CHAOS

L'Italia delle tre destre
Riflessioni sull'ultimo libro di Marco Revelli


Giorgio Monestarolo


Il libro di Revelli è un libro importante, soprattutto dopo le elezioni del 21 Aprile,
perché mette in discussione molti luoghi comuni cari alle sinistre. La tesi principale,
anticipata da un lungo articolo su << il manifesto>> del 7 novembre '95, è largamente
nota. In Italia, sostiene Revelli, si fronteggiano due destre, una organicamente
rappresentata dal Polo l'altra composta dal cuore "tecnocrate" che guida l'Ulivo, che
sebbene divergano nettamente nelle "maniere", nei modo di interpretare la competizione
politica, hanno lo stesso comune obiettivo, traghettare il sistema socio politico italiano
verso il post-fordismo, adeguare l'involucro istituzionale della repubblica alla nuova
dimensione della competizione globale. In azioni concrete questo significa che entrambi
gli schieramenti si battono apertamente per smantellare lo stato sociale universalistico e
le residue sacche di socialità che esso produceva, per privatizzare e deregolamentizzare
il mercato del lavoro, per mettere a valore tutte le risorse sfruttabili, ambiente, natura
umana, beni culturali che possono sopravvivere solo se divengono fonti di produzione
di reddito. Questa omogeneità dei fini è possibile perché entrambe le destre hanno
abbracciato come unico referente sociale l'impresa, il solo attore rimasto in campo dopo
il crollo del compromesso socialdemocratico determinato dalla crisi del fordismo e
dall'apparire di un nuovo, ancorché vago, modello di organizzazione della produzione
postfordista. Per quanto riguarda il conflitto sulle buone maniere Revelli specifica che
se identici sono gli obiettivi diversi sono i mezzi per realizzarli. La destra di Berlusconi
e Fini, quella che è definita come destra populista, vuole ottenere un vero e proprio
sfondamento, si batte per conquistare una egemonia politica che sia fortemente radicata
nel sociale. In sostanza essa intende costruire un blocco sociale alternativo a quello
fondato sulla alleanza competitiva tra grande industria e classe operaia, base del sistema
politico italiano nel dopoguerra, unendo i gruppi storicamente emarginati nel loro
protagonismo politico, anche se ampiamente premiati con l'evasione fiscale legalizzata,
libera possibilità di inquinare, favoritismi clientelari, della piccola industria, dei ceti
medi colpiti dai processi di espansione della grande distribuzione, dei professionisti. Il
contrappeso istituzionale di questo blocco sociale è il cesarismo demagogico, il
plebiscitarismo tendenzialmente fascistoide. " Da questo punto di vista (tale processo)
non costituisce - storicamente - nulla di nuovo da quanto già si vide nel corso della
brusca crisi italiana all'inizio degli anni Venti, o nella ben più lunga agonia di Weimar"1.
La seconda destra, quella tecnocratica, formata dal residuo blocco proprietario
precedente, la Fiat, quel che resta del capitale pubblico, Mediobanca, e tutti i loro
commis liberal-democratici, è invece pronta a separare la questione democratica da
quella sociale, spezzando l'unità indissolubile che l'età dello sviluppo fordista aveva
creato fra questi due elementi, proponendosi in qualche modo come la portatrice di un
progetto di ristrutturazione economico ancora più feroce e spietato proprio perché pronta
a garantire un ruolo di codeterminazione alle forze organizzate della vecchia classe
operaia, i sindacati deboli ma ancora fastidiosi, ed a delegare al PDS il controllo sulla
egemonia delle masse. La formula, per Revelli, è chiara: la tutela sulle regole del gioco
democratico in cambio della soppressione della "socialità dello stato sociale tanto
duramente conquistata", e l'esclusione dei soggetti portatori di rivendicazioni forti, di
bisogni radicali, dalla negoziabilità di accordi che possono rompere le compatibilità del
mercato globale. Guardando alla formazione del governo Prodi si potrebbe dire dalla
teoria alla prassi: a Veltroni il controllo sulle televisioni pare tanto naturale quanto
l'occupazione degli uomini di Dini e Ciampi dei dicasteri economici. Al PDS l'egemonia
sulla telepiazza ai tecnocrati le cose serie, il governo del risanamento pubblico e
dell'economia. Quali sono allora le sinistre, e quali le loro caratteristiche e funzioni
nella fase di transizione ? La sinistra di governo, il PDS, è secondo Revelli che gioca
con una metafora informatica, una sorta di hardware che fa girare il software
tecnocratico, è insomma un'appendice della destra liberale, completamente subalterna ai
suoi programmi ed alle sue parole d'ordine. La mancanza di prospettive per questa
sinistra subalterna, ammonisce Revelli, non può che comportare una soluzione già
sperimentata negli anni venti, la saldatura delle due destre in un unico compatto blocco
dominante. Quando la destra populista avrà conquistato la salda egemonia sul paese,
aggregando anche pezzi della classe operaia delusa al nord e soprattutto facendo breccia
nell'enorme proletariato giovanile del sud, allora, e solo allora, anche per la destra
liberale e tecnocratica, ci saranno le condizioni per saltare sul carro del vincitore, per
scambiare "senza apparente turbamento la democrazia con l'economia, i diritti con gli
interessi" così come già a suo tempo fecero i vari Agnelli e Giolitti. Rimane invece con
la sua relativa autonomia la sinistra sociale, Rifondazione, i cobas, i centri sociali, l'area
dei Consigli di fabbrica, attestata in una meritoria ma residuale funzione di resistenza.
La critica fondamentale di Revelli è rivolta a Rifondazione che nel suo tentativo di
ricostruire il paradigma fordista novecentesco, partito di massa, sindacato di classe,
stato sociale, non compie il vero e proprio salto di paradigma comportato da
postfordismo, mondializzazione e crisi dello stato nazionale. Essendo impossibile un
controllo dello stato sulla economia nazionale il programma di Rifondazione, a lungo
termine, è condannato al fallimento. Solo ridefinendo un radicamento su base mondiale,
adeguandovi "progetti, modelli organizzativi, linguaggi" permetterà di dare una risposta
efficace al prossimo futuro. L'analisi di Revelli non fa i conti però con quella che
potremmo chiamare la terza destra, quella populista su base etno-locale, la Lega, che
incarna la terza via di uscita della transizione. Data in qualche modo per spacciata prima
delle ultime elezioni, la Lega, risorta rilanciando la sua identità più marcatamente
separatista, si candida alla guida della soluzione dei problemi provocati allo stato
nazione dalla mondializzazione attraverso la risposta in qualche modo più rozza ma
anche più efficace: la secessione. Infatti come ha scritto Hobsbawm "il mondo più
comodo per i giganti multinazionali è un mondo popolato di staterelli nani o un mondo
del tutto privo di stati"2 e gli imprenditori del nord-est pare condividano l'analisi e
rivendicano con orgoglio la modernità della loro proposta contro i vecchi arnesi della
politica statuale.
Se questa è la tesi di fondo Revelli la articola compiutamente su tre tempi. Prima
ricostruisce in maniera estremamente intelligente, perché fortemente demistificatoria, la
storia politica dal '68 a Tangentopoli, poi cerca di definire in maniera analitica il
presente del post-fordismo e la peculiare via italiana verso questo nuovo modello,
infine nell'ultima parte rivolge lo sguardo al futuro possibile della sinistra impegnata da
una parte a contrastare la xenofobia ed il razzismo intesi come ideologia della
globalizzazione attraverso una nuova concezione dell'universalismo dei valori, ispirato
in senso pacifista e multirazziale, e praticando dall'altra il terreno del fare socialità
strappando al controllo dello stato e del mercato settori della produzione e della
riproduzione da riorganizzare attraverso uno scambio non mercificato.
Per quanto riguarda la rivoluzione italiana che tra il '92 e il '94 ha soppresso il ceto
politico della Prima repubblica Revelli propone due chiavi di lettura fortemente
contrastanti con i luoghi comuni della pubblicistica corrente. Innanzitutto lo schianto
della nomenclatura pentapartitica non è avvenuto sotto l'onda di una rinascita della
società civile - nella geometrica potenza di fuoco dei Referendum Segni, Sant'Antonio
di Pietro il giustiziere, uninominale della gente contro proporzionale dei partiti - ma
attraverso la vera e propria fuga in massa di quei ceti medi che per tutti gli anni ottanta
avevano scambiato consenso con consumo. E' la crisi economica , la recessione, la
consapevolezza che un modello di finanza pubblica basato "sulla combinazione perversa
d'impunità fiscale e di alti redditi sul debito pubblico"3, che determina le forme di
questo esodo. Nelle elezioni del '92 la Lega sfonda al Nord, risucchiando parte
consistente dell'elettorato tradizionale di Dc e Psi, tra l'agosto e l'ottobre dello stesso
anno si rischia la bancarotta determinata da un "ritiro massiccio, insistito e clamoroso
della ricchezza nazionale dal prestito pubblico". Ci si avvicina così alla rottura di tutti e
tre i patti che avevano retto l'impalcatura della prima Repubblica: quello sociale, tra
capitale e lavoro, spezzato dall'accordo di luglio '93 che sganciava definitivamente i
salari dal reale costo della vita, quello finanziario, che premiava i consumi e la rendita
attraverso il deficit pubblico, quello politico, che scambiava appunto consumo con
consenso. E' proprio il fatto di essere una rivolta dei ceti medi che contraddistingue
inesorabilmente la rivoluzione italiana come un fenomeno conservatore e moderato. La
fine dei mediatori non coincide con la ripoliticizzazione delle masse, così come avevano
previsto i profeti della società civile, ma con un miscuglio di giustizialismo e di delega
partecipata a uomini forti che possono essere a turno l'imprenditore o il leader
carismatico. Se la crisi ha ragioni che hanno molto poco a che fare con questioni morali,
si inserisce, però, in un contesto che affonda le sue radici nella storia interna dell'Italia
tra il '68 - '69 ed il 1980. Revelli insomma critica tutte quelle interpretazioni che
ricercano la causa in fenomeni esogeni, crollo del Muro nell'89, l'Europa unita ed i
vincoli di Maastricht, per riportare l'attenzione agli anni settanta. Nel conflitto tra
movimenti e partiti, tra il '68 studentesco ed il '69 operaio ed il Pci, troviamo in nuce la
dissoluzione della Prima Repubblica. I movimenti rappresentano lo scongelamento delle
potenzialità di auto-organizzazione della società civile che erano bloccate dalla forza del
partito mercato democristiano e del partito piano comunista. Questa ondata di
rinnovamento, che tendenzialmente andava oltre la dicotomia fascismo antifascismo per
riportare all'ordine del giorno la fuoriuscita dalla società salariale, fu interrotta da due
eventi limite: la strategia della tensione aperta con l'eccidio di Piazza Fontana e dal '76 la
nascita del consociativismo. Con la prima il movimento fu costretto ad arretrare, ad
abbandonate la novità della sua rottura antidogmatica iniziale per riattestarsi sul
paradigma del fronte popolare, l'alleanza storica tra comunismo e democrazia per
bloccare il pericolo eversivo di un fascismo di stato. Con il consociativismo si perde
definitivamente la possibilità di un'autoriforma della politica italiana. Invece di
accelerare la crisi di regime che colpiva la Dc, sconfitta alle elezioni del '75 ed ai
referendum su aborto e divorzio, il partito comunista "nella convinzione che la
dissoluzione della Dc significasse la dissoluzione senza alternative del sistema politico
italiano" preferì congelare per via politica la crisi "isolando integralmente il sistema
politico dalla società civile"4. Le conseguenze furono catastrofiche: primo perché si
rinunciò a punire i pezzi dello stato illegali autori delle stragi politiche, secondo perché
la costituzione materiale del paese fu stravolta, sottraendo al conflitto politico e sociale i
suoi canali di rappresentanza istituzionale e provocando di conseguenza una
colonizzazione della società civile da parte della logica spartitoria della società politica.
Craxi e gli anni ottanta sono solo l'estensione sistematica della fine della politica
consumatasi con il consociativismo.
Oltre la dimensione politica Revelli ricostruisce la fenomenologia della crisi sul piano
della trasformazione dei processi produttivi individuati, essenzialmente, nel passaggio
dal modello fordista e da politiche keynesiane ad il nuovo paradigma post-fordista ed a
politiche neoliberiste. Revelli utilizza la contrapposizione tra dualismo e monismo per
esplicitare, in qualche modo esasperare, le differenze tra le due formazioni socio-
economiche. Il modello fordista fondava la sua razionalità produttiva sulla possibilità di
dominare attraverso economie di scala il mercato delle merci, ogni balzo in avanti della
produzione serviva ad abbattere i costi fissi per conquistare nuove quote di un mercato
pensato come illimitato e infinito. Il prezzo da pagare per il controllo del mercato,
programmato dalla direzione di fabbrica, era la limitata libertà d'azione della forza
lavoro. Qui si dispiegava la natura dualistica del fordismo. Resa forte dalla piena
occupazione indispensabile per sostenere il consumo e quindi aumentare la domanda, la
soggettività operaia poteva scatenare apertamente il conflitto all'interno della fabbrica,
occultando la sua vera potenzialità produttiva, sottraendosi e opponendosi ai processi di
razionalizzazione e sfruttamento tayloristici, forzando la rigidità della struttura
complessiva per rivendicare la sua autonomia di classe e cercare di andare oltre, come
nel caso italiano degli anni '70, lo stesso quadro generale delle relazioni capitalistiche. Il
post-fordismo realizza esattamente la condizione inversa. Nell'impossibilità di dominare
il mercato, che ormai saturo, mutevole e variabile detta alla fabbrica i suoi ritmi e i suoi
tempi, si impone totalmente alla forza lavoro. Lavoro interinale, part-time, in affitto,
precarizzazione spinta sotto la minaccia della disoccupazione di massa hanno eroso i
margini di conflitto all'interno della fabbrica. Ai lavoratori si chiede fedeltà assoluta e, ai
pochi privilegiati, si garantisce la sicurezza del lavoro. E' il trionfo del sistema toyota,
l'imposizione di un monismo che dalla fabbrica penetra nella società come egemonia
aziendalistica, competitiva, totalizzante, che realizza un modello di democrazia
autoritaria. Il tumultuoso affermarsi del postfordismo elimina sia soggettivamente che
oggettivamente i due strumenti che la storia del movimento operaio novecentesco aveva
elaborato, il partito di massa ed il sindacato di classe. Soggettivamente perché secondo
Revelli il conflitto e l'identità di classe non si danno più, quasi naturalmente, nel luogo
di lavoro, oggettivamente perché viene a mancare il fine delle organizzazioni di classe: la
pressione sullo stato per elaborare politiche di espansione della spesa pubblica, e la
regolazione e la negoziazione statuale del conflitto salariale tra sindacati e imprenditori,
coloro che nel fordismo si autointerpretano significativamente come le "parti sociali". La
natura dello stato postfordista è segnata dalla perdita del controllo sulla politica fiscale e
monetaria: i flussi di capitali internazionalizzati hanno rotto le frontiere nazionali
sottraendo le possibilità di perseguire le politiche keynesiane di sostegno ai consumi che
avevano retto il precedente processo di sviluppo fordista. In questa situazione, sostiene
Revelli, il movimento operaio deve in qualche modo compiere una rivoluzione
copernicana ed emanciparsi dallo statalismo che è stato il tratto comune sia della forma
partito socialdemocratica che della forma partito leninista. Ciò che rimane della vecchia
formazione di classe fordista e la nuova galassia del lavoro sociale, della intellettualità di
massa, del lavoro autonomo eterodiretto possono elaborare forme organizzative e
obiettivi strategici solo ricuperando il terreno della autonomia, fuori dalla statualità
novecentesca e dal mercato globale, ricostruendo assieme ai legami sociali distrutti dai
processi di reificazione, una cultura autonoma, un mondo di valori e di pratiche
alternativo alla realtà del capitalismo. La strada per Revelli, anche se ancora poco chiara
e determinata, passa necessariamente attraverso l'autorganizzazione, il terzo settore, e il
mutualismo cooperativo di base. Solo occupando i settori abbandonati dallo stato
sociale in via di disgregazione quali sanità, in parte trasporti e scuola, dando vita a
circuiti di produzione non mercificata su base volontaria, ricostruendo la pratica del
dono, ci sarà la possibilità di superare l'attuale fase di resistenza e riprendere il cammino
interrotto.
Come è già stato notato il lavoro di Revelli risente profondamente dell'ambiente
torinese, non solo perché la Fiat è la grande fabbrica analizzata come una sorta di
laboratorio vivo che sperimenta la transizione dal fordismo al postfordismo, ma anche e
soprattutto per le continuità ideali con una specifica cultura politica. Tre sono le
tradizioni di riferimento che sorreggono l'impianto critico del testo. Prima di tutto
l'antifascismo di marca gobettiana, secondo la concezione consigliarista e operaista
della prassi politica, terzo la teoria della società di Polany e del giovane Marx. L'eredità,
ovviamente critica e originale di queste tre grandi tradizioni è fatta di pregi, e nell'opera
di Revelli sono tanti, ma anche di limiti. Innanzitutto l'analisi della destra è sempre
surdeterminata dall'ipoteca antifascista. La tentazione storica del plebiscitarismo dei ceti
medi, ventre molle della nazione, e l'opportunismo della grande industria rendono
sempre e comunque ripetibile l'esperienza fascista. Questa analisi comporta la
conseguenza inevitabile della risposta storica antifascista, alleanza tra movimento
operaio e borghesia progressista, per sconfiggere la destra impresentabile. Il problema è
che la concretezza del concetto di fascismo rischia di perdere il suo significato storico e
inoltre Revelli stesso specifica che non esiste una borghesia progressista, ma che la
stessa destra tecnocratica con cui bene o male le sinistre sono alleate lavora sul terreno
delle politiche economiche a distruggere quel reticolo di solidarietà unica garanzia
contro gli sconquassi provocati sul corpo vivo della società dalle politiche di
adeguamento alla globalizzazione. La contraddizione all'interno del discorso di Revelli è
quella tra autonomia e subalternità. La subalternità al neoliberismo tecnocratico del Pds
è perdente e pericolosa perché scava il terreno per le destre eversive, l'autonomia di un
possibile movimento antagonista è impraticabile perché la destra populista è già eversiva
e quindi bisogna fermarla rilanciando l'alleanza antifascista. In questo modo si instaura
un circolo vizioso che non può essere rotto dall'interno, ovvero dalle scelte, dai
programmi, dalle azioni del movimento operaio, ma solo da un evento esterno, da una
improbabile auto-riforma della destra italiana che abbandoni le sue incrostazioni
fasciste. In secondo luogo se le pagine migliori del libro sono quelle in cui è posto più
perentoriamente l'accento sulla necessità per la sinistra di riconquistare una sua dignità
culturale, di esperienza, di valori che si collochino oltre e al di là della tradizione
statalista del Novecento, incorporata nei partiti socialdemocratici e leninisti,
rivendicando il patrimonio storico della democrazia diretta e dello spontaneismo
dell'operaismo, indubbiamente la debolezza più grande della proposta di Revelli è
denunciata dall'assenza completa di una riflessione sulle forme organizzative che la
sinistra antagonista dovrebbe creare o reinventare. Tra il partito di massa e
l'associazione di quartiere a carattere mutuo solidale sembrano non esserci stazioni
intermedie. Se il partito di massa è messo fuori gioco dalla mondializzazione, e non ci
sono dubbi, come pensare di rispondere solo affidandosi alla spontanea costruzione di
livelli locali di aggregazione? Inoltre Revelli non fa i conti con le esperienze che già ci
sono, inserite spesso in dinamiche di estremo particolarismo e per lo più inefficaci e
inefficienti sullo stesso piano e della solidarietà e della azione politica. Senza individuare
forme che in qualche modo orientino a livello reticolare le forme di autorganizzazione
sul territorio si è destinati a rimanere pressoché esclusi da tutte le dimensioni di azione
dentro e fuori la sfera del lavoro postfordista. In terzo luogo la proposta strategica di
Revelli, fare società. Polany5 in un testo fondamentale come La grande trasformazione,
individua nella separazione totale della economia dalla società la catastrofe della
rivoluzione industriale. Revelli riprende questa opzione ideale ribaltandone il segno:
solo reintroducendo elementi sociali nella attività economica ci può essere la possibilità
di frenare il diluvio che incombe.Tutto lo sforzo concettuale di Revelli è quello del
recupero della comunità, che una volta si dava immediatamente in forma conflittuale
nella fabbrica fordista, e che adesso è dissolta nel monismo post-fordista. Senza
comunità solidale, senza identità di classe non ci sono possibilità di salvezza: il processo
di alienazione e reificazione avvolge inesorabile i residui di una umanità libera. E'questa
tragica consapevolezza che spinge Revelli ad identificare nella economia sociale, nel
mutualismo, nel terzo settore l'unica strada perseguibile per ricostruire quei processi di
socializzazione delle persone che sono poi l'unica risorsa concreta per pensare di
superare le contraddizioni della modernizzazione. Il problema che emerge, però, è che
subordinando tutte le energie nello sforzo volontaristico del fare società, supposto come
primo passo indispensabile, si dimentica che la costruzione di una identità antagonista
nasce anche nello scontro, nel conflitto di classe, nella strategia dei contropoteri di cui
parla Bihr6, da opporre al dominio della cultura del consumo e del mercato. Senza
concepire in maniera dinamica e dialettica l'agire per e l'agire contro il discorso di
Revelli rischia di essere irrealistico per due buoni motivi: primo perché non si specifica
il chi della proposta, non si indicano le strade organizzative, le forme di lotta per
realizzare la precondizione della economia sociale, ovvero la drastica riduzione
dell'orario di lavoro; secondo l'economia sociale può trasformarsi paradossalmente in
un altro ennesimo strumento per mettere a profitto emozioni, esperienze, conoscenze,
facendo emergere il lato mercantile e schiacciando il lato sociale della "pratica del dono".
Insomma il rischio del discorso di Revelli è che puntando tutto sulla ricostruzione della
identità, della autonomia morale delle classi lavoratrici, percorso peraltro ineludibile, si
creda possibile realizzare una fuori uscita unilaterale dal mercato e dallo stato, un
tentativo di costruire enclave liberate, un fare società appunto senza fare fino in fondo i
conti con il mondo degli asociali, che visti i tempi che corrono, sono poco disposti a
fare concessioni. E tanto meno a ridurre i profitti per via consensuale.


Note:

1 M. Revelli, cit., p.9.
2 E.J.Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, p.331.
3 M. Revelli, cit., p.35.
4 M.Revelli, cit., p. 25.
5 K.Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche
della nostra epoca, Einaudi Torino, 1974.
6 A. Bihr, Dall'<<assalto al cielo>> all'<<alternativa>>. La crisi del movimento
operaio europeo, BFS edizioni, Pisa 1995.


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