alcuni peculiari e altri no, pronti a scatenarsi, partendo proprio dalla disintegrazione
di forme collettive di organizzazione dei lavoratori, che porterebbero all'atomizzazione della
forza lavoro e alla crescente esclusione di larghe fasce di lavoratori dal cosiddetto "patto
sociale". A ciò si accompagna una sempre maggiore precarizzazione dell'occupazione e
l'ipersfruttamento di gruppi di lavoratori particolamente vulnerabili come le donne con bambini
piccoli, i disabili, oppure persone appartenenti a minoranze etniche, cosa che del resto già
avviene. In particolare per le donne il lavoro d'ufficio svolto in casa potrebbe portare a una
notevole sovrapposizione fra l'attività telelavorativa e le attività domestiche che, nella società
attuale sono ancora totalmente demandate alle donne. Il lavoro svolto in casa è percepito in
modo sostanzialmente differente dalle donne e dagli uomini ed il luogo dove si lavora non è per
niente neutrale rispetto al genere. Secondo lo stereotipo prevalente andare a lavorare fuori di
casa è visto come un'attività "maschile", mentre lo stare a casa è tipicamente "femminile". Ciò
conferisce all'atto di andare a lavorare fuori casa un significato notevolmente differente da parte
delle donne. Infatti al lavoro domestico, che è tradizionalmente svolto dalle donne, viene
attribuito uno status inferiore nella società: il potere, i soldi e lo status sono invece correlati
indiscutibilmente al lavoro svolto fuori dalla propria abitazione. È reale quindi la possibilità che
il telelavoro stabilisca per le donne una doppia servitù: quella dal lavoro svolto per terzi
(precario, mal retribuito e meno riconosciuto come effetiva attività lavorativa) e quella dal lavoro
domestico facendo ripiombare tante donne nello stato, estremamente marginale nella
organizzazione reale della nostra società, di "moglie e casalinga". Il seguente passo è tratto da
un'intervista apparsa su un magazine americano ad una telelavoratrice che cercava di iscrivere il
proprio figlio ad un asilo infantile: <<Mi chiesero se lavoravo e io risposi di si. Allora mi
chiesero dove e io dissi a casa e la loro risposta fu "Ma allora lei non lavora veramente!">>
Arrivano gli autonomi
Un aspetto che va evidenziato con forza rispetto al telelavoro, che però non è mai esplicitamente
dichiarato (di solito ci si trincera dietro la necessità della creazione di nuovi posti di lavoro), e
che il lavoro flessibile è essenzialmente percepito dalle aziende come una vacca da cui mungere
più margine possibile rispetto ai costi della gestione aziendale del lavoro. I nuovi profitti
aziendali si trovano lì: nella "flessibilizzazione" massiva del lavoro e dei lavoratori. Il telelavoro
è solo una modalità differente di attuazione della flessibilità, caratterizzato dalla esternalizzazione
del lavoratore rispetto all'impresa, elemento comunque già centrale nei processi di
ristrutturazione aziendale messi in atto dagli anni ottanta. Il telelavoro si inserisce quindi in un
processo già in atto da tempo, favorito dall'affermarsi di nuove tecnologie di TLC. Questo
processo è quello che, per esempio, David Harvey ha definito "l'accumulazione flessibile"
[David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, 1993]. Ora, questo processo si è
caratterizzato, sul piano dell'organizzazione aziendale e del lavoro, per una progressiva
flessibilizzazione sia della manodopera sia della struttura impiegatizia. Praticamente si è assistito
ad una riduzione del nucleo di dipendenti stabili dell'azienda (ciò che viene definitocore
manpower ) e al ricorso sempre maggiore a forza-lavoro esterna, comprendente lavoratori part-
time, occasionali, temporanei, a contratto e con contratto di formazione [1]. Il telelavoratore
appartiene tipicamente a queste categorie, la cui flessibilità è sia spaziale (può lavorare in
qualsiasi luogo in cui sia disponibile una linea telefonica) sia temporale (lavora per un'azienda
solo quando quell'azienda ne ha bisogno); molto più raramente appartiene al nucleo di
dipendenti stabili, caratterizzati da una flessibilità di tipo "funzionale".
Inoltre è molto più facile, è ciò diventa sempre più la norma, che il telelavoratore non sia
impiegato dell'azienda per cui sta prestando l'opera, ma sia invece un lavoratore autonomo.
Andrew Bibby, un giornalista inglese che si occupa da tempo di telelavoro, ha puntato il dito
verso questo aspetto. Egli afferma, infatti, che <<è significativo che i primi analisti del telelavoro
presupponessero che i telelavoratori sarebbero rimasti impiegati nelle proprie aziende, anche se
essi non avrebbero più lavorato negli uffici dell'azienda stessa. Ciò che invece sta succedendo
in realtà, al contrario, è che la maggioranza delle persone che svolgono un telelavoro lo fanno
come lavoratori autonomi>> [Andrew Bibby, Che cos'è il telelavoro, relazione tenuta alla
conferenza "Lavorando sull'autostrada dell'informazione: il telelavoro e il movimento dei
lavoratori", Manchester, 1995, http://www.eclipse.co.uk/pens/bibby/infobahn.html].
L'espansione del lavoro autonomo e la formazione di microimprese o imprese individuali è un fenomeno ormai assodato e tendenzialmente in crescita. E va sgombrato il campo dal
qualunquismo superficiale che identifica i lavoratori autonomi solo nei professionisti (avvocati,
architetti, notai, ecc...) e nei commercianti, e ricordare ancora che possiamo configurare come
lavoro autonomo tutte le prestazioni, formalizzate o meno da un contratto o da una commessa,
fornite a terzi dietro pagamento.
Per la sinistra tutto ciò pone seri problemi politici e di strategia. A partire dal fatto che la difesa
sindacale e politica dei lavoratori che costituiscono ciò che prima ho chiamato il core manpower,
cioè la forza-lavoro costituente il nucleo centrale di dipendenti fissi di un'azienda, si configura
sempre di più come la difesa di una categoria di privilegiati [2], mentre intorno aumenta la massa
di lavoratori che, fra lavoro flessibile, lavoro precario, formazione, apprendistato e impresa
individuale, sono sempre più lasciati a se stessi. Un altro aspetto è costituito dalla progressiva
perdita di significato sostanziale del cavallo di battaglia della sinistra sindacale: la riduzione
dell'orario di lavoro. È dimostrato infatti che il lavoratore flessibile, precario o autonomo lavora
mediamante molto di più rispetto alle 40 ore della settimana lavorativa canonica. E ciò non
avviene per egoismo o per avidità, ma semplicemente per la necessità di assicurarsi un
sufficiente livello di reddito. Infatti nel rapporto sul lavoro autonomo negli stati dell'Unione
Europea del Direttorato Generale V della Commissione Europea, si legge che <<i lavoratori
autonomi rischiano, più dei lavoratori dipendenti, di scendere al di sotto della soglia di povertà>>
[citato da Sergio Bologna nella relazione Orari di lavoro e postfordismo, tenuta al convegno "Il
giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita", Milano, 8-9
Luglio 1995]. L'ultimo aspetto che vorrei evidenziare si ricollega a quanto appena detto.
L'unico modo che ha un lavoratore non dipendente di aumentare il proprio reddito è quello di
ridurre la pressione fiscale che grava sulle proprie entrate. È questo può essere attuato
essenzialmente in due modi: a breve termine attraverso l'evasione fiscale, a medio-lungo
termine attraverso battaglie politiche e proteste sociali. In questo modo larghe fette di lavoratori
stanno passando, dal punto di vista politico-rivendicativo, su terreni di lotta tipicamente di
destra (dalla lotta per l'aumento salariale a quella per la diminuzione delle tasse) lasciando a
bocca aperta tutti quelli che hanno sempre pensato che la lotta fiscale fosse prerogativa esclusiva
di padroni e bottegai.
La deregulation sta dando alle grandi aziende e alla classe politica (centro-sinistra o centro-
destra che sia) che né è l'espressione, i suoi frutti economici e politici.
Alla ricerca del soggetto perduto
Tutto ciò pone, secondo me, dei seri problemi di rapporto con vaste categorie di lavoratori da
parte di quelle forze sindacali e politiche che hanno sempre avuto come soggetto di riferimento il
lavoratore di fabbrica o del comparto pubblico. Sia per gli operai dell'industria che per gli
impiegati dei grandi uffici pubblici il motivo principale di espulsione dall'azienda risiede proprio
nell'introduzione di nuovi modelli organizzativi, con il ricorso a strutture aziendali flessibili,
unitamente all'introduzione di nuove tecnologie di produzione industriale. Per esempio
l'incremento di produttività, dell'ordine del 40-50%, che è previsto in virtù dell'adozione di
tecnologie per l'automazione del lavoro d'ufficio nel settore dei servizi e nella pubblica
amministrazione, non permetterà più il recupero in questi due settori delle perdite di
occupazione che si registrano nell'industria manifatturiera [Luciano Gallino,
Tecnologia/occupazione: la rottura del circolo virtuoso, Quaderni di sociologia, Vol. XXXVIII-
XXXIX, 1994-95, 7].
Per chi ha sempre identificato il soggetto rivoluzionario nel lavoratore di fabbrica, sia esso
operaio o impiegato, è un bello smacco. Sta vedendo dissolversi la classe operaia parallelamente
allo svuotamento delle proprie teorie. Detto senza ironia è comunque vero: la composizione di
classe sta cambiando con tempi e ritmi che sono quelli dettati dal capitale e di fronte ai quali
l'elaborazione del sindacalismo alternativo e della sinistra antagonista è in ritardo più che mai.
Note
[1] Vi sarebbe poi da citare, per particolari funzioni di ricercatori o progettisti, il ricorso sempre maggiore a laureandi o dottorandi che, svolgendo la tesi in azienda, si prestano praticamente in modo gratuito o con minime borse di studio.
[2] La sensazione che quella del lavoratore dipendente e garantito sia diventata una condizione
privilegiata, è palese e palpabile anche nei discorsi con i compagni che invece soffrono una
condizione di lavoro precario o provvisorio.
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