CHAOS

L'assalto all'alternativa
Note critiche al libro di Alain Bihr*


Diego Giachetti


I temi che l'autore affronta nel suo libro sono importanti e risollevano il morale basso del
dibattito italiano con analisi "forti" e propositi decisamente fuori luogo nella sinistra
"buonista" italiana. Segnaliamo subito che Bihr vuole rilanciare una strategia
rivoluzionaria capace di cambiare radicalmente la società capitalistica in quanto il "progetto
comunista" è più che mai attuale. Poiché di questo libro ne hanno parlato bene tutti, dagli
anarchici di Umanità Nova, al Manifesto, al quotidiano del PRC Liberazione, credo che
alcune puntualizzazioni critiche possano anche risultare utili per evitare di riproporre il
modello "buonista" anche da parte dei settori antagonisti e di opposizione critica allo stato
di cose presenti.

1. Porre al centro delle proprie riflessioni il movimento operaio, comporta il rischio,
calcolato dall'autore, di incorrere nei sorrisini critici delle vecchie volpi sicofanti pronte a
darti dell' utopista, del "nostalgico", dell' "aggrappato a vecchie illusioni". Oggi il
movimento operaio dei paesi sviluppati si trova in una situazione di crisi perché sono
fallite le strategia rivoluzionarie e riformiste; perdipiù esso è sconvolto nella sua
composizione strutturale di classe dalle trasformazioni del capitalismo: globalizzazione dei
mercati, passaggio dal modello fordista a quello toyotista, crisi degli stati nazionali, ecc..
Nonostante ciò partire dal movimento operaio ha ancora una precisa rilevanza
metodologica, significa concentrare l'attenzione sull'analisi critica dei rapporti capitalistici
di produzione, evitando di compiere o ripetere errori tipici dei nuovi movimenti sociali, i
quali, accanto a diversi pregi, hanno evidenziato altrettanto difetti. In primo luogo il loro
agire su "terreni di intervento periferici rispetto al rapporto centrale costituito dal capitale"
(128), poi, "il particolarismo, il ripiegamento su un gruppo di problemi specifici, la
chiusura in pratiche strettamente localizzate"(p. 129).

2. La storia del movimento operaio occidentale novecentesco è caratterizzata, secondo
Bihr, dal prevalere del modello di organizzazione socialdemocratica a partire dalla fine
della Prima guerra mondiale. Secondo l'autore, Lenin e Giuseppe Saragat sono la stessa
cosa in quanto "leninismo e socialdemocrazia" sono le due varianti del modello
socialdemocratico. Tutti, Bernstein, Craxi, Luxemburg, compresi, avevano ed hanno in
comune il feticismo dello Stato e il disconoscimento "della stretta connessione fra Stato e
capitale". Si tratta, a nostro parere, di affermazioni forti e che difficilmente reggono alla
prova di una verifica storica. Si pensi a quelle correnti di pensiero marxiste le quali, dopo
il 4 agosto della socialdemocrazia tedesca, ruppero con una determinata impostazione
teorica delle II Internazionale sviluppando analisi e riflessioni che criticavano aspramente
proprio il feticismo dello Stato, l'idea che la conquista dello Stato, concepito come
macchina neutrale, fosse sufficiente per pilotare la futura società socialista. Il leninismo ed
altre correnti marxiste concepirono la rivoluzione non certo come la presa del palazzo di
una piccola minoranza, dotata di fede messianica -come caricaturalmente il Bihr sembra
voler dipingere le avanguardia rivoluzionarie del Novecento- e neanche pensavano fosse
sufficiente prendere in mano la direzione dello stato borghese per pilotare la società verso
il socialismo. Non ci vuole molto a ricordare (e sicuramente anche il Bihr li ricorda) testi,
opere e scritti nei quali si afferma la necessità di distruggere l'apparato statale borghese
per sostituirlo con "altri organi" di democrazia proletaria. Altrettanto si può obiettare
all'ingenerosa affermazione circa il misconoscimento del rapporto fra Stato e capitale che
fu un tema al centro di un grande dibattito tra gli esponenti della II Internazionale.
Infine, se per leninismo si intende il prodotto storico rappresentato dalla ex Unione
Sovietica, allora non è sufficiente dirlo fra le righe e perdipiù in poche righe. Quel regime
era il risultato di un processo storico complesso che non è serio liquidare con veloci
assiomi, con ipotesi buttate lì a mo' di certezze acquisite una volta per tutte. Per parte
nostra riteniamo che esista una cesura netta fra leninismo e stalinismo, fra lo Stato e
rivoluzione di Lenin e l'ipertrofico apparato statale burocratico sviluppatosi con lo
stalinismo.

3. L'idea che il modello socialdemocratico trova nel compromesso fordista il momento
del suo maggiore sviluppo e che con esso si realizza una specie di accordo tra capitale e
lavoro, che comporta l'integrazione del movimento operaio nel sistema capitalistico,
sembra descrivere un processo di adesione consensuale del movimento operaio
all'assoggettamento capitalistico. Indubbiamente vi sono stati paesi e situazioni dove
l'integrazione è stata poco traumatica, ma è comunque sbagliato generalizzare in quanto in
altri, si pensi alla Germania e all'Italia, la riduzione della classe operaia a puro capitale
variabile, senza più coscienza politica e sindacale è passata attraverso uno scontro di
classe clamoroso ed evidente, culminato nella vittoria del fascismo e del nazismo., regimi
che hanno messo al bando anche le organizzazioni socialdemocratiche. Anche negli
anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando il compromesso fordista si
manifesta con più evidenza, non risulta facile parlare di integrazione della classe operaia,
infatti le rivolte operaie negli anni Sessanta e Settanta non hanno risparmiato nessuna
nazione capitalistica sviluppata.
L' ipotesi avanzata dall'autore che il compromesso fordista sia una delle cause della
nascita di una burocrazia d'apparato, che espropria il proletariato del suo potere
decisionale, si rende autonoma dal movimento, privilegia il campo dell'azione
parlamentare, della delega e della rappresentanza indiretta, non convince completamente.
Gli apparati nascono e si formano dallo stesso svilupparsi della lotta di classe. Ogni
struttura stabile di organizzazione sindacale richiede -come ha efficacemente scritto
Cosimo Scarinzi su A Rivista anarchica del marzo 1996- "risorse, competenze, continuità
nel lavoro di consulenza, capacità di gestire vertenze; tutte esigenze che, o vengono
soddisfatte da "un numero limitato di funzionari, distaccati, militanti, o non vengono
soddisfatte". Proprio perché questa è una necessità oggettiva si impongono delle regole
drastiche per evitare il che si formi un ceto burocratico.

4. Opportunamente il Bihr riconferma la validità della richiesta di riduzione drastica
dell'orario di lavoro in nome del principio "lavorare meno lavorare tutti", di
riorganizzazione della produzione sociale per produrre altro e in altro modo, di un nuovo
internazionalismo e di nuove forme di democrazia diretta e autogestionaria. Ritiene sia
però anche opportuno ripensare le strategie rivoluzionarie, le forme organizzative, gli
obiettivi finali.
Intanto l'obiettivo "non è più il socialismo... ma direttamente il comunismo" (p.231) in
quanto, e la motivazione tra le tante possibili è molto, molto singolare, "obiettivi
socialisti" sarebbero già stati "parzialmente raggiunti" (p. 232); infatti "la strategia
d'integrazione può essere retrospettivamente interpretata come quella che ha permesso al
movimento operaio di raggiungere taluni obiettivi socialisti all'interno del capitalismo"(p.
224). Affermazione tutta da discutere e che sorprende il lettore in quanto compare nelle
battute finali del libro, dopo che, per pagine e pagine si era criticato a fondo e giustamente
la strategia socialdemocratica di integrazione nel sistema capitalistico.

5. La nuova strategia rivoluzionaria che propone Bihr in sostituzione di quella che
descrive come l'assalto legale o insurrezionale allo Stato, si fonda su una sorta di
gradualismo rivoluzionario (sperando che la borghesia e lo Stato si lascino espropriare
senza reagire). Gradualmente egli ritiene che sotto la spinta di una continua ascesa del
livello di coscienza del proletariato, ci si possa appropriare immediatamente "delle
condizioni sociali di vita all'interno delle società capitalistiche, con lo scopo di preparare o
prefigurare ciò che sarà una società comunista"(p. 133). Il proletariato deve sottrarre
progressivamente al controllo del dominio capitalistico pezzi di società instaurando una
sorta di dualismo di "doppio potere" (p. 183).
Questa strategia rivoluzionaria impone la ricostruzione delle organizzazioni su base
federalista, cioè "associazioni di individuai che fanno la scelta di costruire uno strumento
collettivo, di prendere decisioni e di condurre azioni... conservando la loro integrale
autonomia" (p. 189). Si tratta di una definizione ancora astratta di quello che dovrebbe
essere il sostitutivo della forma partito e sindacale novecentesca che riproduce nel suo
funzionamento gli schemi dell' "apparato statale", che fonda sulla delega il rapporto con le
masse ed ha una struttura rigida e burocratica i cui vertici sono inamovibili. I rimedi e le
caratteristiche della forma federata di organizzazione non sono per nulla diversi da quelli
che già Marx elencava nella sua riflessione sulla Comune di Parigi del 1871 (rotazione
delle cariche, nessun delegato a vita, circolazione dell'informazione, democrazia interna e
diretta) a cui si affianca il recupero della tradizione del sindacalismo rivoluzionario:
autonomia del sindacato nei confronti dello Stato e dei partiti, azione diretta dei lavoratori,
lotta rivoluzionaria nell'ambito del sindacato stesso.
Tuttavia tale forma organizzativa necessiterebbe di un ulteriore approfondimento onde
evitare formulazioni ambigue o eclettiche del tipo "l'autonomia reale degli elementi di
base si combina con una direzione centrale effettiva in un rapporto armonioso" (p. 189).
Giustamente si afferma che l'organizzazione deve essere costruita dal basso verso l'alto,
deve permettere a tutti di partecipare alle decisioni, gli organismi centrali devono essere
composti da delegati di base, revocabili in qualunque momento. Insomma si tratta di
valorizzare la democrazia diretta dando grande importanza però alla "ricerca del consenso,
senza escludere all'occorrenza la possibilità di concludere una controversia interna
attraverso un voto a maggioranza, ma garantendo in tal caso i diritti alla minoranza"(p.
190). Che sia considerata soltanto come subordinata l'ipotesi di concludere col voto le
discussioni quando si manifestino le opinioni diverse ci pare una precisazione pericolosa,
oppure inutile in un'organizzazione che voglia funzionare democraticamente. Per la stessa
ragione ci spaventa e ci incute diffidenza la successiva affermazione che, in caso di
controversie, saranno garantiti i diritti delle minoranze. Trattandosi del progetto di una
nuova forma organizzativa, migliore della peggiore tradizione partitista, davamo questo
concetto per scontato, ci sbagliavamo, meglio allora, comunque, che esso venga ribadito.
Diego Giachetti

* Alain Bihr, Dall' "assalto al cielo" all' "alternativa". La crisi del movimento operaio europeo, a cura di
Oscar Mazzoleni, BFS Edizioni, Pisa, 1995, pp. 238, lire 30.000.


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