Tempo di vita, tempo di lavoro

Cosimo Scarinzi


Abbastanza casualmente, alcuni mesi addietro, mi è capitato di assistere ad una
manifestazione degli studenti contro gli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico.
Un primo livello di riflessione sulle modalità di svolgimento dell'iniziativa mi portava a
rilevare che coesistevano linguaggi maturati nell'esperienza classica, o neoclassica,
dell'estrema sinistra con modalità associative e stili di azione sostanzialmente estranei
rispetto al contesto in cui quei linguaggi si sono strutturati.
Da questa prima considerazione ne discendeva, abbastanza linearmente una seconda.
Molti militanti e, soprattutto, ex militanti della mia generazione tendono a porre
l'accento sulla mancanza di cultura politica delle nuove generazioni studentesche,
carenza a cui oppongono l'esperienza dei movimenti degli anni '70. Vi è, certo, in
quest'approccio il portato di quel triste fenomeno che è l'invecchiamento fisico e
mentale, il "quant'era verde la mia vallata..." dei reduci ma è possibile, forse,
esaminare l'agire collettivo degli studenti da un punto di vista che vada oltre le nostalgie
e le comparazioni di tipo ideologico.
Ammettiamo, per amore di ragionamento, che lo sciopero risponda all'obiettivo di
saltare una giornata di lezione, che il sabato, giorno pesante, sia il più adatto per
scioperare, che la manifestazione sia un'occasione di attività fisica e di convivialità. Ne
consegue che lo sciopero è un strumento di autoriduzione del tempo di studio e di
riorganizzazione della propria vita ad opera delle nuove generazioni studentesche.
Interessa poco, da questo punto di vista, il tasso di coscienza politica degli studenti ,
questo è un problema delle avanguardie politiche di se stesse.
Naturalmente non si può fare un'analogia immediata con gli scioperi dei salariati visto
che lo sciopero studentesco non comporta un costo economico ma non va dimenticato il
carattere di forza lavoro in formazione degli studenti o, almeno, di quelli degli istituti
tecnici e professionali. A cosa si sottraggono gli studenti, in buona sostanza?
Certamente ad un lavoro. Basta pensare che il loro orario formale è vicino alle quaranta
ore nelle scuole di orientamento professionale. Nello stesso tempo si sottraggono ad
una situazione di povertà dell'esperienza, di squallore, di noia, di degrado, la situazione
che vivono a scuola.
E' bene, a questo punto, chiarire che la situazione delle scuole non viene, in questa
sede, opposta ad una presunta autenticità umana, ad una situazione di libertà riccamente
vissuta. Mi riferisco allo squallore della scuola a fronte della ricchezza delle esperienze
vitali che la stessa società mercantile contemporaneamente offre e nega ai suoi soggetti,
nei due significati del termine. In altri termini, la scuola per le sue stesse strutture
fisiche, per le costrizioni a cui sottopone il corpo e la mente di studenti ed insegnanti,
per la povertà delle risorse e delle competenze che la caratterizzano appare in ritardo
rispetto al mondo della produzione e del consumo pienamente dispiegati a cui pure
dovrebbe preparare le sue vittime.
Saremmo, di conseguenza, in presenza di una contraddizione fra due segmenti della
stessa struttura di dominio, uno, l'impresa, dotato di una razionalità e di un'identità
forti, capace di egemonia, ed uno, la scuola, privo di altra legittimazione che non sia un
disciplinamento imposto per legge e lo sforzo volenteroso e frustrato di un certo numero
di docenti.
Da contraddizioni di questa fatta, dallo scontro fra aspettative e stimoli da un lato e loro
soddisfacimento o, meglio, mancanza di soddisfacimento sorgono movimenti sociali
che si incontrano, provvisoriamente, con delle proposte culturali e politiche per poi
risolversi in situazioni nuove quali le necessità dello studio a gennaio, su base annuale,
e la fuoriuscita dalla scuola come provvisoria soluzione delle tensioni a cui ho fatto
cenno.
Dal punto di vista della soggettività politica delle minoranze organizzate di opposizione è
possibile immaginare un modello di azione che possiamo definire per transcrescenza,
consistente, cioè, nella capacità di inserirsi in contraddizioni di questa fatta per condurne
gli esiti oltre la fisiologica soluzione interna all'ordine dominante e nella direzione di una
rottura radicale sia sul terreno dell'azione collettiva che su quello della crescita politica di
nuovi militanti che vanno, a ondate, a rimpolpare i gruppi politici sovversivi o presunti
tali.
Il lavoro politico, ed uso il termine lavoro non casualmente, consisterebbe
nell'indirizzare le tensioni che, volta volta, lo stesso procedere del modo di produzione
e riproduzione dominante produce. Non a caso si formano dei veri e propri esperti in
tecniche della comunicazione, dell'agitazione, dell'organizzazione di movimenti, esperti
che in diversi casi si trasformano, col tempo, in operatori dell'animazione sociale. Non
vi sarebbe, a questo punto, alcun tradimento dell'identità sociale originaria, al massimo
cadrebbe l'intenzionalità generale ed antisistemica che la sorreggeva.
Va, d'altra parte, riconosciuto il fatto che, di norma, la problematica coesistenza fra
tensioni alla rottura dell'ordine esistente e tendenze a chiederne e, al limite, a praticarne
un ammodernamento si risolve nella pratica dell'ammodernamento non per un
destino cinico e baro né per limiti della soggettività politica antagonista ma per una sorta
di pratica delle linee di minor resistenza che i movimenti seguono abbastanza
naturalmente.
L'ammodernamento, d'altro canto, non può essere considerato una sorta di percorso
truccato che un mitico capitale imporrebbe ai movimenti antisistemici ma va assunto
come risultante di molteplici e contraddittorie pressioni fra le quali non vanno poste in
ultimo piano, anzi, le stesse pratiche di opposizione.
I teorici o, comunque, coloro che praticano il modello della transcrescenza dei
movimenti sono, più o meno consapevolmente, dei critici della pratica dei cultori delle
grandi narrazioni e cioè di coloro che coltivano una dolorosa attesa del crollo
dell'ordine dominante per sue interne contraddizioni e si autoassegnano il ruolo dei
profeti di sventura che però, a differenza della povera Cassandra, dovrebbero trovare
apprezzamento, al momento della verifica dell'esattezza delle loro previsioni, da parte
del buon popolo. Non è questa, comunque, la sede per valutare a pieno i termini del
confronto fra le due scuole di pensiero a cui ho fatto, poveramente, riferimento.
Mi interessa, invece, riprendere la riflessione sul modellamento conflittuale dell'orario
di lavoro e su alcune possibili implicazioni di questa dinamica.
In genere, si assume come punto di partenza per ogni riflessione sensata sull'orario di
lavoro l'ovvia considerazione che i salariati sono interessati ad una riduzione di orario
ed ad un controllo sulle modalità di organizzazione dell'orario stesso e che le imprese
vogliono controllare sia l'organizzazione dei tempi e ritmi di lavoro che la durata della
giornata lavorativa. L'orario reale sarebbe, di conseguenza, la risultante di un continuo
conflitto sia su base aziendale che categoriale e generale, un indicatore dello stato dei
rapporti di forza fra le classi come il salario.
La riflessione su quest'ordine di problemi viene complicato, a volte opportunamente
altre in maniera alquanto singolare per non dir di peggio, dall'attenzione al rapporto fra
lavoro salariato e lavoro domestico, da quella per i tempi di riproduzione sociale, da
quella per il nesso fra salario e standard sociale di consumo ecc..
Per ricordare un caso o, meglio, una serie di casi abbastanza noti basta pensare alla
modificazione dell'orario di lavoro negli stabilimenti FIAT ed all'introduzione dei
diciotto turni con le resistenze da parte dei lavoratori colpiti sia nel salario che
nell'organizzazione della propria vita quotidiana. I lavoratori, come è noto, hanno
accettato, nel senso che si sono piegati, la nuova organizzazione del lavoro visto che
non avevano la forza per opporvisi e che questa forza mancava loro a causa delle scelte
dei sindacate istituzionali e dell'insufficiente presenza di reti di organizzazione
alternative e, soprattutto, di un movimento generale del lavoro salariato all'altezza dello
scontro necessario per opporsi alle scelte aziendali.
E' interessante notare che la stampa di parte padronale rilevava, commentando questo
tipo di vicende, che la trasformazione che le imprese hanno imposto è stata accettata dai
lavoratori per necessità ed in cambio di concessioni per quel che riguarda le garanzie
occupazionali e che manca una cultura industriale adeguata alle nuove necessità
dell'impresa. Potremmo limitarci a pensare che la stampa confindustriale vede la
collaborazione di sociologi fuoriusciti dall'estrema sinistra che si pongono dei problemi
bizzarri. In effetti, a mio parere, la preoccupazione di parte padronale è meno peregrina
di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Se, infatti, assumiamo l'ipotesi che quel
processo che definiamo proletarizzazione non si da una volta per tutte ma è un
processo che vede la definizione di equilibri e la loro rottura nel fuoco di particolari
situazioni, dobbiamo riconoscere che quella particolare forma di colonizzazione della
vita quotidiana che va sotto il nome di flessibilità non è né semplice né privo di rischi
per le classi dominanti.
Problemi analoghi si danno nel pubblico impiego che si vede sottoposto ad un tentativo
di stanare le porosità per quel che riguarda i tempi di lavoro e di introdurre modelli
aziendali di conduzione, da turni di tipo industriale alla qualità totale. Il fatto che sovente
i tentativi di strutturare la pubblica amministrazione secondo le regole sperimentate
nell'industria prenda caratteri vagamente demenziali e riduca la produttività, che in
questo comparto ha caratteri specifici difficilmente definibili secondo il computo dei
pezzi prodotti, in luogo di accrescerla non modifica la sostanza del mio ragionamento.
Sembrerebbe, a prima vista, che si dia nel settore produttivo della società un processo
contrario rispetto a quello descritto all'inizio del mio articolo. L'iniziativa è tutta in mano
allo stato ed al padronato, gli orari reali tendono ad allungarsi grazie agli straordinari ed
al doppio lavoro, la flessibilità viene imposta, l'ideologia aziendalista passa alla grande.
Ai nostri studenti sarebbe lasciata la possibilità di dar sfogo alla loro giovanile irruenza
in attesa di adeguarsi al potere padronale sulla loro vita e sul loro lavoro. A noi, di
conseguenza, non resterebbe che consolarci con la lettura del Leopardi e con speranze
vaghe e di dubbia realizzabilità.
Se guardiamo a quest'ordine di problemi da un altro punto di vista è possibile una
riflessione meno volta al pessimismo radicale.
Proviamo a riassumere alcuni dati generali:
- il taglio dei servizi sociali determina, come è ovvio, un bisogno crescente di salario
individuale che, nell'attuale contesto, viene garantito a gran parte dei salariati solo a
fronte di lavoro straordinario o di flessibilità e, per quanto riguarda la flessibilità, non
sempre come abbiamo visto nel caso FIAT;
- d'altro canto molte imprese hanno un forte bisogno di far funzionare il macchinario a
pieno regime e sono, di conseguenza, sensibili, per usare un eufemismo di fronte a lotte
di una qualche efficacia sull'andamento della produzione come abbiamo visto nello
svolgersi di diversi contratti integrativi aziendali anche nell'area torinese,
- la flessibilità stessa del lavoro, se considerata su base generale, richiede una
coordinazione dei processi produttivi e non tollera ritardi. Non a caso le lotte dei
lavoratori del trasporto sono di notevole impatto sul ciclo produttivo che si tratti di
salariati o di lavoratori autonomi conta abbastanza poco;
- avviene, di conseguenza, che il salario vada ridisegnandosi secondo le linee di forza
che attraversano il lavoro salariato stesso. I settori che possono premere a livello
categoriale (trasporti, comunicazione, credito ecc.) o aziendale possono spuntare
aumenti salariali, assunzioni, garanzie. Di questi fatti si parla poco per un certo pudore
del padronato che non ama riconoscere i propri punti di debolezza e li attribuisce alla già
citata mancanza di cultura industriale e della sinistra che si trova in serio imbarazzo di
fronte ad una dinamica che la sua cultura tradizionale percepisce come corporativa;
- d'altro canto la scelta immediata non è fra corporativismo e solidarietà ma fra
macrocorporativismo gestito dal padronato, stato e sindacati istituzionali e problematica
rottura di questa gabbia ad opera di lotte locali e settoriali. se vogliamo definire queste
lotte come microcorporative possiamo farlo ma la sostanza della dinamica di cui parlo
non cambia;
- in buona sostanza, più che ad annichilimento del conflitti stiamo assistendo ad una
sua ridefinizione in forme che si potrebbero definire come postwelfariste. Sempre al
fine di evitare equivoci, lo stato non scompare affatto all'orizzonte nel nuovo quadro
delle relazioni industriali ma si riserva sia un ruolo di controllo politico e giuridico sulle
forme del conflitto sia quello di gestore del trasferimento delle risorse ai gruppi
dominanti e, indirettamente o direttamente, alle loro clientele.

Se quanto si è sinora detto corrisponde sufficientemente ad alcuni caratteri significativi
della fase che attraversiamo ne consegue che va ridefinito lo stesso nesso fra lotte
immediate e unità di classe. Nella fase fordista/taylorista o, se si preferisce, del
compromesso socialdemocratico l'unità dei lavoratori era nello stato e per lo stato, oggi
questo modo di intendere l'unità di classe oltre che non desiderabile non è nemmeno
possibile.
La stessa questione dell'orario di lavoro è in diretta relazione con l'unità di classe dato
che una riduzione dell'orario significativa non può darsi che a livello generale e su scala
internazionale.
Gran parte di coloro che negli ultimi anni hanno svolto acute considerazioni
sull'argomento si è posta dal punto di vista del governo statale del fenomeno o, in
alcuni casi, da quello del governo interstatale. Quest'approccio realistico si è
dimostrato, ad essere buoni, totalmente ineffettuale a fronte di un'integrazione
internazionale della produzione e del mercato del lavoro per cui, fra zone franche per
l'industria occidentale in Polonia e fabbriche italiane di scarpe in Albania ed in
Romania, c'è poco spazio per l'ingegneria sociale in luoghi diversi dalle aule
universitarie.
La questione del tempo di lavoro va, di conseguenza, posta in relazione con il salario sia
con quello degli occupati che con quello per i disoccupati.
Dal primo punto di vista, l'orario è, nel contempo, da affrontare come quantità e
come organizzazione. Ovviamente, su questo terreno, ciò che conta è il rapporto
di forza a livello aziendale, categoriale, intercategoriale. Sarebbe opportuno ragionare
sulle condizioni per il suo sviluppo e, soprattutto, agire in questa direzione.
Per parte mia, non ritengo né utile né politicamente produttivo addentrarmi nella vexata
quaestio se sia preferibile difendere ad ogni costo la rigidità dell'erogazione della forza
lavoro o cercare di governare la flessibilità o di scambiarla con conquiste di altro tipo. In
realtà, da questo punto di vista, non si danno ricette valide in tutti casi ma
sperimentazioni, verifiche, iniziative. Ciò che conta è il potere che i lavoratori
sviluppano e potere vuol dire conoscenza, relazioni, capacità di iniziativa.
Dal secondo punto di vista, un movimento dei lavoratori appena decente non può
eludere il problema di un'iniziativa sul salario sociale e, di conseguenza, lo sforzo di
organizzare stabilmente, in forme tutte da verificare, i disoccupati. Il problema è che
non c'è un movimento operaio decente o, almeno, non c'è a sufficienza.
Ma anche questo è un altro discorso.


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