CHAOS

Metamorfosi
Forme della ristrutturazione capitalista


Gianluca Giachery


Nel suo fondamentale saggio L'accumulazione del capitale, Rosa Luxemburg,
oltre a delineare in modo scientifico i limiti della produttività borghese così come
era stata analizzata da Marx, sostiene: <<Lo scopo e la missione dello sfruttamento
capitalistico è il profitto in forma monetaria, l'accumulazione di capitale-denaro
(...) Il plusvalore deve non solo bastare a permettere alla classe capitalistica
un'esistenza "conforme al suo grado", ma contenere in più una parte destinata
all'accumulazione. Questo scopo specifico ha un peso così schiacciante, che i
lavoratori sono impiegati (e perciò anche messi in condizione di procurarsi i mezzi
di sussistenza) solo nella misura in cui producono questo profitto accumulabile,
ed esiste la reale prospettiva di accumularlo in forma monetaria>> (R. Luxemburg,
L'accumulazione del capitale, Torino, 1960, pg. 483).
Qual è la forma di profitto che il capitale sussume in sé per autogenerarsi? Ciò non
avviene, attualmente, solo attraverso la forma dell'accumulazione, per così dire,
<<semplice>> come poteva essere per un determinato tipo di società ad un
determinato grado di sviluppo dei mezzi di produzione. Ciò viene notato
acutamente, ad esempio, già da Panzieri agli inizi degli anni sessanta, proprio cioè
in quella prima grande transizione, nell'immediato dopoguerra, nelle forme
produttive capitalistiche.
In Sull'uso capitalistico delle macchine, Panzieri afferma: <<Lo sviluppo
capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della
razionalizzazione, di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento
crescente del controllo capitalistico. Il fattore fondamentale di questo processo è il
crescente aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile. Nel
capitalismo contemporaneo, com'è noto, la pianificazione capitalistica si amplia
smisuratamente con il passaggio a forme monopolistiche e oligopolistiche, che
implicano il progressivo estendersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato,
all'area sociale esterna>> (R. Panzieri, Sull'uso capitalistico delle macchine, in
"Quaderni Rossi - Lotte operaie nello sviluppo capitalistico", no1, Milano, 1970,
pg. 56).
Dunque, il capitale nelle sue continue metamorfosi espone in modo
programmatico il proprio disporre delle forze produttive. Esempio. Lo
smantellamento della Fiat di Pomigliano, di Arese, della Lancia e, ora, di
Mirafiori a Torino rappresentano il tentativo (per ora riuscito) di trasferire parti
intere, di produzione pesante in altri luoghi territoriali (Cassino, Melfi, Fiat Avio a
Brindisi ecc.). Mentre la produzione aumenta, perché si registra una stabilità tra
domanda e offerta sul mercato, mentre, d'altra parte, aumentato
considerevolmente i profitti (si veda il fatturato-bilancio Fiat del 1995, raffrontato
a quello del 1994), le sedi produttive vengono smantellate, vengono inseriti turni
lavorativi durante il sabato, viene usata la flessibilità per contenere uno spreco di
forza lavoro non eccedente, ma non si parla più, ad esempio, di qualità totale
(termine sbandierato da Cesare Romiti non meno di un anno fa), di rapporti di
produttività, di qualificazione delle mansioni e strutturazione delle competenze.
Il "sogno" italiano toyotista sembra, quanto meno, ridimensionato in pochi mesi.
Maria Turchetto, sul primo numero di alternative, pone provocatoriamente e in
modo intelligente un freno, il cosiddetto "tarlo del dubbio", alle ipotesi di
passaggio post-fordismo-taylorismo-toyotismo (in una concatenazione in cui,
come si vede i 'post' non mancano mai), troppo spesso evocato per cercare di
definire la portata della crisi attuale del capitalismo. <<La mia impressione, in
sostanza, -sostiene la Turchetto- è che i processi di dissoluzione del vecchio siano
ancora di gran lunga prevalenti su quelli di formazione e di consolidamento del
nuovo. Ciò deve rendere particolarmente cauti nelle previsioni e nelle
generalizzazioni: siamo certamente nel post- rispetto al vecchio modello di
accumulazione, ma ancora decisamente nel pre- rispetto al nuovo>> (M. Turchetto,
Flessibilità, organizzazione, divisione del lavoro, in "alternative", no1, maggio-
giugno 1995, pg. 72).
Le attenzioni poste rispetto all'attuale transizione del capitalismo italiano, con tutte
le sue peculiarità e arretratezze rispetto ad altri paesi industrializzati, hanno ragione
d'essere se viene dato un reale equilibrio tra ciò che si muove nel nostro paese e
ciò che strutturalmente e in modo, direi, consequenziale si modifica all'interno del
complesso apparato capitalistico a livello mondiale. E' noto, infatti, che ciò che
determina gli attuali spostamenti di capitale (sia esso industriale sia finanziario) è
dato non solo dal costo materiale della forza-lavoro ma dalle possibilità, per così
dire, territoriali offerti dal singolo stato.
Se la Fiat, ad esempio, si trasferisce a Melfi, non è perché qui la forza-lavoro
"costa meno" che a Torino o a Milano o a Pomigliano, bensì perché lo stato ha
sovvenzionato con ingenti capitali, con dimezzamenti del fatturato di spesa
complessivo nella vendita territoriale, con dilazionamenti vantaggiosi di tali
vendite, la costruzione dell'azienda.
Questo discorso può apparire "strano" per alcuni aspetti e, soprattutto, per chi è
legato ad aspetti interpretativi delle modificazioni capitalistiche che possono
apparire astratte. Il problema del costo reale della forza-lavoro assume una
funzione secondaria nel momento in cui il capitale ha la forza e, ciò che più
importa, il consenso per contrattare, gestire e manipolare a proprio piacimento il
costo del lavoro.
Il capitale nazionale si sposta in Polonia, in Brasile o in altri paesi del cosiddetto
Terzo mondo, perché lì la dispersione macroterritoriale, la decentralizzazione delle
risorse -quali, ad esempio, l'urbanizzazione-, e la creazione di possibilità di
formare in questi paesi una "borghesia industriale" storicamente inesistente (pasto
ghiotto per governanti che vogliono arricchirsi con facilità), fornisce dei vantaggi
reali, immediati, tentando altresì, in una previsione approssimativa di lunga
durata, di saturare un mercato ancora vergine.
Così per il capitale finanziario, che -come spesso visto in operazioni di grande
svalutazione monetaria, di ribasso dei tassi di interesse e dei tassi di sconto su
grandi capitali- si sposta con estrema facilità, senza neppure il bisogno di
trasferirsi "materialmente" da un paese ad un altro o da una banca ad un'altra.
Tutto ciò deve essere tenuto nella dovuta e necessaria considerazione.
E', sostanzialmente, ciò che Marx chiama <<metamorfosi complessiva della
merce>>. Il capitale -in quanto processo astratto nelle sue forme non immediate- si
trasferisce e si trasforma in funzione del proprio autorigeneramento e, pertanto,
sussume al suo interno ogni processo che possa semplificare i ritmi stessi delle
operazioni di scambio e valorizzazione.
<<La materia prima -sostiene Marx- e i materiali ausiliari perdono la forma
indipendente con la quale sono entrati come valori d'uso nel processo lavorativo.
Altrimenti per i mezzi di lavoro veri e propri. Un attrezzo, una macchina,
l'edificio di una fabbrica..... servono nel processo lavorativo solo in quanto
conservano la loro forma originaria, e domani tornano a entrare nel processo
lavorativo nella stessa forma che avevano ieri. E conservano la loro forma
indipendente di fronte al prodotto così durante la loro vita, che è il processo
lavorativo, come anche dopo la loro morte. I cadaveri delle macchine, degli
attrezzi, degli edifici da lavoro ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che
avevano contribuito a produrre>> (K. Marx, Il Capitale, I*, Roma, 1980, pg.237).

Sublimazione del post-fordismo
Marco Revelli, certamente uno degli studiosi più fecondi -in Italia- dell'attuale
crisi capitalistica, si è più volte soffermato sull'incombenza del passaggio dalla
produzione fordista-taylorista a quella toyotista. Non c'è, ormai, intervento che
non prenda le mosse dal tentativo di convincere che siamo entrati nella fase
toyotista del post-fordismo, che il modello stesso di fabbrica integrata, di qualità
totale ha difficoltà di presa sull'industria italiana, proprio per l'arretratezza storica
di cui è vittima il nostro paese.
Abbiamo già avuto modo di vedere proprio su queste pagine (si vedano gli
interventi di G. Polo, Pensiero Fiat e Fabbrica integrata, apparsi rispettivamente
sui numeri 2 e 3/4 di "Chaos"), i limiti strutturali e non, le falsità e le antinomie di
quella che viene spacciata (in prima istanza proprio dalla Fiat) come qualità totale
all'italiana, che, a sua volta, prende le mosse dal modello toyotista giapponese.
Nel suo libro di recente pubblicazione Revelli articola in un capitolo interamente
dedicato al postfordismo, otto tesi, meglio, otto ipotesi sull'attuale modello di
transizione della produzione capitalistica. <<Nel modello della "fabbrica integrata"
-si legge alla seconda ipotesi-, del just in time, nella fabbrica che funziona a zero
stock, senza residui di magazzino, con tempi totalmente sincronizzati in ogni suo
segmento, si realizza, in effetti, quello che fu il sogno "incompiuto" di Henry
Ford: l'idea di un flusso produttivo continuo e totale che attraversi
contemporaneamente tutte le fasi della lavorazione, che faccia pulsare l'intera
articolazione dell'apparato produttivo al medesimo ritmo>> (M. Revelli, Le due
destre, Torino, 1996, pg.78).
Per ulteriori e più puntuali rimandi siamo costretti a rimandare ad un altro saggio
di Revelli (anch'esso di recente pubblicazione), che sistematizza in modo certo più
organico il cosiddetto passaggio tra fordismo e toyotismo (si veda, in particolare,
M. Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo,
pp.gg.161-224, in P. Ingrao, R. Rossanda, Appuntamenti di fine secolo,
manifestolibri, Roma, 1995).
Credo si possa trovare un'ambiguità di fondo. Il tentativo, infatti, di porre
necessariamente la fabbrica al centro di tutta quanta un'elaborazione (le sue
trasformazioni e "globalizzazioni" o tentativi similari), se da una parte possiede
pure dei notevoli meriti nel contribuire allo striminzito dibattito di una certa
sinistra (inutile, ovviamente, parlare della sinistra), d'altro canto, può incorrere in
quel rischio di 'operaismo', portato a vessillo da tanta parte della sinistra, tra la
fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '70.
Nel momento in cui viene eluso il problema fondamentale, (posto con tanta
lucidità dalla Turchetto), se esistano o meno in Italia, attualmente, le condizioni
economiche, politiche e, soprattutto, di maturazione della conformazione della
classe operaia così come ora possiamo conoscerla, per poter azzardare un
passaggio 'epocale' tra due modelli di produzione così antiteticamente sistematici.
Se può avere un senso affermare che il fordismo, nella sua fase più acuta di
sviluppo dei sistemi tecnologici e di produzione funzionale, può avere un legame
con la produzione toyotista, non è altrettanto scontato che quest'ultima sia
funzionale e richieda i ritmi, i tempi di produzione e la mancanza strutturale di
ottimizzazione, propri del sistema di produzione fordista.
E' corretto, a nostro parere, quando Marx afferma che la crescita del capitale non
essendo omogenea o, usando un termine caro a Gramsci, non 'organica' deve pur
definire i propri ambiti di produttività, tentando di espanderli in modo progressivo
e continuativo.
<<In generale: la crescita delle forze produttive con mezzi di comunicazione più
rapidi, con una più veloce circolazione, con un movimento febbrile del capitale,
consiste nel fatto che si riesce a produrre di più nello stesso periodo di tempo, che
dunque, in base alla legge della concorrenza, si deve produrre di più. (...) perché
questa produzione su larga scala possa fruttare, la divisione del lavoro e i
macchinari devono essere sfruttati in modo continuo ed incondizionato>> (K.
Marx, Lavoro salariato e capitale, Roma, 1971, pp.gg.103-104).
Questa <<crescita delle forze produttive>> è equivalente alla necessità di
razionalizzazione (nella forma caotica che gli è propria) del sistema-mercato e del
sistema-produzione. Il dato di fatto rimane la sproporzionata capacità del capitale
-in quanto forma di produttività sociale- di accrescersi autoregolandosi
(paradossalmente, nella de-regolamentazione su periodi di tempo quantificabili in
decenni, dove i picchi ascendenti si alternano in maniera difforme a quelli
discendenti), degenerando quella che, per intendersi, chiamiamo <<pianificazione>>
del capitale.
Nelle "tesi" di Revelli, si legge: <<In misura sempre più massiccia l'Impresa "post-
tayloristica" va rivendicando e accaparrando ruoli e funzioni che furono
dell'istituzione pubblica: quello di produrre "identità", in primo luogo,
fondamentale nel modello produttivo giapponese ( se si vuole "mobilitare
totalmente" la propria forza-lavoro occorre proporre l'azienda come struttura di
appartenenza decisiva sotto l'aspetto dell'identità). (...) E' molto probabile che la
via alla "fabbrica integrata", all' "Impresa totale" presupposta dal modello
giapponese, passi attraverso questa "pubblicizzazione" dell'Impresa (o
privatizzazione della sicurezza sociale)>> (M. Revelli, op. cit., pg.86).
Un duplice aspetto, dunque, viene rivendicato da Revelli, per la
"nipponizzazione" dell'apparato sociale, dalla fabbrica alla struttura di gestione
della società, nei suoi livelli di centralizzazione e de-centralizzazione. Le proprietà
acquisite dal "modello giapponese" non hanno, per ora almeno, le caratteristiche
di inficiare l'attuale-stato-di-cose della produzione italiana, nelle sue forme più
evidenti di mercificazione degli scambi sociali.
Un sistema "funzionale", insomma, altamente produttivo e sinergico con le
esigenze immediate nell'esplicazione di richieste sui livelli -semplici ma pur
sempre validi- di domanda e offerta, di stabilizzazione del mercato su parametri
che non modifichino -con eccessivi spostamenti sia di capitali che di risorse
umane- l'attuale sistema. Tenendo presente, ovviamente, che un sistema, in
quanto tale, può avere variabili "n" incalcolabili, ergo imprevedibili, ergo che
possono modificare strutturalmente il sistema stesso.

Il dilemma della forza-lavoro
J. Rifkin, in un interessantissimo saggio pubblicato lo scorso anno (1995),
sottolinea un aspetto fondamentale del post-fordismo, l'inadeguatezza e, in
qualche modo, l'arretratezza di questo "modello", incapace, ormai, di seguire i
mutamenti radicali in corso nei processi economici. Rifkin prende ad esempio gli
Stati Uniti (dove la deregolamentazione e l'eccessiva liberalizzazione di epoca
reaganiana hanno prodotto effettivi disastri a livello sociale), per cercare di
delineare un quadro di passaggio tra la fase capitalistica precedente (leggasi anni
ottanta) e l'attuale.
<<Le aziende americane, come quelle di tutti gli altri Paesi del mondo, si sono
strutturate un secolo fa per produrre e distribuire beni e servizi nell'epoca delle
ferrovie, del telefono e della posta; il loro apparato organizzativo si è dimostrato
totalmente inadeguato nel gestire la velocità, l'agilità e la capacità di raccogliere
informazioni della tecnologia dell'era dell'informatica>> (J. Rifkin, La fine del
lavoro - Il declino della forza lavoro globale e l'avvento nell'era del post-mercato,
Baldini&Castoldi, 1995, pg.159).
Questa definizione crea un ambito mediano tra le "tesi" di Revelli e
un'impostazione che, a nostro avviso, riprendendo ciò che precedentemente
sosteneva M. Turchetto, vede in un processo molto più lento e moderato il
passaggio ad un post del modello produttivo capitalistico. Sia per una necessità di
pianificazione, sia perché -come è stato storicamente dimostrato- il capitale non
può non fare a meno di modificare -nel momento in cui sottopone a mutamenti
economici notevoli- l'intero apparato sociale nel suo complesso. Cosa,
quest'ultima, assai ardua attualmente, se si pensa che proprio l'inizio di tale
ristrutturazione ha portato allo stravolgimenti di quelli che, fino a poco prima,
venivano definiti processi sociali e politici fondamentali per uno sviluppo
economico lineare.
L'Italia è certamente un esempio più che plausibile, qualora volessero descriversi
le difficoltà nel traghettamento da un modello produttivo e organizzativo al suo
post.
Ciò che qui interessa è cercare di definire gli ambiti possibili della strutturazione
produttiva di quello che, in qualche modo, abbiamo definito capitalismo
funzionale.
La produzione viene determinata secondo flussi discontinui che creano una massa
di lavoro di per sé non strutturale, ma funzionale al rapporto capitale-produzione-
lavoro.
Qual è la caratteristica fondamentale della forza-lavoro come si viene a definire in
questo nuovo ambito di riformulazione della produzione capitalistica?
<<La "pianificazione" capitalistica presuppone la pianificazione del lavoro vivo, e
quanto più essa si sforza di presentarsi come un sistema chiuso, perfettamente
razionale di regole, tanto più essa è astratta e parziale, pronta per essere utilizzata
in una organizzazione soltanto di tipo gerarchico. Non la "razionalità" ma il
controllo, non la programmazione tecnica ma il progetto di potere dei produttori
associati possono assicurare un rapporto adeguato con i processi tecno-economici
globali>> (R. Panzieri, op. cit., pg.61). E' lo stesso controllo che vigila
inesorabilmente sulle possibilità di transito da un modello di produzione dato ad
uno nuovo che, addirittura, mina il vecchio alle fondamenta. Un simile processo,
come detto, necessita di un mutamento strutturale che ora vediamo unicamente
nelle sue forme primordiali.
Credo che si debbano unire due aspetti che continuano a rimanere centrali di tutta
quanta la redistribuzione delle risorse economiche, produttive, sociali di un paese
industrializzato.
Il primo è la mercificazione della forza-lavoro. Comprendere, infatti, a quale
stadio sia giunto il processo di complessificazione del rapporto lavoro-
produzione, significa riuscire a misurare la cosiddetta socialità del capitale, ossia,
la forza di rapporto del capitale sull'apparato sociale, determinante per contenere
le possibili esplosioni insite nel lavoro salariato, nella compra-vendita (per usare
un termine caro a Marx) di forza-lavoro.
Sostiene G. La Grassa: <<Dice Marx che, solo quando la forza lavoro diventa
merce, si generalizza la produzione di tutti i beni in forma di merce; ma la forza
lavoro diventa merce solo quando si produce la "mutazione" della forma
riproduttiva dei rapporti sociali di produzione, tipica del feudalesimo o di altre
società precapitalistiche, in altra forma riproduttiva, quella denominata
capitalistica>> (G. La Grassa, C. Preve, La fine di una teoria - Il collasso del
marxismo storico del novecento, Unicopli, 1996, pg.171).
Il secondo aspetto, concerne ancora la possibilità di trarre "valore" nel momento
in cui il lavoro -in quanto tale- diviene feticcio, quindi mero prodotto di scambio.
Varrebbe la pena, a tal proposito, soffermarsi maggiormente sull'aspetto del
lavoro-merce-scambio, equiparato ad un livello più esplicito di socializzazione del
lavoro stesso. Su tale linea sia Rifkin che, d'altra parte, P. Barcellona, (nel suo
saggio L'individuo sociale, costa&nolan, 1996), si soffermano, delineando
l'individuo sociale in quanto produttore e principale "globalizzatore" del sistema
sociale.
La perdita di "contratto sociale" rende in modo perfetto la conseguente perdita di
valore della forza-lavoro, una sorta di scambio ineguale che si verifica
quotidianamente e che ha come risoluzione lo smembramento, la parcellizzazione
del sistema-lavoro, così come era stato pensato ed analizzato nel novecento.
Il continuo sottrarre lavoro all'interno del mercato -che rimane pure l'unico
serbatoio di confronto tra due estremi quali, appunto, lavoro e capitale- è un
fattore che, rimanendo costante, tende a far regredire e penalizzare ogni teoria
sulla forma-valore, su cui si è confrontata la scienza dell'economia e, nello
specifico, il marxismo sia eretico che ortodosso. Non è possibile più, infatti,
strutturare su tali parametri ciò che per definizione (il capitale) non può avere una
linearità che vada oltre la verifica delle proprie esigenze di sopravvivenza e
riproposizione di forme di dominio sempre più dilatate, il cui centro appare
distante dalla periferia. Questo è, dunque, il nodo fondamentale della
globalizzazione economica. E' questo che da anni ormai, già Foucault, Deleuze ed
economisti critici di ogni ortodossia denunciano in ogni forma possibile.
Ciò che, ad esempio, Rifkin chiama "fine del lavoro" si riduce a mera appendice
di questa trasformazione globale, che rappresenta tutt'altro che un possibile
collasso del capitalismo. Tale rigenerazione delle forme capitalistiche produttive e
di sfruttamento non può non passare necessariamente per una spaventosa
ristrutturazione che, in parte, già stiamo vivendo. <<L'attuale ondata di tagli
occupazionali -sostiene Rifkin- acquisisce un maggiore significato politico alla
luce della tendenza manifestata dagli economisti di rivedere continuamente verso
l'alto il livello di disoccupazione "accettabile" nell'ambito di un sistema
economico. (...) Nel caso del lavoro, gli economisti hanno cominciato un
pericoloso gioco di adattamento ai dati sempre crescenti sulla disoccupazione,
nascondendo sotto il tappeto le implicazioni di una curva storica che sta
conducendo inesorabilmente a un mondo con sempre meno lavoratori>> (J. Rifkin,
op. cit., pg. 34).
La continua deregulation, l'ascesa verso una sempre meno controllata
pianificazione dell'economia, del lavoro, delle forze produttive sono fattori che
degenerano ulteriormente verso la paradossale necessità di creare maggiori poteri
di controllo, che limitino sempre più il fattore-redistribuzione della ricchezza
sociale.


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