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Aiace Scuola

Cinema e Scuola
Cinema Centrale

XXVIII Edizione
Rassegna di film, incontri e dibattiti per le scuole proposti dall'Aiace e dal Cinema Centrale

 

Aiace Torino e Cinema Centrale propongono alle scuole e agli studenti la XXVIII edizione della rassegna Cinema e Scuola, contrassegnata da un palinsesto quanto mai diversificato e stimolante. Anche quest'anno le proiezioni per gli allievi delle Scuole Elementari e Medie Inferiori sono suddivise in due rassegne distinte, precipuamente rivolte alle due diverse fasce d'età, per quanto alcuni titoli vengano considerati adatti a entrambe; una suddivisione analoga è stata adottata per le proiezioni dedicate alle Scuole Medie Superiori. Sempre più convinti che Cinema e Scuola debba essere uno strumento in grado di fornire nuovi stimoli, si è provveduto a inserire nel programma festival, rassegne, incontri e proiezioni, volendo offrire ai giovani e giovanissimi degli istituti d'ogni ordine e grado la possibilità di un'educazione all'immagine creativa, utile per discutere e meditare su svariati temi.
La XXVIII edizione ospita, secondo una tradizione ormai consolidata, alcuni appuntamenti della VI edizione di Sottodiciotto Filmfestival - Cinema Scuola Ragazzi: le pellicole intendono da un lato stimolare la riflessione e il dibattito; dall'altro divertire sollecitando l'immaginazione.
Particolare rilievo riveste infine la XIX edizione della rassegna promossa dal Consiglio Regionale del Piemonte, che quest'anno s'intitola Lottare per un mondo diverso e oggi più che mai rappresenta un'imprescindibile occasione per confrontarsi su tematiche di rilevanza sociale e civile.

 

Proiezioni e prenotazioni
Cinema Centrale, via Carlo Alberto 27, tel. 011.540110, fax 011.0702287 (mattino: ore 10.00-12.00; pomeriggio: ore 16.00-20.00).
Gli spettacoli avranno inizio alle ore 10.00.
Sarà possibile concordare spettacoli in date diverse da quelle stabilite, proiezioni di film non previsti dal programma, proiezioni in orari mattutini e pomeridiani (minimo 100 ragazzi).

Per la rassegna Il cinema per capire: ragazzi in gioco - tra sport e creatività promossa dalla Città di Torino - Progetto Luoghi della Cultura
(Sognando Beckham, Les choristes, Il miracolo di Berna)
le prenotazioni vengono effettuate dal
Progetto Luoghi della Cultura Via Modena 55, 10153 Torino
tel. 011.4420812, fax 011.4420819, e-mail: labcultura@comune.torino.it
L'attività richiede adesione mediante prenotazione telefonica e/o modulo di iscrizione


Ingresso alle proiezioni
Studenti: € 3,00. Insegnanti e accompagnatori: ingresso gratuito

Per la rassegna Lottare per un mondo diverso promossa dal Consiglio Regionale del Piemonte (Hotel Rwanda, Alla luce del sole, Quando sei nato non puoi più nasconderti):
studenti € 2,00. Insegnanti e accompagnatori: ingresso gratuito

 


Calendario delle proiezioni

24 ottobre
La profezia delle ranocchie di Jacques-Remy Girerd
Programma per le Scuole Elementari
07 novembre
Dopo mezzanotte di Davide Ferrario
Programma per le Scuole Medie Superiori
14 novembre
Le chiavi di casa di Gianni Amelio
Programma per le Scuole Medie Inferiori e Superiori
21 novembre
La terra dell'abbondanza di Wim Wenders
Programma per le Scuole Medie Superiori
26 novembre
Sottodiciotto Filmfestival
Proiezione mattutina per le Scuole Medie Superiori
01 dicembre
Sottodiciotto Filmfestival
Proiezione pomeridiana per le Scuole Medie Inferiori
1-2 dicembre
Sottodiciotto Filmfestival
Proiezioni mattutine per le Scuole dell'Infanzia
ed Elementari
12 dicembre
Hotel Rwanda di Terry George
Rassegna "Lottare per un mondo diverso"
19 dicembre
La stella di Laura di Piet De Rycker e Thilo Rothkirch
Programma per le Scuole Elementari
16 gennaio
Lavorare con lentezza di Guido Chiesa
Programma per le Scuole Medie Superiori
23 gennaio
Profondo blu di Andy Byatt e Alastair Fothergill
Programma per le Scuole Elementari e Medie Inferiori
30 gennaio
Nowhere in Africa di Caroline Link
Programma per le Scuole Medie Inferiori e Superiori
06 febbraio
Million Dollar Baby di Clint Eastwood
Proiezione per le Scuole Medie Superiori
1-2 marzo
Sognando Beckham di Gurinder Chadha
Rassegna "Il cinema per capire"
per le Scuole Medie Inferiori
06 marzo

Alla luce del sole di Roberto Faenza
Rassegna "Lottare per un mondo diverso"

15-16 marzo
Les choristes - I ragazzi del coro di Christophe Barratier
Rassegna "Il cinema per capire"
per le Scuole Medie Inferiori
29-30 marzo
Il miracolo di Berna di di Sönke Wortmann
Rassegna "Il cinema per capire"
per le Scuole Medie Inferiori
03 aprile
Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana
Rassegna "Lottare per un mondo diverso"
10 aprile
Un silenzio particolare di Stefano Rulli
Programma per le Scuole Medie Superiori
24 aprile
Polar Express di Robert Zemeckis
Programma per le Scuole Elementari e Medie Inferiori

 


LA PROFEZIA DELLE RANOCCHIE

Regia: Jacques-Remy Girerd. Sceneggiatura: J.-R. Girerd, Antoine Lanciaux, Iouri Tcherenkov. Fotografia: Benoît Razy. Scenografia: Jean-Loup Felicioli, I. Tcherenkov. Musica: Serge Besset, J.-R. Girerd. Montaggio: Hervé Guichard. Animazione: Alain Gagnol, Michael Dudok de Wit. Produzione: Folimage Valence Production, France 2 Cinéma, Rhone-Alpes Cinéma, Canal+, Studio Canal France. Tit. originale: La prophétie des grenouilles. Origine: Francia 2003. Durata: 86'.

Una nuova Arca di Noè va sulle acque tempestose di un nuovo diluvio universale. A cercare scampo dall'inondazione, oltre agli animali in coppia, è una famiglia inconsueta: un vecchio ex marinaio suonatore di chitarra; la sua giovane moglie nera, vanamente appassionata a sortilegi e riti esoterici; il loro figlio adottivo, che una volta tanto è un bambino bianco; una prepotente bambina ospite, i cui genitori padroni di uno zoo sono per il momento in Africa. Ne La profezia delle ranocchie, film francese d'animazione molto carino che vuol educare i bambini alla non-violenza e alla solidarietà ("Abbiamo bisogno gli uni degli altri") le ranocchie si vedono poco. Compaiono appena all'inizio per dare l'annuncio, da brave rane parlanti, della sciagura imminente, tanto simile alle catastrofi climatiche che investono e devastano il nostro mondo squilibrato: pioverà senza sosta per quaranta giorni e quaranta notti, l'acqua sommergerà ogni luogo e farà affogare ogni essere vivente. Infatti il cielo si oscura, tutto si rabbuia, il vento travolge le case, comincia a diluviare. I rifugiati nella nuova Arca sono i soli sopravvissuti? Da mangiare ci sono soltanto patate, i carnivori non ne possono più e vogliono mangiare gli altri animali, il complotto della malvagia tartaruga è sul punto di riuscire quando, finalmente, smette di piovere e una festa celebra lo scampato pericolo. Il disegno dell'animazione, semplice come i disegni dei bambini e aggraziato come i dipinti naif, senza bi-tridimensionalità né plasticità, è di tipo assolutamente europeo; e anche la morale della favola, benché chiara, non ha nulla a che vedere con il moralismo schematico all'americana. Il film istruttivo e fantasioso risulta piacevole, riuscito.

Lietta Tornabuoni

In Europa c'è molta animazione. Così, tra l'antropologia di Kirikù la fanta-nostalgia di Appuntamento a Belleville e la fiaba animalista Il cane e il suo generale ecco spuntare il gradevolissimo La profezia delle ranocchie. Storia di un diluvio che in 40 giorni sommerge il mondo. Il vecchio Ferdinand, novello Noè, trasformerà il suo granaio in un'arca che ospiterà vari animali. Sopravvivranno? Molto belli il sofisticato antropomorfismo degli animali (tartarughe matte, elefanti aristocratici...), il tratto pittorico del disegno a mano. Grande ricchezza di toni, c'è umorismo ma anche terrore e istinti omicidi.

Francesco Alò

 

Jacques-Remy Girerd fonda nel 1984 l'associazione Folimage, che diventa a partire dal 1988 la Folimage Valence Production, uno dei più importanti studios francesi di cinema d'animazione, col quale produce il suo primo corto, Amerlock (1988). Produttore, sceneggiatore, autore di colonne sonore, dirige L'enfant au grelot (1998, inedito in Italia) e La profezia delle ranocchie, con cui nel 2004 si aggiudica una menzione speciale al Festival di Berlino.

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DOPO MEZZANOTTE

Regia, soggetto, sceneggiatura: Davide Ferrario. Fotografia: Dante Cecchin. Scenografia: Francesca Bocca. Musica: Daniele Sepe. Montaggio: Claudio Cormio. Interpreti: Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza. Produzione: Davide Ferrario per Rossofuoco, Film Commission Torino Piemonte, Multimedia Park. Origine: Italia 2003. Durata: 90'.

All'ultima Berlinale, Dopo mezzanotte ha conquistato la critica ma anche pubblico e distributori, e con sorpresa dello stesso Ferrario è stato venduto ovunque. Un bel risultato per un'opera indipendente, "non governativa", girata in digitale, di cui Ferrario è anche produttore. "A Berlino ho incontrato i responsabili delle istituzioni cinematografiche che mi dicono: `bravo, così si fanno i film'. L'idea di essere il campione del cinema berlusconiano mi ha lasciato perplesso, un film così non regge un'industria. Sul finanziamento al cinema ci sono molte ambiguità. Non esiste varietà di soggetti, Dopo mezzanotte non aveva sceneggiatura, le commissioni ministeriali me lo avrebbero tirato dietro. L'altro malinteso è il mercato. Se sono arte finanziamo i film per le loro qualità artistiche e non per fare soldi. Ma non funziona così". All'origine di Dopo mezzanotte ci sono una ventina di pagine buttate giù seguendo desideri personalissimi. C'è poi la passione cinefila molto particolare di Ferrario, che è stato critico e da regista ha sempre cercato di spiazzare con lavori su generi, luoghi, immaginari diversi. Spiega: "Qui mi sono fidato dell'intuito e della voglia di raccontare una storia". Dopo mezzanotte insomma è una scommessa con un'idea però del fare-cinema forte, che è indipendenza, rischio, voglia di scoprire. Gli attori intanto: laddove si passa da un film all'altro con le stesse facce, qui Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza tutti al primo film, sono bravissimi. L'unico noto è Giorgio Pasotti, spogliato dell'aura mucciniana per calarsi nei panni di Martino, ragazzo timido con la goffaggine dei sognatori, ispirato a Buster Keaton - voce narrante fuori campo di Silvio Orlando. Perché Keaton e Jules e Jim sono le sole citazioni esplicite in un film pieno di cinema, a cui dichiara amore con sguardo libero e senza dogmi su quel set magico che è il Museo del Cinema di Torino, dove si svolge, di cui Martino è il custode notturno. Vita solitaria di fantasie finché non incrocia Amanda e l'Angelo, il suo fidanzato: lei lavora in un fast food, lui ruba auto con stile. Amore a tre o a quattro, anima doppia, centro e periferia di Falchera, finale aguzzo sul pericolo delle "sirene" berlusconiane, dolcezza ineffabile dell'amore che, parola dell'Angelo "la coppia è come la benzina, fa male ma non hanno inventato un'altra cosa".

Cristina Piccino


Davide Ferrario nasce a Casalmaggiore nel 1956. Dopo la laurea in Letteratura Angloamericana si occupa di critica cinematografica esordendo come sceneggiatore nel 1986. Realizza successivamente alcuni corti, un documentario e La fine della notte (1989), Anime fiammeggianti (1994) e Materiale resistente (1995) ma a farlo conoscere al grande pubblico è Tutti giù per terra (1997). Si segnalano inoltre Figli di Annibale (1998), Guardami (1999), Se devo essere sincera (2004).

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LE CHIAVI DI CASA

Regia: Gianni Amelio. Soggetto: dal romanzo Nati due volte di Giuseppe Pontiggia. Sceneggiatura: G. Amelio, Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Fotografia: Luca Bigazzi. Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Simona Paggi. Interpreti: Kim Rossi Stuart, Andrea Rossi, Charlotte Rampling, Pierfrancesco Favino. Produzione: Rai Cinemafiction, Achab Film, Pola Pandora Film Produktion, Arena Films. Origine: Italia/Francia/Germania 2004. Durata: 105'.

Il primo piano di un uomo; in sottofondo, i rumori del bar di una stazione. L'uomo ha la faccia affaticata, concentrata, ma non arrabbiata: sta passando le consegne di un'esperienza difficile a un altro uomo, che sembra preoccupato, teso, quasi intimidito. L'esperienza difficile si chiama Paolo, ha quindici anni, è nato da un parto disgraziato che ha ucciso sua madre e segnato il suo corpo, e in quel momento sta dormendo sul treno che deve portarlo a Berlino, per una terapia di riabilitazione in una clinica specializzata. I due uomini sono, rispettivamente, lo zio che lo ha allevato e il padre che lo ha rifiutato dalla nascita e che ora si assume il peso di un viaggio traumatico. La prima scena di Le chiavi di casa dà il tono di tutto il film: un film che si inanella, si racconta, senza svelare i suoi misteri ma rendendocene partecipi; concentrato sui volti e i gesti dei personaggi, sulla loro quotidiana "fatica"; semplificato al massimo nel linguaggio, pulito ma non rarefatto, segnato semmai dalla pulizia delle emozioni; rispettoso e complice dei suoi protagonisti, dubbioso come loro. Per la prima volta nel cinema di Amelio, un ragazzo riuscirà forse a salvare l'anima di un adulto e a salvarsi da lui senza essere costretto a fuggire. Per la prima volta insieme, padre e figlio attraversano la città sconosciuta con curiosità e la clinica minacciosa con dolore: il padre è straziato dallo strazio cui la riabilitazione sottopone il corpo del figlio, è affascinato dall'inesauribile energia di Paolo, ma è anche innervosito, esasperato, disperatamente consapevole della distanza che li separa e sempre li separerà. Il figlio è una forza della natura, un affabulatore tenerissimo, un ragazzo che gioca, che coccola, ma che all'improvviso può incupirsi e partire per tornare a casa, quella casa della quale, orgoglioso, esibisce le chiavi e della quale sa raccontare i riti quotidiani. Gianni Amelio ci racconta i primi balbettii di questa conoscenza e la progressiva crescita di questo affetto con la naturalezza di un amore "normale": anche se circondate da istantanee di altre vite segnate dal dolore impotente della differenza, dimentichiamo in fretta le anomalie fisiche di Paolo, come pare dimenticarle il padre, per vivere invece insieme a loro le inevitabili alternanze di un amore che nasce, le ombre di un passato rimosso, le inadeguatezze di un rapporto a due.

 

Emanuela Martini


Gianni Amelio
nasce a San Pietro Magisano (Catanzaro) nel 1945. Dopo la laurea in Filosofia e alcuni corti, esordisce nel lungometraggio con La città del sole (1973), lavorando al contempo per la televisione. Fra i suoi film si segnalano Colpire al cuore (1982), I ragazzi di via Panisperna (1988), Porte aperte (1990), l'acclamato Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). Con Così ridevano si aggiudica nel 1998 il Leone d'Oro a Venezia.

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LA TERRA DELL'ABBONDANZA

Regia: Wim Wenders. Soggetto: Scott Derrickson, W. Wenders. Sceneggiatura: Michael Meredith, W. Wenders. Fotografia: Franz Lustig. Scenografia: Nathan Amondson. Musica: Nackt, Thom. Montaggio: Moritz Laube. Interpreti: Michelle Williams, John Diehl, Shaun Toub, Wendell Pierce. Produzione: Emotion Pictures, InDigEnt, Reverse Angle International. Tit. originale: Land of Plenty. Origine: USA/Germania 2004. Durata: 114'.

Buona notizia. Il Wenders di La terra dell'abbondanza non è quello dei suoi lontani tempi migliori, ma non è neppure quello noioso degli ultimi tempi, guru e predicatore. È un Wenders inaspettato, con una visione particolare e personale dell'America: che non è la biblica terra della pienezza dove scorrono latte e miele. Il titolo del film è figura retorica di inversione e antitesi. Nell'America di Downtown Los Angeles, con i poveracci senza casa che dormono sotto i cartoni sui marciapiedi, si incontrano l'invasato e il paranoico Paul e l'idealista e umanitaria Lena. Il film sta in questo triangolo: una città abitata dagli ultimi degli umiliati, un veterano del Vietnam che continua a condurre la sua guerra contro nemici che stanno dappertutto e complottano contro la libertà del suo Paese, una giovane donna che ha vissuto in Africa e in Medio Oriente e che adesso, tornata in patria, vuole dedicarsi ai dannati della sua terra. I due sono zio e nipote, non si conoscono, cominciano a sfiorarsi, si trovano insieme a scoprire cosa c'è dietro l'omicidio di un povero pakistano. E dietro non c'è il complotto mondiale che Paul sospetta. C'è soltanto il naufragio casuale di una vita oscura e sfortunata come tante. Wenders si ritrae, lavora su personaggi e luoghi, stringe il quadro, fa dell'America del dopo 11 settembre il Paese dell'angosciante attesa di una nuova catastrofe, terra di povertà, di isolamento paranoico e di slanci ideali. Di città spettrali con una Missione come ancoraggio provvisorio e di un deserto con un'altrettanto fantomatica cittadina, quattro baracche, dove le storie finiscono per dissolversi, dove Paul e Lena cominciano a ritrovarsi prima di partire in pellegrinaggio verso Ground Zero. Dice Paul che quel buco nero nel cuore dell'America se lo immaginava più grande. Lena gli chiede di ascoltare il silenzio. E Leonard Cohen canta la "title song". Niente prediche. Ripartire dal poco. Affezionarsi a un'immagine vibrante, come quella di un colibrì magicamente sospeso nell'aria.

Bruno Fornara


Wim Wenders nasce a Düsseldorf nel 1945. Dopo aver frequentato la Academy of Film and Television di Monaco, dal 1968 al 1972 lavora come critico cinematografico per Filmkritk e Suddeutsche Zeitung. Tra gli oltre quaranta film, cortometraggi e film per la tv da lui diretti si segnalano: Alice nelle città (1974), Nel corso del tempo (1976), Paris, Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (1987), Fino alla fine del mondo (1991), Lisbon Story (1994), The Million Dollar Hotel (2000), L'anima di un uomo (2003).

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HOTEL RWANDA

Regia: Terry George. Sceneggiatura: T. George, Keir Pearson. Fotografia: Robert Fraisse. Scenografia: Johnny Breedt, Tony Burrough. Musica: Jerry Duplessis, Rupert Gregson-Williams, Andrea Guerra, Martin Russell. Montaggio: Naomi Geraghty. Interpreti: Don Cheadle, Sophie Okonedo, Nick Nolte, Joaquin Phoenix. Produzione: Kigali Releasing Limited, Industrial Development Corporation of South Africa, Inside Track Films, Lions Gate Films Inc., Mikado Film S.r.l., Miracle Pictures, United Artists. Tit. originale: id. Origine: Canada/GB/Italia/Sudafrica 2004. Durata: 121'.

Il Ruanda è un paese dell'Africa centrale, che da colonia tedesca diventò protettorato belga dopo la prima guerra. Alimentata dai colonizzatori europei in chiave di "divide et impera", la contesa fra le etnie locali degenerò nell'aprile 1994 in un genocidio nel corso del quale gli Hutu massacrarono a colpi di machete quasi un milione di appartenenti alla tribù Tutsi. Di tale orrore l'Occidente, che in altre recenti occasioni si è mobilitato per molto meno, non prese in pratica atto.
A riportare all'attenzione quella tragedia arriva oggi un film di esemplare impatto civile e spettacolare, Hotel Rwanda di Terry George, che ha al centro Paul Rusesabagina, all'epoca direttore di un albergo di Kingali nel quale trovarono scampo mille perseguitati. Impersona questo Schindler africano l'attore Don Cheadle, giustamente candidato a un Oscar che meritava di vincere; e ne fa il classico uomo tranquillo che scopre in sé inaspettate risorse, contrapponendo al caos una coscienza vigile e un coraggio a tutta prova. Hutu sposato a una Tutsi, Paul crede nella civiltà: ha studiato in Europa, conosce le lingue, è vestito in modo inappuntabile e sa essere discreto, ma quando comincia la carneficina, e con la sua stessa famiglia in pericolo, il suo mondo di sicurezze va a pezzi. A proteggere i Tutsi rifugiati nell'albergo ci sarebbero i caschi blu dell'ONU comandati da un animoso ufficiale canadese, che però
ha l'ordine (assurdo, vista la situazione) di non sparare. E tuttavia, continuando a operare in un'apparenza di normalità mentre montano il disordine e la violenza, Paul riesce in un'impresa che pareva impossibile.
Il film ripercorre gli eventi mantenendo il più possibile l'orrore fuori scena, senza patetismi né ricercatezze, ma ad accapponare la pelle basterebbe la notizia che i ribelli massacrano i bambini negli asili per cancellare la razza. Di fronte a questo referto semplice e teso, l'emozione prende alla gola; e si vorrebbe che diventasse una regola universale l'affermazione finale di Rusesabagina. Il quale avendo riempito l'albergo ben oltre il limite della capienza, sostiene che "c'è sempre posto" per salvare chi è in pericolo.

Lietta Tornabuoni

Terry George, originario dell'Irlanda del Nord, dopo esser stato incarcerato per motivi politici negli anni Settanta nel 1993 collabora alla sceneggiatura di Nel nome del padre di Jim Sheridan. Tre anni dopo scrive e dirige Una scelta d'amore, che si aggiudica prestigiosi premi internazionali, collaborando in seguito alla sceneggiatura di The Boxer (1997). Reduce da alcuni progetti televisivi e dalla sceneggiatura per Sotto corte marziale (2002), torna alla regia con Hotel Rwanda, candidato a tre premi Oscar.

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LA STELLA DI LAURA

Regia: Piet De Rycker, Thilo Rothkirch. Soggetto: P. De Rycker, Alexander Lindner, Michael Mädel, dal romanzo omonimo di Klaus Baumgart. Sceneggiatura: Rolf Giesen. Scenografia: Man Arenas. Musica: Nick Glennie-Smith, Henning Lohner, Hans Zimmer. Effetti visivi: Sebastian Hofmann, Jörn Radel, Jens Schwarz. Produzione: Rothkirch Cartoon Film, Cartoon Filmproduktion Berlin, MotionWorks, Comet Film, Warner Bros. GmbH, Animationsfabrik Hamburg. Tit. originale: Lauras Stern. Origine: Germania/Bulgaria/Belgio 2004. Durata: 75'.

Cosa può aiutare una bambina di sette anni ad accettare il trasferimento in una grande città, ovvero la perdita di amici, luoghi carichi di memorie e familiari mura domestiche? Una stellina cadente che si è spezzata una punta e le piomba sul terrazzo dove si è accampata come gesto di rifiuto della nuova abitazione/vita è sicuramente un segno dal cielo, carico d'inattesa avventura, che tutti i bambini vorrebbero ricevere per risollevarsi. Così nasce la fiaba tratta dal libro illustrato di Klaus Baumgart, venduto in oltre 2 milioni di copie in tutto il mondo e tradotto in 25 lingue. E questa trasposizione libro-film è un cartoon del nord Europa sul quale spira un dolce e caldo alito di vento, che accarezza morbide forme e carezzevoli cromatismi pastello lontani parecchi colpi di pennello (e di mouse) dall'animazione disneyana, spielberghiana, pixariana e del Sol Levante. Tutto nel segno di una semplicità non scevra da qualche stilla di magici, incantati momenti condensati ad esempio in alcune zampate registiche: la ripresa aerea di Laura che aggrappata alla stellina sorvola la città "universale" (plasmata dagli animatori con un accattivante look centro-europeista) per riportare alla madre concertista l'amato archetto o i movimenti che avvicinano Laura disperata per la perdita dell'"amica stellare" e il piccolo vicino di casa Max, che ha recuperato la punta "scollatasi". Altri aspetti positivi che concorrono al buon risultato globale sono l'intuitiva emotività della musica del premio Oscar Hans Zimmer e il doppiaggio che ben aderisce alla delicatezza dell'operazione e contribuisce non poco alla piacevolezza della visione.
Una delicatezza e un'economia di mezzi che richiamano in qualche modo (anche se in chiave minore) un grande film d'animazione quale Il gigante di ferro. E la bontà della pellicola ben si soppesa se si pensa alla sana leggerezza con la quale scivolano via gli 80 minuti di proiezione. Non pochi davvero per un prodotto d'animazione.

Andrea Ravagli


Piet De Rycker esordisce nel cinema nel 2001, come regista e sceneggiatore del film d'animazione Der Kleine Eisbär, inedito in Italia. La stella di Laura è la sua seconda regia.

Thilo Rothkirch nel 1999 scrive, produce e dirige il film d'animazione Tobias Totz und sein Löwe, inedito in Italia. Co-dirige Der Kleine Eisbär (2001), firmando nel biennio successivo una serie di avventure televisive con gli stessi personaggi. La stella di Laura è il suo terzo lungometraggio.

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LAVORARE CON LENTEZZA

Regia: Guido Chiesa. Soggetto, sceneggiatura: G. Chiesa, Wu Ming. Fotografia: Gherardo Gossi. Scenografia: Sonia Peng. Musica: Teho Teardo. Montaggio: Luca Gasparini. Interpreti: Tommaso Ramenghi, Marco Luisi, Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea. Produzione: Domenico Procacci per Fandango, Medusa Film, Les Films des Tournelles, Roissy Film. Origine: Italia 2004. Durata: 111'.

Lavorare con lentezza è uno straordinario scandaglio gettato nelle acque limacciose del nostro presente: in un'Italia che ha un premier "operaio", una classe dirigente che si riempie la bocca con parole come "impresa" e "flessibilità", ma che al tempo stesso propone modelli spettacolari e mediatici assolutamente beceri, Guido Chiesa ci costringe a ragionare sul concetto stesso di lavoro e di produttività. I suoi personaggi sono o ragazzi che non vogliono il "posto fisso" caro ai loro padri, o altri ragazzi che concepiscono il lavoro come missione sociale o come mezzo di espressione creativa. I primi sono Squalo e Pelo, i due sottoproletari bolognesi che preferiscono scavare un tunnel per una rapina in banca piuttosto che andare in fabbrica; i secondi sono i fricchettoni di Radio Alice, o la giovane avvocata Marta che alla carriera preferisce le cause perse, come il difendere gli sfigati contro i potenti. Già un'aspirante avvocata che sta con uno di Radio Alice è una stranezza. Se poi aggiungiamo che il suo "cliente" è uno dei suddetti sottoproletari, uno che con la legge non ha davvero un gran feeling… Sullo sfondo, ma nemmeno tanto, ci sono i carabinieri: che oggi, nella suddetta Italia, sono un "mito" intoccabile, ma allora erano i "caramba" che, come i "celerini" e la "pula", rappresentavano l'ordine, anche violento. Nel film li comanda il tenente Lippolis, ma l'idea più strepitosa di Chiesa e dei Wu Ming (il collettivo bolognese di scrittura che ha collaborato alla sceneggiatura) è il povero sbirro che deve ascoltare Radio Alice tutto il giorno per controllarla, e finisce per diventarne un fan. L'ultima parola del film spetta a lui: la radio è stata evacuata (è il fatidico 12 marzo 1977) e lui, lasciato solo a fare il piantone, impugna il microfono e grida nell'etere "anche i carabinieri devono lavorare meno".
Speriamo che qualcuno lo ascolti. Almeno, ascoltatelo voi: andate a vedere Lavorare con lentezza, è un film mao-dadaista (definizione del regista) pieno di cose, di trovate, di idee e di splendida musica. In più, nonostante parli del '77, cioè di un anno in cui Chiesa era un ragazzino, è un film anti-nostalgico, ironico, beffardo, non flessibile, non imprenditoriale, non velinaro. È un film contro ogni logica aziendale. Avercene.

Alberto Crespi


Guido Chiesa nasce a Torino nel 1959. Dopo aver trascorso alcuni anni negli Stati Uniti lavorando accanto a registi affermati come Jarmusch e Cimino, dirigendo cortometraggi e scrivendo saggi e articoli di argomento musicale e cinematografico, nel 1992 esordisce con Il caso Martello. Documentarista molto attivo e apprezzato a livello internazionale, firma inoltre i film di finzione Babylon (1994) e Il partigiano Johnny (2000).

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PROFONDO BLU

Regia: Andy Byatt, Alastair Fothergill. Sceneggiatura: A. Byatt, A. Fothergill, T. Ecott. Fotografia: Rick Rosenthal, Doug Allan, Peter Scoones. Musica: George Fenton. Montaggio: Martin Elsbury. Produzione: BBC Worldwide, Greenlight Media AG. Tit. originale: Deep Blue. Origine: GB/Germania 2003. Durata: 83'.

La domanda di cinema documentario sta aumentando. Non ne sono prova soltanto gli exploit della nuova onda politica americana, ma anche l'enorme successo riscosso dalle opere naturalistiche legate al nome dell'attore-produttore Jacques Perrin, come Microcosmos e Il popolo migratore. Sulla stessa lunghezza d'onda si muove anche Profondo blu che la società di distribuzione italiana Lucky Red manda nelle sale con un vasto accompagnamento di iniziative collegate all'acquario di Genova piuttosto che a Legambiente. Se l'irriverente Wes Anderson con il suo Le avventure acquatiche di Steve Zissou canzonava il modello di documentarista-esploratore del comandante Cousteau, la specializzatissima troupe della Bbc che ha girato in trentaquattro location diverse quest'opera di altissima qualità, tecnica ma anche artistica, perseguiva evidentemente scopi diversi. Quello di raccontare che cosa succede in quasi due terzi del pianeta, quel 70 per cento di superficie terrestre fatta di acqua.
Mostrare la bellezza remota e incontaminata della vita che vi si svolge ma anche la ferocia della lotta per la sopravvivenza (quando le orche catturano un cucciolo di balena). Dare il senso concreto di un patrimonio da proteggere e preservare. È naturalmente in primo luogo un oggetto destinato a un pubblico molto motivato e appassionato, e in secondo luogo uno strumento didattico. Ma può anche essere, per tutti, una festa degli occhi.

Paolo D'Agostini

Finalmente nelle sale italiane il film documentario che ha raccolto il plauso di critica e platea all'edizione 2004 del Festival di San Sebastian. Due veterani del cinema a servizio della documentazione scientifica, con alle spalle una superproduzione da 15 milioni di dollari (20 squadre di operatori, 7.000 ore di pellicola, oltre 200 location in tutto il mondo per 5 anni di lavoro), realizzano per BBC Natural History Unit un prodotto magnificente, curatissimo nei particolari, rigoroso dal punto di vista scientifico e, allo stesso tempo, stupefacente e artisticamente valido. Ardite riprese aeree, copter-cam, ampissime panoramiche si alternano a primi e primissimi piani da pochi metri sotto il pelo dell'acqua al ragguardevole traguardo dei "meno 5.000", la cui realizzazione è qui tanto più ardita quanto sfuggente è la natura e l'indole dei protagonisti a cui si aggiunge la difficoltà di riprendere in condizioni di movimento continuo.

Alberto Piastrellini

Andy Byatt lavora come produttore e regista televisivo per la BBC. Profondo blu è la sua opera prima.

Alastair Fothergill lavora come produttore televisivo per la BBC, della quale ha diretto per un periodo la sezione dedicata alla Storia Naturale. Profondo blu segna il suo esordio nella regia.

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NOWHERE IN AFRICA

Regia, sceneggiatura: Caroline Link. Soggetto: dal romanzo di Stefanie Zweig. Fotografia: Gernot Roll. Scenografia: Susann Bieling, Uwe Szielasko. Musica: Niki Reiser, Jochen Schmidt-Hambrock. Montaggio: Patricia Rommel. Interpreti: Karoline Eckertz, Juliane Köhler, Merab Ninidze, Lea Kurka. Produzione: Bavaria Film, Constantin Film Produktion GmbH, MTM Cineteve, Media Cooperation One GmbH. Tit. originale: Nirgendwo in Afrika. Origine: Germania 2001. Durata: 140'.

Premiato nel 2003 con l'Oscar come miglior film straniero, Nowhere in Africa è un interessante tentativo di raccontare l'Olocausto da una visuale defilata e inconsueta. All'inizio degli anni '30, con il manifestarsi della persecuzione razziale, una coppia di ebrei tedeschi si trasferisce in Kenya con la figlioletta Regina dove mettono su una fattoria. Gli echi della situazione europea fanno da sfondo al confronto con una nuova realtà non priva di incomprensioni e solo lo sguardo puro e scevro da sovrastrutture di Regina inizia a costruire un ponte nei confronti dell'altro da sé, tramite l'indigeno Owuor. La perdita del concetto di patria e il razzismo a ogni latitudine sono i protagonisti di questo film di Caroline Link che si ispira al romanzo autobiografico della scrittrice ebrea Stefanie Zweig.

Fabrizio Liberti

Due ore e poco più - due sole ore - per comunicare l'inesprimibile sensazione di trovarsi senza radici, senza terra, senza Heimat. Un tempo brevissimo, per raccontare l'esperienza realmente vissuta da una scrittrice ebrea tedesca, emigrata in Kenya assieme alla propria famiglia nei primi anni '30 quando, ancora bambina, nella Germania nazista la pressione sulle comunità ebraiche iniziava a farsi insostenibile. Due ore per dare forma compatta ad un racconto fatto di terra, di suoni, di foglie e di cieli, di paura e di nostalgie. Materiali pericolosi. Quattro i personaggi principali: una bambina espiantata dalla propria infanzia; i suoi genitori, uniti da un amore ondivago, perplesso, bisognoso di ruoli certi e conosciuti, una fiamma incerta esposta al vento del nazismo; infine l'Africa, per una volta non sfondo oleografico su cui proiettare rimorsi occidentali di coscienza, ma sublimata in una persona di carne e di ossa, un Mentore nero con l'inesauribile compito di guidare lo scambio tra la cultura indigena e la sovrastrutturata civiltà occidentale. La Link parla dell'Olocausto senza nominarlo, fa esplodere le bombe della Seconda Guerra Mondiale nel silenzio più assoluto, descrive le pene di un amore difficile senza registrarne neanche un gemito, rappresenta gli abissi che dividono nord e sud del mondo escludendo le derive del giornalismo d'attualità, tratta sottovoce del concetto di patria tenendolo al riparo da roboanti affermazioni di virile ardimento, trasmette l'inestinguibile vocazione dei giovani al cambiamento senza urla né tensioni: semplicemente sottraendo il superfluo.

Umberto Martino


Caroline Link nasce a Bad Nauheim (Germania) nel 1964. Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta lavora come regista televisiva, firmando nel frattempo alcuni corti e documentari. Nel 1996 scrive e dirige Al di là del silenzio - Beyond Silence, seguito due anni dopo da Pünktchen und Anton, trasposizione inedita in Italia di un romanzo di Erich Kästner. Con Nowhere in Africa si aggiudica nel 2003 l'Oscar per il miglior film straniero.

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MILLION DOLLAR BABY

Regia, musica: Clint Eastwood. Soggetto: dai racconti di F.X. Toole. Sceneggiatura: Paul Haggis. Fotografia: Tom Stern. Scenografia: Henry Bumstead. Montaggio: Joel Cox. Interpreti: C. Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel. Produzione: Warner Bros., Lakeshore Entertainment, Malpaso Productions, Albert S. Ruddy Productions. Tit. originale: id. Origine: USA 2004. Durata: 132'.

Che grande, struggente, magnifico film è Million Dollar Baby. Negli Usa ha incassato poco e i moralisti gli hanno lanciato contro una campagna per un tema - l'eutanasia - che va bene quando se ne occupano gli altri (Mare dentro è in gara come migliore film straniero), molto meno se la produzione è americana. Però a Eastwood, che è un moralista vero, non interessa affatto fare un film a tesi: dall'interno di una squallida palestra di boxe, ci racconta una storia di solitudine e affetti, di conti col passato, di rispetto di se stessi; roba fuori moda, ma che è anche l'unica a contare davvero. Il vecchio allenatore Frankie Gunn ne sa qualcosa. Scrive lettere a una figlia che non risponde mai, discute col prete sul senso delle cose, legge Yeats e ha un solo amico: l'inserviente del club, un anziano monocolo (Freeman) che presta la voce narrante al film. In questo iperrealistico universo di "perdenti" entra Maggie (Swank), che fa la cameriera e vuole tirare di boxe. Motivata dal sogno impossibile di farsi amare dalla sua ripugnante famiglia d'origine, la donna vince le riluttanze di Frankie, si rivela dotatissima e intraprende un'irresistibile ascesa nel campionato femminile di boxe.
Finché il Fato non interviene, con tutta la sua crudeltà, a spezzare la storia d'amore tra i due. Perché, dal racconto di F.X. Toole, Eastwood ha tratto a tutti gli effetti una storia d'amore: non nel senso materiale inteso dalla volgare madre di Maggie; di paternità vicaria, se si preferisce; d'amore comunque, come unico, ancorché effimero, lenitivo alla solitudine e al nonsenso.
Clint ci parla di gente vera, che non cerca un posto al sole ma si accontenterebbe di un posto nel mondo. Un'autentica lezione d'economia poetica, dove la macchina da presa (degna di John Ford) indugia su quel che vuole mostrare esattamente per il tempo necessario; non un istante di più. Del personaggio di Frankie, basta dire che non poteva interpretarlo altri che Clint; Freeman è la migliore delle spalle. Quanto a Swank, se non le danno l'Oscar siamo già pronti alla protesta civile.

Roberto Nepoti


Clint Eastwood nasce a San Francisco nel 1930. Attore, produttore, regista e autore di colonne sonore, inizia la propria carriera nel 1955. Passa dietro la macchina da presa con Brivido nella notte (1971), seguito da Lo straniero senza nome (1973). Tra i venticinque lungometraggi da lui diretti si segnalano: Il cavaliere pallido (1985), Bird (1988), Gli spietati (1992), Un mondo perfetto (1993), Mystic River (2003). Million Dollar Baby ha vinto quattro premi Oscar nel 2005.

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SOGNANDO BECKHAM

Regia: Gurinder Chadha. Sceneggiatura: G. Chadha, Paul Mayeda Berges, Guljit Bindra. Fotografia: Jong Lin. Scenografia: Nick Ellis. Musica: Craig Pruess, Bally Sagoo, Gregg Alexander, Curtis Mayfield. Montaggio: Justin Krish. Interpreti: Parminder K. Nagra, Keira Knightley, Jonathan Rhys-Meyers, Anupam Kher. Produzione: Bend It Films, British Screen Productions, Film Council, Helkon Media AG, Kintop Pictures, Road Movies Filmproduktion. Tit. originale: Bend It Like Beckham. Origine: GB/Germania 2002. Durata: 112'.

In Italia il calcio si sta allontanando alla velocità della luce da una dimensione di pura passione sportiva e, nonostante sia lo sport nazionale, solo in rari casi il cinema vi si è avvicinato, con diffidenza e scarsi risultati. Ben diversa è la situazione nel Regno Unito, dove il calcio è ancora visto come un gioco e un sano divertimento. Sognando Beckham è forse un film furbo, fatto proprio per piacere, ma nel quale si percepisce un'etica dello sport che da noi non esiste più. Non si può quindi non trepidare e tifare per Jesminder detta Jess, una ragazza di origini indiane pazza per Beckham e per il calcio. Una passione che la porta a sgattaiolare di nascosto al campo di allenamento, sfidando le punizioni di una famiglia legata a riti e consuetudini ancestrali che non lasciano spazio alcuno a quello strano gioco. La vita di Jess, le amicizie e gli amori, scorrono al ritmo di dribbling e palleggi, delineando il ritratto di una generazione e di una comunità chiusa in se stessa. In un finale sorprendente per ritmo e soluzioni narrative, Jess dovrà scegliere tra il pallone e la sua famiglia e allo spettatore lasciamo il gusto di scoprire come finirà. Sognando Beckham è un delizioso puzzle che mescola la passione per il calcio e la commedia etnica alla East Is East, trovando un mix calibrato e mai banale.

Fabrizio Liberti

La ricetta per un film di successo sembra alla portata di molti: una regia moderna e scattante, un gruppo di protagonisti giovane e professionale, uno stuolo di comprimari dalla comicità irresistibile, una sceneggiatura di ferro, una colonna sonora coinvolgente. Sognando Beckham questi elementi li possiede tutti, ma con qualcosa in più. Gurinder Chadha sa miscelare sapientemente ogni componente, facendo sì che nessuna di esse prevalga sulle altre: se da un lato il film risulta girato ottimamente e con gran senso del ritmo, non meno importante è l'apporto fornito da un cast al meglio di sé, così come imprescindibile è il contributo della colonna sonora, costituita da una serie di hit di successo. Ma ciò che distingue questo film dalle altre commedie brillanti è la capacità con cui affronta tematiche difficili, come l'integrazione razziale, lo scardinamento dei pregiudizi e, soprattutto, lo scontro generazionale tra genitori e figli. La regista, con grande maestria, aggira ogni facile schematismo.

Simone Carletti


Gurinder Chadha, nata in Kenya da genitori indiani, si trasferisce in Gran Bretagna e lavora come reporter per la BBC. Il primo film, Picnic sulla spiaggia (1993), ottiene diversi riconoscimenti internazionali tra cui il Premio della giuria al Festival di Locarno. Dopo una nomination al BAFTA come Miglior esordiente del Cinema inglese, dirige What's Cooking? (2000) e Sognando Beckham, gran successo di pubblico. Il suo ultimo film è Matrimoni e pregiudizi (2004).

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ALLA LUCE DEL SOLE

Regia, soggetto: Roberto Faenza. Sceneggiatura: R. Faenza, Gianni Arduini, Giacomo Maia, Dino Gentili, Filippo Gentili, Cristiana Del Bello. Fotografia: Italo Petriccione. Scenografia: Davide Bassan. Musica: Andrea Guerra. Montaggio: Massimo Fiocchi. Interpreti: Luca Zingaretti, Alessia Goria, Corrado Fortuna, Giovanna Bozzolo. Produzione: Elda Ferri per Jean Vigo Italia. Origine: Italia 2004. Durata: 89'.

"Rompere le scatole", questo indica come impegno morale Don Pino Puglisi. Per esser più chiaro, il prete salta su una scatola di cartone, di fronte agli occhi sorpresi dei suoi allievi. Bisogna conoscere, spiega, bisogna capire e poi, se lo si ritiene giusto, bisogna saper dire di no. Siamo in una scuola di Palermo, nel '92. Ancora vivono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Presto, il 23 maggio e il 19 luglio, i due magistrati saranno ammazzati perché smettano di romperle, le scatole. E perché tanti altri non osino più dire di no. Dopo di loro, il 15 settembre del 1993, la mafia ammazzerà anche il parroco della comunità di San Gaetano. Non racconta una storia "edificante", Alla luce del sole. Roberto Faenza e Luca Zingaretti non fanno di Don Puglisi un eroe. Del resto, quella dell'eroe è una retorica del consenso, poco interessata alla "rottura di scatole". Soprattutto, poi, il prete del quartiere Brancaccio è troppo preoccupato della vita dei ragazzini che toglie dalla strada, sottraendoli alla mafia, per pensare alla morte - alla propria morte - come a un valore appunto eroico. Valori per lui sono invece la dignità, il rispetto di sé e degli altri, la condivisione critica e consapevole di regole civili, l'assunzione aperta di responsabilità, la concreta e orgogliosa pretesa di diritti. Su ben altri e ben tristi valori si apre il film di Faenza. Con una passività già diventata abitudine, con una sconcia disponibilità di ragazzini che si prestano a far da piccola manovalanza per i combattimenti clandestini fra cani. Senza rispetto per la vita e senza rispetto per sé, imparano a considerare naturali la subordinazione, lo spettacolo della morte, la crudeltà. In cambio, ne hanno poche migliaia di lire, da dividere fra tutti. Il prezzo della dignità è basso, quando la miseria materiale e ancor più quella morale si fanno cultura, autorità, e addirittura mondo. Insomma, si preparano a diventare mafiosi, quei ragazzini. Si preparano a considerare ovvio che gli uomini si dividano tra i molti che camminano tenendo lo sguardo chino, e i pochi che li costringono a farlo. Pare che la vita a Brancaccio nel 1993 - e altrove, e in altri anni - regga su questa temibile ovvietà. Alla luce del sole non lo nasconde. Anche a costo di rompere le scatole, appunto, Faenza mostra le connivenze indirette, le complicità aperte, la collusione tra politica e mafia, tra finanza e mafia, tra senso comune e mafia.

Roberto Escobar


Roberto Faenza nasce a Torino nel 1943. Regista, scrittore e professore universitario, nel 1965 si diploma in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia e firma tre anni dopo Escalation, seguito da H2S (1969). Torna al cinema dopo una lunga assenza con Si salvi chi vuole (1980) e Copkiller (1983). Tra i suoi film più recenti si segnalano: Jona che visse nella balena (1994), Sostiene Pereira (1996), Marianna Ucrìa (1997) e Prendimi l'anima (2002).

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LES CHORISTES - I RAGAZZI DEL CORO

Regia: Christophe Barratier. Soggetto: C. Barratier, dal film La gabbia degli usignoli di Jean Dréville. Sceneggiatura: C. Barratier, Philippe Lopes-Curval. Fotografia: Jean-Jacques Bouhon, Dominique Gentil, Carlo Varini. Scenografia: François Chauvaud. Musica: C. Barratier, Bruno Coulais, Jean-Philippe Rameau. Montaggio: Yves Deschamps. Interpreti: Gérard Jugnot, François Berléand, Jean-Baptiste Maunier, Maxence Perrin. Produzione: Galatée Films, Novo Arturo Films, Vega Film AG, CP Medien AG, France 2 Cinéma, Pathé Renn Productions. Tit. originale: Les choristes. Origine: Francia/Svizzera/Germania 2004. Durata: 95'.

Non capita a tutti di debuttare con un film che totalizza otto milioni di spettatori in patria, come è accaduto a Christophe Barratier, regista e sceneggiatore di Les Choristes, l'opera prescelta dai francesi per rappresentarli nella gara dell'Oscar per il miglior film straniero. E pensare che l'esordiente, di formazione chitarrista classico e da sempre innamorato del vecchio cinema parigino, si è ispirato a La gabbia degli usignoli di Jean Dréville, una pellicola del 1944 definita nella "Guide des films" di Jean Poulard "un peu demodé". Mentre evidentemente si tratta di una storia semplice, che può incontrare i favori di un pubblico vasto ed eterogeneo. Nel 1949 un professore di musica, Clement Mathieu, viene assunto come sorvegliante in un istituto di rieducazione per minori. La durezza della vita nel triste, decadente edificio, dove sotto la conduzione di un rigido direttore si risparmia su tutto, dal cibo al riscaldamento, ha reso gli allievi ancor più difficili e ribelli.
Ma Mathieu ha un tipo di approccio diverso, basato sulla comprensione e sulla tolleranza, sa che quei ragazzini sono usciti vulnerati da una terribile guerra e da condizioni familiari precarie e tenta di aiutarli con la disciplina dolce e coinvolgente del canto. Coloro che hanno fatto parte di un coro conoscono la magia di sentirsi amalgamati nell'armonia superiore della musica e fra i piccoli sbandati c'è il selvatico Pierre dalla voce d'angelo che sull'esperienza riuscirà a costruirsi un luminoso futuro da direttore d'orchestra. La cornice del presente, in cui Pierre ormai maturo e famoso (un cameo di Jacques Perrin, produttore del film e parente del regista) e un altro ex allievo ricordano il passato, è ovvia e pleonastica. Ma nell'insieme Les Choristes pur tutto prevedibile negli snodi narrativi, si muove con grazia ed equilibrio tra dramma e commedia. I giovanissimi interpreti, presi dalla vita, sono accattivanti a partire dal piccolo solista di Lione Jean-Baptiste Maunier. E molto si deve all'interpretazione di Gérard Jugnot, il quale ritaglia sul filo di una sensibilità mai sdolcinata e di uno stilizzato umorismo una bella figura di insegnante che senza nulla pretendere molto sa dare.

Alessandra Levantesi


Christophe Barratier nasce nel 1963 in una famiglia di attori teatrali e intraprende giovanissimo studi in ambito musicale, cantando in un coro e frequentando il Conservatorio di Parigi. Nel 1996 esordisce come produttore, passando dietro la macchina da presa nel 2002 con il corto Les tombales. Les Choristes, da lui scritto, diretto e per il quale compone la colonna sonora, è il suo film d'esordio.

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IL MIRACOLO DI BERNA

Regia: Sönke Wortmann. Sceneggiatura: S. Wortmann, Rochus Hahn. Fotografia: Tom Fährmann. Scenografia: Uli Hanisch. Musica: Marcel Barsotti. Montaggio: Ueli Christen. Interpreti: Louis Klamroth, Peter Lohmeyer, Johanna Gastdorf, Sascha Göpel. Produzione: Little Shark Entertainment GmbH, Senator Film Produktion GmbH, Seven Pictures. Tit. originale: Das Wunder von Bern. Origine: Germania 2003. Durata: 117'.

Un buon esempio di cinema capace di coniugare intrattenimento e ricostruzione storica viene dalla Germania. Il miracolo di Berna del titolo non ha nulla di mistico, si riferisce bensì alla vittoria a sorpresa della Germania dell'Ovest ai Campionati mondiali di calcio del 1954, un trionfo che assunse i connotati della ritrovata identità nazionale e di un sussulto di dignità per un popolo distrutto dalla guerra. Tra i vari, ben amalgamati ingredienti del film, il calcio funge da collante ma non predomina, mentre sono l'infanzia difficile, gli affetti negati, la crisi del dopoguerra a rendere universalmente compatibile l'opera.
Nella primavera del '54, la regione mineraria della Ruhr non sembra passarsela bene, così come Christa, che gestisce un bar aiutata dalla figlia maggiore, mentre dei figli maschi il più grande suona in un gruppo swing e il più piccolo, Matthes, fa da assistente-mascotte a un calciatore dell'Essen, un surrogato della figura paterna. Il capofamiglia è infatti dato per disperso in Russia fin quando non arriva una lettera da oltre Cortina che si suppone infausta, ma che reca invece la notizia del suo ritorno. Per un reduce da troppo tempo assente dal mondo civile, lo stravolgimento dei costumi è arduo da digerire, e la sua rigidità non fa che aumentare i problemi. L'incontro alla stazione non è proprio idilliaco, l'uomo scambia la figlia maggiore per la moglie di un tempo e poi chiede chi sia il figlio che non sapeva nemmeno di avere. Il reinserimento nella società costituirà oggetto di ulteriori frustrazioni. Sarà proprio il pallone, via di fuga per Matthes da una realtà depressa, la chiave per il difficile avvicinamento con il padre. Arriveremo a Berna dove si gioca la finalissima dei Mondiali, Germania - Ungheria (finì 3 a 2). Certo, a cinquant'anni di distanza i nomi di Turek, Rahn, Morlock o Kubsch dicono molto poco, mentre è interessante notare alcune affinità con Napoli milionaria di Eduardo. In questo caso, tuttavia, per il reduce la percezione dei familiari e dei relativi costumi si rivelerà distorta ed errata.
La ricostruzione d'epoca è efficace, l'autore dribbla i rischi della retorica, con una narrazione fluida che si avvale di recitazione e di una scenografia all'altezza.

Mario Mazzetti

Sönke Wortmann nasce nel 1959 a Marl (Westfalia, Germania). Dopo alcuni cortometraggi firma Drei D, che gli vale una nomination agli Oscar nella categoria studenti. È del 1991 il suo debutto con Allein Unter Frauen. Con Tutti lo vogliono (1994), adattamento dell'omonimo fumetto di Ralf Koening, firma uno dei lungometraggi tedeschi di maggior successo degli anni Novanta. I quattro lungometraggi successivi sono inediti in Italia.

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QUANDO SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI

Regia: Marco Tullio Giordana. Soggetto: dall'omonimo romanzo di Maria Pace Ottieri. Sceneggiatura: M.T. Giordana, Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Fotografia: Roberto Forza. Scenografia: Giancarlo Basili. Montaggio: Roberto Missiroli. Interpreti: Matteo Gadola, Alessio Boni, Ester Hazan, Vlad Alexandru Toma. Produzione: Cattleya, RaiCinema, Babe, Once You Are Born Films. Origine: Italia/Francia/GB 2005. Durata: 115'.

Dopo l'immersione negli anni dai quali veniamo, Marco Tullio Giordana si è fatto nuovamente aiutare da Petraglia e Rulli per raccontare l'oggi della pressione che esercita sulla nostra vita, avendone modificato il panorama, un numero di immigrati che ha raggiunto il 5 per cento della popolazione. Lo hanno fatto affidandosi allo sguardo di un bambino, privo di pregiudizi, ma lo stesso regista è riuscito a spogliarsi di ogni pregiudizio prendendo a riferimento il Bresciano: espressione di una mentalità che egli conosce e sente sua per essere originario di quei luoghi, e provincia laboratorio che più di ogni altra ha inserito il flusso migratorio nella vita produttiva e sociale. Né razzismo né ipocrisia caritatevole ma uno sguardo vergine (il bambino) e pragmatico (un tessuto economico interessato alla mano d'opera). Deideologizzato. Che resta, senza la pretesa di essere diversamente, il nostro sguardo su "gli altri" e non viceversa.
Fedele al principio secondo cui la regia migliore è quella che non si vede, Giordana ha dato mano libera agli attori e al piccolo Matteo Gadola. Il suo Sandro parte in crociera con papà e amico del papà, nuovi ricchi un po' sbruffoni. Di notte li imita nel fare pipì fuori bordo e cade dalla barca. Straziante è la sua voce che chiede aiuto nel buio del mare. Lo salva un ragazzo rumeno tuffandosi dalla carretta che lo sta portando con altri disgraziati in Italia. Inizia per Sandro un percorso di formazione: fa esperienza della legge del più forte, ma anche dell'amicizia. Radu e la sorella Alina entrano nella sua vita. Quando i genitori lo andranno a riprendere nel centro di accoglienza, Sandro vuole che adottino i due giovani clandestini. Vincono la riluttanza, sono pronti a ricambiare chi ha restituito la vita a loro figlio. Ma è difficile tradurre la fiducia dalle parole ai fatti, ancor più da parte di chi non ha ragione di dare la propria con naturalezza. Dopo la delusione comincia per Sandro un'altra vita: sarà una scena di grande intensità il punto di partenza dal quale forse e faticosamente nascerà qualcosa di duraturo e paritario. Giordana si è lasciato guidare da molte suggestioni, la prima è il libro di Maria Pace Ottieri al quale ha preso il titolo ma sullo sfondo sta anche una lettura classica. Capitani coraggiosi di Kipling da cui vengono la caduta in mare e il salvataggio del bambino ricco da parte di un'umanità ruvida, che gli disvela nuovi orizzonti.

Paolo D'Agostini

Marco Tullio Giordana nasce a Milano nel 1950. Il suo film d'esordio è Maledetti vi amerò (1980), premiato col Pardo d'Oro al Festival di Locarno. Dopo La caduta degli angeli ribelli (1981) e alcuni film collettivi e progetti televisivi, dirige Pasolini, un delitto italiano (1995), seguito da I cento passi (2000) e La meglio gioventù (2003), che si aggiudicano numerosi premi e lo fanno conoscere al grande pubblico. È anche scrittore e regista teatrale.

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UN SILENZIO PARTICOLARE

Regia, soggetto, sceneggiatura: Stefano Rulli. Fotografia: Ugo Adilardi. Musica: Carlo Siliotto. Montaggio: Clelio Benevento, Lorenzo Macioce. Con: Matteo Rulli, S. Rulli, Giara Sereni. Produzione: U. Adilardi per Paneikon Productions, Fondazione La Città del Sole. Origine: Italia 2004. Durata: 75'.

Andrebbe visto in parallelo con Le chiavi di casa, perché, in chiave autobiografica, racconta lo stesso disagio di un padre di fronte alla malattia un po' misteriosa del figlio, la medesima alternanza di pena e felicità, di imbarazzo e accettazione. Stefano Rulli, metà della coppia Rulli & Petraglia, ha scritto il film di Amelio pensando anche al figlio Matteo, oggi ventiseienne, fisicamente normale (ha un bellissimo viso) ma affetto da una grave schizofrenia. Partendo da filmini sgranati dal tempo, il regista ricostruisce per lo spettatore la biografia di Matteo: lui bambino, lo sguardo inerte, a svelare problemi psichici che si aggraveranno; il rifiuto di ogni rapporto con la madre, la scrittrice Giara Sereni; il piacere improvviso di farsi riprendere in occasione di una festa, su nel casale umbro "La città del Sole" che ospita ragazzi handicappati. Ma Un silenzio particolare (il titolo allude a una frase sospirata da Matteo in una sera di vento insistente) è anche il diario di una famiglia "diversa", che Rulli, pudicamente, d'accordo con il figlio, verga con la sua telecamerina digitale: cogliendo timidi progressi e ricadute aggressive, abbracci toccanti e sfuriate improvvise. Un film per sconfiggere "l'incomprensibile vergogna" di una malattia dalla quale non si guarisce.

Michele Anselmi

Stefano Rulli è uno dei grandi sceneggiatori italiani, ha lavorato con Bellocchio (Matti da slegare), ha scritto La Piovra e moltissime fiction di successo. In questo suo documento privato il soggetto è la sua vita e il difficile rapporto, che ha segnato la vita anche della moglie, col disagio psichico del figlio: si racconta la fatica di affrontare e credere all'utopia. Il cinema aiuta, dato che nel particolare home video Matteo decide infine di apparire e sorridere: all'agriturismo della fondazione Città del Sole, in ricordo di un'amica. Un film colmo di pietà e di tenerezza, senza moralismi né retorica, un incontro di famiglia che lascia il segno di un cinema emozionante che restituisce con un significato aggiunto silenzi, sguardi e sorrisi.

Maurizio Porro

Stefano Rulli nasce a Roma nel 1949. Tra i più apprezzati sceneggiatori italiani, a partire dagli anni Settanta collabora a oltre trenta lungometraggi e sceneggiati, tra i quali si segnalano: Mery per sempre (1989), Il portaborse e Il muro di gomma, entrambi del 1991, Il ladro di bambini (1992), Vesna va veloce (1996), La tregua (1997), La meglio gioventù (2003). Un silenzio particolare segna il suo ritorno alla regia dopo alcuni film collettivi degli anni Settanta.

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POLAR EXPRESS

Regia: Robert Zemeckis. Soggetto: dall'omonimo romanzo di Chris Van Allsburg. Sceneggiatura: R. Zemeckis, William Broyles Jr. Fotografia: Don Burgess, Robert Presley. Scenografia: Rick Carter, Doug Chiang. Musica: Glen Ballard, Alan Silvestri, Irving Berlin, Ray Evans, Felix Bernard. Montaggio: R. Orlando Duenas, Jeremiah O'Driscoll. Effetti speciali: Michael Lantieri, Heather McCann, Tom Pahk. Produzione: Castle Rock Entertainment, Playtone, ImageMovers, Golden Mean, Shangri-La Entertainment, Universal CGI, Warner Bros. Tit. originale: The Polar Express. Origine: USA 2004. Durata: 100'.

Sistemato dal supercritico Roger Ebert nello scaffale di classici come Il mago di Oz e La vita è meravigliosa e stroncato da Variety come "un ambizioso passo falso", Polar Express è una scommessa da 170 milioni di dollari che per ora non ha trovato adeguata accoglienza presso il pubblico d'oltreoceano. Potrebbe rifarsi sul vecchio Continente, anche se la favoletta tratta dal libro scritto e illustrato di Chris Van Allsburg (1985) è quanto di più americano si può immaginare. Nella notte di Natale un bambino senza nome è svegliato da un magico treno che si ferma davanti a casa sua, ci salta su e fra mille peripezie arriva al Polo Nord dove ottiene da Babbo Natale un campanello della slitta. In seguito il bimbo smarrisce il dono e paradossalmente, tornato a casa, lo ritrova fra i pacchetti sotto l'albero. Il suono di quel campanello, che gli adulti non percepiscono, lo accompagnerà per tutta la vita.
Siamo dalle parti di Little Nemo, con il protagonista che vive la sua grande avventura in pigiama, fra i dialoghetti con il conduttore, l'incontro con un barbone fantasma sul tetto del treno, le accelerazioni vorticose in stile montagne russe, la crosta del lago ghiacciato che si rompe sotto il peso dei vagoni, l'invasione dei caribù sui binari e via inventando fino all'arrivo nella capitale del Polo Nord invasa dai nanetti che impaccano i regali. La morale della favola riguarda infatti la necessità di conservare, finché possibile, lo sguardo incantato e la disponibilità dei nostri figli o nipoti. Evidentemente Tom Hanks, unico personaggio in carne e ossa in un contesto di figure computerizzate, è fra i fortunati che ce l'hanno fatta a restare un po' ragazzini. In questo film da lui ideato e prodotto, questo Peter Pan del cinema dà voce e ispirazioni mimiche a molti fra i personaggi che vi compaiono; lo asseconda il regista Robert Zemeckis, che tra scenografie incantate e musiche di circostanza imprime un pimpante ritmo narrativo a una confezione di incantevole eleganza. Pur finito sotto le forche caudine di critici che si considerano troppo adulti per certe bambinate, Polar Express sembra il film fatto apposta per ricordare a grandi e piccini che Natale è sempre Natale.

Tullio Kezich


Robert Zemeckis nasce a Chicago nel 1952. Produttore, sceneggiatore e regista, esordisce nel 1972 con il corto The Lift. Firma complessivamente venti lungometraggi, tra i quali si segnalano: All'inseguimento della pietra verde (1984), la trilogia di Ritorno al futuro (1985, 1989, 1990), Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988), Forrest Gump (1994), Cast Away (2000).

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Percorsi e proposte all'interno del Programma:

 

SOTTODICIOTTO FILMFESTIVAL
Cinema Scuola Ragazzi
(VI edizione, 25 novembre - 3 dicembre 2005)

Nel 2005 avrà luogo la sesta edizione di Sottodiciotto Filmfestival, organizzato da Aiace Torino e Città di Torino - Divisione Servizi Educativi. La manifestazione, che si terrà nel capoluogo piemontese dal 25 novembre al 3 dicembre, continua di edizione in edizione a rimettersi in discussione, proponendo con passione anteprime esclusive, la partecipazione di ospiti d'eccezione, programmi speciali, seminari e laboratori didattici rivolti a studenti e insegnanti.
Fin dalla sua nascita, fulcro della manifestazione sono il Concorso nazionale dei prodotti realizzati in ambito scolastico (dalle Scuole dell'Infanzia fino alle Superiori) e il Concorso Under18 extrascuola, che include i film girati autonomamente dagli under 18 di tutta Italia, ai quali si è aggiunto dall'anno scorso il Premio speciale prodotti Laboratori della Città di Torino.
Quest'anno filo conduttore del Festival sarà il tema delle amicizie, intese come momento formativo, occasione di crescita, relazione affettiva, possibilità di compagnia e divertimento, opportunità di dialogo. Il pubblico potrà assistere a proiezioni inedite e vedere, o rivedere insieme ai propri figli, film e personaggi amati in gioventù.
Il Cinema Centrale ospiterà in particolare un programma di tre giornate sul tema delle amicizie rivolto alle scuole: per le Medie Superiori (sabato 26 novembre), per le Medie Inferiori (giovedì 1 dicembre), per le Scuole dell'Infanzia ed Elementari (giovedì 1-venerdì 2 dicembre). Ospiti di rilievo commenteranno i film con i ragazzi.

L'ingresso è gratuito, previa prenotazione (possibile già da settembre) presso:
Aiace Torino, tel. 011.538962, fax 011.542691, e-mail: aiacetorino@iol.it.
Il programma definitivo degli appuntamenti verrà inviato a tutte le scuole.

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Rassegna Lottare per un mondo diverso
promossa dal Consiglio Regionale del Piemonte, Aiace Torino e Agis

La rassegna presenta anche quest'anno tre film: Hotel Rwanda, Alla luce del sole, Quando sei nato non puoi più nasconderti.
Prenotazioni presso il Cinema Centrale, ingresso € 2,00.

Rassegna Il cinema per capire: ragazzi in gioco - tra sport e creatività
promossa dalla Città di Torino - Progetto Luoghi della Cultura

La rassegna presenta tre film (Sognando Beckham, Les choristes, Il miracolo di Berna), incentrati sulla tematica dei diritti dei minori, rivolti alle Scuole Medie Inferiori. Prenotazioni presso il Progetto Luoghi della Cultura, ingresso € 3,00.

 

Compagni di Cinema. Prime visioni per le Scuole Medie Superiori
Il Cinema Centrale aderisce all'iniziativa promossa dall'Assessorato alla Gioventù della Città di Torino e dall'Aiace, che verrà pubblicizzata all'inizio del nuovo anno scolastico.

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Per informazioni:
AIACE Galleria Subalpina n. 30
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