LA PROFEZIA DELLE RANOCCHIE
Regia: Jacques-Remy Girerd. Sceneggiatura: J.-R. Girerd,
Antoine Lanciaux, Iouri Tcherenkov. Fotografia: Benoît Razy.
Scenografia: Jean-Loup Felicioli, I. Tcherenkov. Musica:
Serge Besset, J.-R. Girerd. Montaggio: Hervé Guichard. Animazione:
Alain Gagnol, Michael Dudok de Wit. Produzione: Folimage
Valence Production, France 2 Cinéma, Rhone-Alpes Cinéma, Canal+,
Studio Canal France. Tit. originale: La prophétie des
grenouilles. Origine: Francia 2003. Durata: 86'.
Una
nuova Arca di Noè va sulle acque tempestose di un nuovo diluvio
universale. A cercare scampo dall'inondazione, oltre agli animali
in coppia, è una famiglia inconsueta: un vecchio ex marinaio suonatore
di chitarra; la sua giovane moglie nera, vanamente appassionata
a sortilegi e riti esoterici; il loro figlio adottivo, che una volta
tanto è un bambino bianco; una prepotente bambina ospite, i cui
genitori padroni di uno zoo sono per il momento in Africa. Ne
La profezia delle ranocchie, film francese d'animazione molto
carino che vuol educare i bambini alla non-violenza e alla solidarietà
("Abbiamo bisogno gli uni degli altri") le ranocchie si vedono poco.
Compaiono appena all'inizio per dare l'annuncio, da brave rane parlanti,
della sciagura imminente, tanto simile alle catastrofi climatiche
che investono e devastano il nostro mondo squilibrato: pioverà senza
sosta per quaranta giorni e quaranta notti, l'acqua sommergerà ogni
luogo e farà affogare ogni essere vivente. Infatti il cielo si oscura,
tutto si rabbuia, il vento travolge le case, comincia a diluviare.
I rifugiati nella nuova Arca sono i soli sopravvissuti? Da mangiare
ci sono soltanto patate, i carnivori non ne possono più e vogliono
mangiare gli altri animali, il complotto della malvagia tartaruga
è sul punto di riuscire quando, finalmente, smette di piovere e
una festa celebra lo scampato pericolo. Il disegno dell'animazione,
semplice come i disegni dei bambini e aggraziato come i dipinti
naif, senza bi-tridimensionalità né plasticità, è di tipo assolutamente
europeo; e anche la morale della favola, benché chiara, non ha nulla
a che vedere con il moralismo schematico all'americana. Il film
istruttivo e fantasioso risulta piacevole, riuscito.
Lietta
Tornabuoni
In
Europa c'è molta animazione. Così, tra l'antropologia di Kirikù
la fanta-nostalgia di Appuntamento a Belleville e la fiaba
animalista Il cane e il suo generale ecco spuntare il gradevolissimo
La profezia delle ranocchie. Storia di un diluvio che in
40 giorni sommerge il mondo. Il vecchio Ferdinand, novello Noè,
trasformerà il suo granaio in un'arca che ospiterà vari animali.
Sopravvivranno? Molto belli il sofisticato antropomorfismo degli
animali (tartarughe matte, elefanti aristocratici...), il tratto
pittorico del disegno a mano. Grande ricchezza di toni, c'è umorismo
ma anche terrore e istinti omicidi.
Francesco
Alò
Jacques-Remy
Girerd fonda nel 1984 l'associazione Folimage, che diventa
a partire dal 1988 la Folimage Valence Production, uno dei più importanti
studios francesi di cinema d'animazione, col quale produce il suo
primo corto, Amerlock (1988). Produttore, sceneggiatore,
autore di colonne sonore, dirige L'enfant au grelot (1998,
inedito in Italia) e La profezia delle ranocchie, con cui
nel 2004 si aggiudica una menzione speciale al Festival di Berlino.
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DOPO MEZZANOTTE
Regia, soggetto, sceneggiatura: Davide Ferrario. Fotografia:
Dante Cecchin. Scenografia: Francesca Bocca. Musica:
Daniele Sepe. Montaggio: Claudio Cormio. Interpreti:
Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza.
Produzione: Davide Ferrario per Rossofuoco, Film Commission
Torino Piemonte, Multimedia Park. Origine: Italia 2003. Durata:
90'.
All'ultima
Berlinale, Dopo mezzanotte ha conquistato la critica ma anche
pubblico e distributori, e con sorpresa dello stesso Ferrario è
stato venduto ovunque. Un bel risultato per un'opera indipendente,
"non governativa", girata in digitale, di cui Ferrario è anche produttore.
"A Berlino ho incontrato i responsabili delle istituzioni cinematografiche
che mi dicono: `bravo, così si fanno i film'. L'idea di essere il
campione del cinema berlusconiano mi ha lasciato perplesso, un film
così non regge un'industria. Sul finanziamento al cinema ci sono
molte ambiguità. Non esiste varietà di soggetti, Dopo mezzanotte
non aveva sceneggiatura, le commissioni ministeriali me lo avrebbero
tirato dietro. L'altro malinteso è il mercato. Se sono arte finanziamo
i film per le loro qualità artistiche e non per fare soldi. Ma non
funziona così". All'origine di Dopo mezzanotte ci sono una
ventina di pagine buttate giù seguendo desideri personalissimi.
C'è poi la passione cinefila molto particolare di Ferrario, che
è stato critico e da regista ha sempre cercato di spiazzare con
lavori su generi, luoghi, immaginari diversi. Spiega: "Qui mi sono
fidato dell'intuito e della voglia di raccontare una storia". Dopo
mezzanotte insomma è una scommessa con un'idea però del fare-cinema
forte, che è indipendenza, rischio, voglia di scoprire. Gli attori
intanto: laddove si passa da un film all'altro con le stesse facce,
qui Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza tutti al
primo film, sono bravissimi. L'unico noto è Giorgio Pasotti, spogliato
dell'aura mucciniana per calarsi nei panni di Martino, ragazzo timido
con la goffaggine dei sognatori, ispirato a Buster Keaton - voce
narrante fuori campo di Silvio Orlando. Perché Keaton e Jules
e Jim sono le sole citazioni esplicite in un film pieno di cinema,
a cui dichiara amore con sguardo libero e senza dogmi su quel set
magico che è il Museo del Cinema di Torino, dove si svolge, di cui
Martino è il custode notturno. Vita solitaria di fantasie finché
non incrocia Amanda e l'Angelo, il suo fidanzato: lei lavora in
un fast food, lui ruba auto con stile. Amore a tre o a quattro,
anima doppia, centro e periferia di Falchera, finale aguzzo sul
pericolo delle "sirene" berlusconiane, dolcezza ineffabile dell'amore
che, parola dell'Angelo "la coppia è come la benzina, fa male ma
non hanno inventato un'altra cosa".
Cristina
Piccino
Davide
Ferrario
nasce a Casalmaggiore nel 1956. Dopo la laurea in Letteratura Angloamericana
si occupa di critica cinematografica esordendo come sceneggiatore
nel 1986. Realizza successivamente alcuni corti, un documentario
e La fine della notte (1989), Anime fiammeggianti
(1994) e Materiale resistente (1995) ma a farlo conoscere
al grande pubblico è Tutti giù per terra (1997). Si segnalano
inoltre Figli di Annibale (1998), Guardami (1999),
Se devo essere sincera (2004).
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LE
CHIAVI DI CASA
Regia: Gianni Amelio. Soggetto: dal romanzo Nati
due volte di Giuseppe Pontiggia. Sceneggiatura: G. Amelio,
Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Fotografia: Luca Bigazzi.
Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Franco Piersanti.
Montaggio: Simona Paggi. Interpreti: Kim Rossi Stuart,
Andrea Rossi, Charlotte Rampling, Pierfrancesco Favino. Produzione:
Rai Cinemafiction, Achab Film, Pola Pandora Film Produktion, Arena
Films. Origine: Italia/Francia/Germania 2004. Durata:
105'.
Il primo piano di un uomo; in sottofondo, i rumori del bar di una
stazione. L'uomo ha la faccia affaticata, concentrata, ma non arrabbiata:
sta passando le consegne di un'esperienza difficile a un altro uomo,
che sembra preoccupato, teso, quasi intimidito. L'esperienza difficile
si chiama Paolo, ha quindici anni, è nato da un parto disgraziato
che ha ucciso sua madre e segnato il suo corpo, e in quel momento
sta dormendo sul treno che deve portarlo a Berlino, per una terapia
di riabilitazione in una clinica specializzata. I due uomini sono,
rispettivamente, lo zio che lo ha allevato e il padre che lo ha
rifiutato dalla nascita e che ora si assume il peso di un viaggio
traumatico. La prima scena di Le chiavi di casa dà il tono
di tutto il film: un film che si inanella, si racconta, senza svelare
i suoi misteri ma rendendocene partecipi; concentrato sui volti
e i gesti dei personaggi, sulla loro quotidiana "fatica"; semplificato
al massimo nel linguaggio, pulito ma non rarefatto, segnato semmai
dalla pulizia delle emozioni; rispettoso e complice dei suoi protagonisti,
dubbioso come loro. Per la prima volta nel cinema di Amelio, un
ragazzo riuscirà forse a salvare l'anima di un adulto e a salvarsi
da lui senza essere costretto a fuggire. Per la prima volta insieme,
padre e figlio attraversano la città sconosciuta con curiosità e
la clinica minacciosa con dolore: il padre è straziato dallo strazio
cui la riabilitazione sottopone il corpo del figlio, è affascinato
dall'inesauribile energia di Paolo, ma è anche innervosito, esasperato,
disperatamente consapevole della distanza che li separa e sempre
li separerà. Il figlio è una forza della natura, un affabulatore
tenerissimo, un ragazzo che gioca, che coccola, ma che all'improvviso
può incupirsi e partire per tornare a casa, quella casa della quale,
orgoglioso, esibisce le chiavi e della quale sa raccontare i riti
quotidiani. Gianni Amelio ci racconta i primi balbettii di questa
conoscenza e la progressiva crescita di questo affetto con la naturalezza
di un amore "normale": anche se circondate da istantanee di altre
vite segnate dal dolore impotente della differenza, dimentichiamo
in fretta le anomalie fisiche di Paolo, come pare dimenticarle il
padre, per vivere invece insieme a loro le inevitabili alternanze
di un amore che nasce, le ombre di un passato rimosso, le inadeguatezze
di un rapporto a due.
Emanuela
Martini
Gianni Amelio nasce a San Pietro Magisano (Catanzaro)
nel 1945. Dopo la laurea in Filosofia e alcuni corti, esordisce
nel lungometraggio con La città del sole (1973), lavorando
al contempo per la televisione. Fra i suoi film si segnalano Colpire
al cuore (1982), I ragazzi di via Panisperna (1988),
Porte aperte (1990), l'acclamato Il ladro di bambini
(1992) e Lamerica (1994). Con Così ridevano si aggiudica
nel 1998 il Leone d'Oro a Venezia.
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LA
TERRA DELL'ABBONDANZA
Regia: Wim Wenders. Soggetto: Scott Derrickson, W.
Wenders. Sceneggiatura: Michael Meredith, W. Wenders. Fotografia:
Franz Lustig. Scenografia: Nathan Amondson. Musica:
Nackt, Thom. Montaggio: Moritz Laube. Interpreti:
Michelle Williams, John Diehl, Shaun Toub, Wendell Pierce. Produzione:
Emotion Pictures, InDigEnt, Reverse Angle International. Tit.
originale: Land of Plenty. Origine: USA/Germania
2004. Durata: 114'.
Buona
notizia. Il Wenders di La terra dell'abbondanza non è quello
dei suoi lontani tempi migliori, ma non è neppure quello noioso
degli ultimi tempi, guru e predicatore. È un Wenders inaspettato,
con una visione particolare e personale dell'America: che non è
la biblica terra della pienezza dove scorrono latte e miele. Il
titolo del film è figura retorica di inversione e antitesi. Nell'America
di Downtown Los Angeles, con i poveracci senza casa che dormono
sotto i cartoni sui marciapiedi, si incontrano l'invasato e il paranoico
Paul e l'idealista e umanitaria Lena. Il film sta in questo triangolo:
una città abitata dagli ultimi degli umiliati, un veterano del Vietnam
che continua a condurre la sua guerra contro nemici che stanno dappertutto
e complottano contro la libertà del suo Paese, una giovane donna
che ha vissuto in Africa e in Medio Oriente e che adesso, tornata
in patria, vuole dedicarsi ai dannati della sua terra. I due sono
zio e nipote, non si conoscono, cominciano a sfiorarsi, si trovano
insieme a scoprire cosa c'è dietro l'omicidio di un povero pakistano.
E dietro non c'è il complotto mondiale che Paul sospetta. C'è soltanto
il naufragio casuale di una vita oscura e sfortunata come tante.
Wenders si ritrae, lavora su personaggi e luoghi, stringe il quadro,
fa dell'America del dopo 11 settembre il Paese dell'angosciante
attesa di una nuova catastrofe, terra di povertà, di isolamento
paranoico e di slanci ideali. Di città spettrali con una Missione
come ancoraggio provvisorio e di un deserto con un'altrettanto fantomatica
cittadina, quattro baracche, dove le storie finiscono per dissolversi,
dove Paul e Lena cominciano a ritrovarsi prima di partire in pellegrinaggio
verso Ground Zero. Dice Paul che quel buco nero nel cuore dell'America
se lo immaginava più grande. Lena gli chiede di ascoltare il silenzio.
E Leonard Cohen canta la "title song". Niente prediche. Ripartire
dal poco. Affezionarsi a un'immagine vibrante, come quella di un
colibrì magicamente sospeso nell'aria.
Bruno
Fornara
Wim Wenders nasce a Düsseldorf
nel 1945. Dopo aver frequentato la Academy of Film and Television
di Monaco, dal 1968 al 1972 lavora come critico cinematografico
per Filmkritk e Suddeutsche Zeitung. Tra gli oltre quaranta film,
cortometraggi e film per la tv da lui diretti si segnalano: Alice
nelle città (1974), Nel corso del tempo (1976), Paris,
Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (1987), Fino
alla fine del mondo (1991), Lisbon Story (1994), The
Million Dollar Hotel (2000), L'anima di un uomo (2003).
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HOTEL
RWANDA
Regia: Terry George. Sceneggiatura: T. George, Keir
Pearson. Fotografia: Robert Fraisse. Scenografia:
Johnny Breedt, Tony Burrough. Musica: Jerry Duplessis, Rupert
Gregson-Williams, Andrea Guerra, Martin Russell. Montaggio:
Naomi Geraghty. Interpreti: Don Cheadle, Sophie Okonedo,
Nick Nolte, Joaquin Phoenix. Produzione: Kigali Releasing
Limited, Industrial Development Corporation of South Africa, Inside
Track Films, Lions Gate Films Inc., Mikado Film S.r.l., Miracle
Pictures, United Artists. Tit. originale: id. Origine:
Canada/GB/Italia/Sudafrica 2004. Durata: 121'.
Il
Ruanda è un paese dell'Africa centrale, che da colonia tedesca diventò
protettorato belga dopo la prima guerra. Alimentata dai colonizzatori
europei in chiave di "divide et impera", la contesa fra le etnie
locali degenerò nell'aprile 1994 in un genocidio nel corso del quale
gli Hutu massacrarono a colpi di machete quasi un milione di appartenenti
alla tribù Tutsi. Di tale orrore l'Occidente, che in altre recenti
occasioni si è mobilitato per molto meno, non prese in pratica atto.
A riportare all'attenzione quella tragedia arriva oggi un film di
esemplare impatto civile e spettacolare, Hotel Rwanda di
Terry George, che ha al centro Paul Rusesabagina, all'epoca direttore
di un albergo di Kingali nel quale trovarono scampo mille perseguitati.
Impersona questo Schindler africano l'attore Don Cheadle, giustamente
candidato a un Oscar che meritava di vincere; e ne fa il classico
uomo tranquillo che scopre in sé inaspettate risorse, contrapponendo
al caos una coscienza vigile e un coraggio a tutta prova. Hutu sposato
a una Tutsi, Paul crede nella civiltà: ha studiato in Europa, conosce
le lingue, è vestito in modo inappuntabile e sa essere discreto,
ma quando comincia la carneficina, e con la sua stessa famiglia
in pericolo, il suo mondo di sicurezze va a pezzi. A proteggere
i Tutsi rifugiati nell'albergo ci sarebbero i caschi blu dell'ONU
comandati da un animoso ufficiale canadese, che però ha
l'ordine (assurdo, vista la situazione) di non sparare. E tuttavia,
continuando a operare in un'apparenza di normalità mentre montano
il disordine e la violenza, Paul riesce in un'impresa che pareva
impossibile.
Il film ripercorre gli eventi mantenendo il più possibile l'orrore
fuori scena, senza patetismi né ricercatezze, ma ad accapponare
la pelle basterebbe la notizia che i ribelli massacrano i bambini
negli asili per cancellare la razza. Di fronte a questo referto
semplice e teso, l'emozione prende alla gola; e si vorrebbe che
diventasse una regola universale l'affermazione finale di Rusesabagina.
Il quale avendo riempito l'albergo ben oltre il limite della capienza,
sostiene che "c'è sempre posto" per salvare chi è in pericolo.
Lietta
Tornabuoni
Terry
George, originario dell'Irlanda del Nord, dopo esser
stato incarcerato per motivi politici negli anni Settanta nel 1993
collabora alla sceneggiatura di Nel nome del padre di Jim
Sheridan. Tre anni dopo scrive e dirige Una scelta d'amore,
che si aggiudica prestigiosi premi internazionali, collaborando
in seguito alla sceneggiatura di The Boxer (1997). Reduce
da alcuni progetti televisivi e dalla sceneggiatura per Sotto
corte marziale (2002), torna alla regia con Hotel Rwanda,
candidato a tre premi Oscar.
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LA
STELLA DI LAURA
Regia:
Piet De Rycker, Thilo Rothkirch. Soggetto: P. De Rycker,
Alexander Lindner, Michael Mädel, dal romanzo omonimo di Klaus Baumgart.
Sceneggiatura: Rolf Giesen. Scenografia: Man Arenas.
Musica: Nick Glennie-Smith, Henning Lohner, Hans Zimmer.
Effetti visivi: Sebastian Hofmann, Jörn Radel, Jens Schwarz.
Produzione: Rothkirch Cartoon Film, Cartoon Filmproduktion
Berlin, MotionWorks, Comet Film, Warner Bros. GmbH, Animationsfabrik
Hamburg. Tit. originale: Lauras Stern. Origine:
Germania/Bulgaria/Belgio 2004. Durata: 75'.
Cosa
può aiutare una bambina di sette anni ad accettare il trasferimento
in una grande città, ovvero la perdita di amici, luoghi carichi
di memorie e familiari mura domestiche? Una stellina cadente che
si è spezzata una punta e le piomba sul terrazzo dove si è accampata
come gesto di rifiuto della nuova abitazione/vita è sicuramente
un segno dal cielo, carico d'inattesa avventura, che tutti i bambini
vorrebbero ricevere per risollevarsi. Così nasce la fiaba tratta
dal libro illustrato di Klaus Baumgart, venduto in oltre 2 milioni
di copie in tutto il mondo e tradotto in 25 lingue. E questa trasposizione
libro-film è un cartoon del nord Europa sul quale spira un dolce
e caldo alito di vento, che accarezza morbide forme e carezzevoli
cromatismi pastello lontani parecchi colpi di pennello (e di mouse)
dall'animazione disneyana, spielberghiana, pixariana e del Sol Levante.
Tutto nel segno di una semplicità non scevra da qualche stilla di
magici, incantati momenti condensati ad esempio in alcune zampate
registiche: la ripresa aerea di Laura che aggrappata alla stellina
sorvola la città "universale" (plasmata dagli animatori con un accattivante
look centro-europeista) per riportare alla madre concertista l'amato
archetto o i movimenti che avvicinano Laura disperata per la perdita
dell'"amica stellare" e il piccolo vicino di casa Max, che ha recuperato
la punta "scollatasi". Altri aspetti positivi che concorrono al
buon risultato globale sono l'intuitiva emotività della musica del
premio Oscar Hans Zimmer e il doppiaggio che ben aderisce alla delicatezza
dell'operazione e contribuisce non poco alla piacevolezza della
visione.
Una delicatezza e un'economia di mezzi che richiamano in qualche
modo (anche se in chiave minore) un grande film d'animazione quale
Il gigante di ferro. E la bontà della pellicola ben si soppesa
se si pensa alla sana leggerezza con la quale scivolano via gli
80 minuti di proiezione. Non pochi davvero per un prodotto d'animazione.
Andrea
Ravagli
Piet
De Rycker esordisce nel cinema nel 2001, come regista
e sceneggiatore del film d'animazione Der Kleine Eisbär,
inedito in Italia. La stella di Laura è la sua seconda regia.
Thilo
Rothkirch nel 1999 scrive, produce e dirige il film d'animazione
Tobias Totz und sein Löwe, inedito in Italia. Co-dirige Der
Kleine Eisbär (2001), firmando nel biennio successivo una serie
di avventure televisive con gli stessi personaggi. La stella
di Laura è il suo terzo lungometraggio.
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LAVORARE CON LENTEZZA
Regia:
Guido Chiesa. Soggetto, sceneggiatura: G. Chiesa, Wu
Ming. Fotografia: Gherardo Gossi. Scenografia: Sonia
Peng. Musica: Teho Teardo. Montaggio: Luca Gasparini.
Interpreti: Tommaso Ramenghi, Marco Luisi, Claudia Pandolfi,
Valerio Mastandrea. Produzione: Domenico Procacci per Fandango,
Medusa Film, Les Films des Tournelles, Roissy Film. Origine:
Italia 2004. Durata: 111'.
Lavorare con lentezza è uno straordinario scandaglio gettato
nelle acque limacciose del nostro presente: in un'Italia che ha
un premier "operaio", una classe dirigente che si riempie la bocca
con parole come "impresa" e "flessibilità", ma che al tempo stesso
propone modelli spettacolari e mediatici assolutamente beceri, Guido
Chiesa ci costringe a ragionare sul concetto stesso di lavoro e
di produttività. I suoi personaggi sono o ragazzi che non vogliono
il "posto fisso" caro ai loro padri, o altri ragazzi che concepiscono
il lavoro come missione sociale o come mezzo di espressione creativa.
I primi sono Squalo e Pelo, i due sottoproletari bolognesi che preferiscono
scavare un tunnel per una rapina in banca piuttosto che andare in
fabbrica; i secondi sono i fricchettoni di Radio Alice, o la giovane
avvocata Marta che alla carriera preferisce le cause perse, come
il difendere gli sfigati contro i potenti. Già un'aspirante avvocata
che sta con uno di Radio Alice è una stranezza. Se poi aggiungiamo
che il suo "cliente" è uno dei suddetti sottoproletari, uno che
con la legge non ha davvero un gran feeling… Sullo sfondo, ma nemmeno
tanto, ci sono i carabinieri: che oggi, nella suddetta Italia, sono
un "mito" intoccabile, ma allora erano i "caramba" che, come i "celerini"
e la "pula", rappresentavano l'ordine, anche violento. Nel film
li comanda il tenente Lippolis, ma l'idea più strepitosa di Chiesa
e dei Wu Ming (il collettivo bolognese di scrittura che ha collaborato
alla sceneggiatura) è il povero sbirro che deve ascoltare Radio
Alice tutto il giorno per controllarla, e finisce per diventarne
un fan. L'ultima parola del film spetta a lui: la radio è stata
evacuata (è il fatidico 12 marzo 1977) e lui, lasciato solo a fare
il piantone, impugna il microfono e grida nell'etere "anche i carabinieri
devono lavorare meno".
Speriamo che qualcuno lo ascolti. Almeno, ascoltatelo voi: andate
a vedere Lavorare con lentezza, è un film mao-dadaista (definizione
del regista) pieno di cose, di trovate, di idee e di splendida musica.
In più, nonostante parli del '77, cioè di un anno in cui Chiesa
era un ragazzino, è un film anti-nostalgico, ironico, beffardo,
non flessibile, non imprenditoriale, non velinaro. È un film contro
ogni logica aziendale. Avercene.
Alberto
Crespi
Guido
Chiesa nasce a Torino nel 1959. Dopo aver trascorso alcuni
anni negli Stati Uniti lavorando accanto a registi affermati come
Jarmusch e Cimino, dirigendo cortometraggi e scrivendo saggi e articoli
di argomento musicale e cinematografico, nel 1992 esordisce con
Il caso Martello. Documentarista molto attivo e apprezzato
a livello internazionale, firma inoltre i film di finzione Babylon
(1994) e Il partigiano Johnny (2000).
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PROFONDO BLU
Regia: Andy Byatt, Alastair Fothergill. Sceneggiatura:
A. Byatt, A. Fothergill, T. Ecott. Fotografia: Rick Rosenthal,
Doug Allan, Peter Scoones. Musica: George Fenton. Montaggio:
Martin Elsbury. Produzione: BBC Worldwide, Greenlight
Media AG. Tit. originale: Deep Blue. Origine:
GB/Germania 2003. Durata: 83'.
La
domanda di cinema documentario sta aumentando. Non ne sono prova
soltanto gli exploit della nuova onda politica americana, ma anche
l'enorme successo riscosso dalle opere naturalistiche legate al
nome dell'attore-produttore Jacques Perrin, come Microcosmos
e Il popolo migratore. Sulla stessa lunghezza d'onda si muove
anche Profondo blu che la società di distribuzione italiana
Lucky Red manda nelle sale con un vasto accompagnamento di iniziative
collegate all'acquario di Genova piuttosto che a Legambiente. Se
l'irriverente Wes Anderson con il suo Le avventure acquatiche
di Steve Zissou canzonava il modello di documentarista-esploratore
del comandante Cousteau, la specializzatissima troupe della Bbc
che ha girato in trentaquattro location diverse quest'opera di altissima
qualità, tecnica ma anche artistica, perseguiva evidentemente scopi
diversi. Quello di raccontare che cosa succede in quasi due terzi
del pianeta, quel 70 per cento di superficie terrestre fatta di
acqua.
Mostrare la bellezza remota e incontaminata della vita che vi si
svolge ma anche la ferocia della lotta per la sopravvivenza (quando
le orche catturano un cucciolo di balena). Dare il senso concreto
di un patrimonio da proteggere e preservare. È naturalmente in primo
luogo un oggetto destinato a un pubblico molto motivato e appassionato,
e in secondo luogo uno strumento didattico. Ma può anche essere,
per tutti, una festa degli occhi.
Paolo
D'Agostini
Finalmente
nelle sale italiane il film documentario che ha raccolto il plauso
di critica e platea all'edizione 2004 del Festival di San Sebastian.
Due veterani del cinema a servizio della documentazione scientifica,
con alle spalle una superproduzione da 15 milioni di dollari (20
squadre di operatori, 7.000 ore di pellicola, oltre 200 location
in tutto il mondo per 5 anni di lavoro), realizzano per BBC Natural
History Unit un prodotto magnificente, curatissimo nei particolari,
rigoroso dal punto di vista scientifico e, allo stesso tempo, stupefacente
e artisticamente valido. Ardite riprese aeree, copter-cam, ampissime
panoramiche si alternano a primi e primissimi piani da pochi metri
sotto il pelo dell'acqua al ragguardevole traguardo dei "meno 5.000",
la cui realizzazione è qui tanto più ardita quanto sfuggente è la
natura e l'indole dei protagonisti a cui si aggiunge la difficoltà
di riprendere in condizioni di movimento continuo.
Alberto
Piastrellini
Andy
Byatt lavora come produttore e regista televisivo per
la BBC. Profondo blu è la sua opera prima.
Alastair
Fothergill lavora come produttore televisivo per la BBC,
della quale ha diretto per un periodo la sezione dedicata alla Storia
Naturale. Profondo blu segna il suo esordio nella regia.
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NOWHERE
IN AFRICA
Regia,
sceneggiatura: Caroline Link. Soggetto: dal romanzo di
Stefanie Zweig. Fotografia: Gernot Roll. Scenografia:
Susann Bieling, Uwe Szielasko. Musica: Niki Reiser, Jochen
Schmidt-Hambrock. Montaggio: Patricia Rommel. Interpreti:
Karoline Eckertz, Juliane Köhler, Merab Ninidze, Lea Kurka.
Produzione: Bavaria Film, Constantin Film Produktion GmbH,
MTM Cineteve, Media Cooperation One GmbH. Tit. originale:
Nirgendwo in Afrika. Origine: Germania 2001. Durata:
140'.
Premiato
nel 2003 con l'Oscar come miglior film straniero, Nowhere in
Africa è un interessante tentativo di raccontare l'Olocausto
da una visuale defilata e inconsueta. All'inizio degli anni '30,
con il manifestarsi della persecuzione razziale, una coppia di ebrei
tedeschi si trasferisce in Kenya con la figlioletta Regina dove
mettono su una fattoria. Gli echi della situazione europea fanno
da sfondo al confronto con una nuova realtà non priva di incomprensioni
e solo lo sguardo puro e scevro da sovrastrutture di Regina inizia
a costruire un ponte nei confronti dell'altro da sé, tramite l'indigeno
Owuor. La perdita del concetto di patria e il razzismo a ogni latitudine
sono i protagonisti di questo film di Caroline Link che si ispira
al romanzo autobiografico della scrittrice ebrea Stefanie Zweig.
Fabrizio
Liberti
Due
ore e poco più - due sole ore - per comunicare l'inesprimibile sensazione
di trovarsi senza radici, senza terra, senza Heimat. Un tempo
brevissimo, per raccontare l'esperienza realmente vissuta da una
scrittrice ebrea tedesca, emigrata in Kenya assieme alla propria
famiglia nei primi anni '30 quando, ancora bambina, nella Germania
nazista la pressione sulle comunità ebraiche iniziava a farsi insostenibile.
Due ore per dare forma compatta ad un racconto fatto di terra, di
suoni, di foglie e di cieli, di paura e di nostalgie. Materiali
pericolosi. Quattro i personaggi principali: una bambina espiantata
dalla propria infanzia; i suoi genitori, uniti da un amore ondivago,
perplesso, bisognoso di ruoli certi e conosciuti, una fiamma incerta
esposta al vento del nazismo; infine l'Africa, per una volta non
sfondo oleografico su cui proiettare rimorsi occidentali di coscienza,
ma sublimata in una persona di carne e di ossa, un Mentore nero
con l'inesauribile compito di guidare lo scambio tra la cultura
indigena e la sovrastrutturata civiltà occidentale. La Link parla
dell'Olocausto senza nominarlo, fa esplodere le bombe della Seconda
Guerra Mondiale nel silenzio più assoluto, descrive le pene di un
amore difficile senza registrarne neanche un gemito, rappresenta
gli abissi che dividono nord e sud del mondo escludendo le derive
del giornalismo d'attualità, tratta sottovoce del concetto di patria
tenendolo al riparo da roboanti affermazioni di virile ardimento,
trasmette l'inestinguibile vocazione dei giovani al cambiamento
senza urla né tensioni: semplicemente sottraendo il superfluo.
Umberto
Martino
Caroline
Link nasce a Bad Nauheim (Germania) nel 1964. Tra la
fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta lavora come
regista televisiva, firmando nel frattempo alcuni corti e documentari.
Nel 1996 scrive e dirige Al di là del silenzio - Beyond Silence,
seguito due anni dopo da Pünktchen und Anton, trasposizione
inedita in Italia di un romanzo di Erich Kästner. Con Nowhere
in Africa si aggiudica nel 2003 l'Oscar per il miglior film
straniero.
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MILLION DOLLAR BABY
Regia,
musica: Clint Eastwood. Soggetto: dai racconti di F.X.
Toole. Sceneggiatura: Paul Haggis. Fotografia: Tom
Stern. Scenografia: Henry Bumstead. Montaggio: Joel
Cox. Interpreti: C. Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman,
Jay Baruchel. Produzione: Warner Bros., Lakeshore Entertainment,
Malpaso Productions, Albert S. Ruddy Productions. Tit. originale:
id. Origine: USA 2004. Durata: 132'.
Che
grande, struggente, magnifico film è Million Dollar Baby.
Negli Usa ha incassato poco e i moralisti gli hanno lanciato contro
una campagna per un tema - l'eutanasia - che va bene quando se ne
occupano gli altri (Mare dentro è in gara come migliore film
straniero), molto meno se la produzione è americana. Però a Eastwood,
che è un moralista vero, non interessa affatto fare un film a tesi:
dall'interno di una squallida palestra di boxe, ci racconta una
storia di solitudine e affetti, di conti col passato, di rispetto
di se stessi; roba fuori moda, ma che è anche l'unica a contare
davvero. Il vecchio allenatore Frankie Gunn ne sa qualcosa. Scrive
lettere a una figlia che non risponde mai, discute col prete sul
senso delle cose, legge Yeats e ha un solo amico: l'inserviente
del club, un anziano monocolo (Freeman) che presta la voce narrante
al film. In questo iperrealistico universo di "perdenti" entra Maggie
(Swank), che fa la cameriera e vuole tirare di boxe. Motivata dal
sogno impossibile di farsi amare dalla sua ripugnante famiglia d'origine,
la donna vince le riluttanze di Frankie, si rivela dotatissima e
intraprende un'irresistibile ascesa nel campionato femminile di
boxe.
Finché il Fato non interviene, con tutta la sua crudeltà, a spezzare
la storia d'amore tra i due. Perché, dal racconto di F.X. Toole,
Eastwood ha tratto a tutti gli effetti una storia d'amore: non nel
senso materiale inteso dalla volgare madre di Maggie; di paternità
vicaria, se si preferisce; d'amore comunque, come unico, ancorché
effimero, lenitivo alla solitudine e al nonsenso.
Clint ci parla di gente vera, che non cerca un posto al sole ma
si accontenterebbe di un posto nel mondo. Un'autentica lezione d'economia
poetica, dove la macchina da presa (degna di John Ford) indugia
su quel che vuole mostrare esattamente per il tempo necessario;
non un istante di più. Del personaggio di Frankie, basta dire che
non poteva interpretarlo altri che Clint; Freeman è la migliore
delle spalle. Quanto a Swank, se non le danno l'Oscar siamo già
pronti alla protesta civile.
Roberto
Nepoti
Clint
Eastwood nasce a San Francisco nel 1930. Attore, produttore,
regista e autore di colonne sonore, inizia la propria carriera nel
1955. Passa dietro la macchina da presa con Brivido nella notte
(1971), seguito da Lo straniero senza nome (1973). Tra i
venticinque lungometraggi da lui diretti si segnalano: Il cavaliere
pallido (1985), Bird (1988), Gli spietati (1992),
Un mondo perfetto (1993), Mystic River (2003). Million
Dollar Baby ha vinto quattro premi Oscar nel 2005.
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SOGNANDO BECKHAM
Regia: Gurinder Chadha. Sceneggiatura: G. Chadha,
Paul Mayeda Berges, Guljit Bindra. Fotografia: Jong Lin.
Scenografia: Nick Ellis. Musica: Craig Pruess, Bally
Sagoo, Gregg Alexander, Curtis Mayfield. Montaggio: Justin
Krish. Interpreti: Parminder K. Nagra, Keira Knightley, Jonathan
Rhys-Meyers, Anupam Kher. Produzione: Bend It Films, British
Screen Productions, Film Council, Helkon Media AG, Kintop Pictures,
Road Movies Filmproduktion. Tit. originale: Bend It Like
Beckham. Origine: GB/Germania 2002. Durata: 112'.
In
Italia il calcio si sta allontanando alla velocità della luce da
una dimensione di pura passione sportiva e, nonostante sia lo sport
nazionale, solo in rari casi il cinema vi si è avvicinato, con diffidenza
e scarsi risultati. Ben diversa è la situazione nel Regno Unito,
dove il calcio è ancora visto come un gioco e un sano divertimento.
Sognando Beckham è forse un film furbo, fatto proprio per
piacere, ma nel quale si percepisce un'etica dello sport che da
noi non esiste più. Non si può quindi non trepidare e tifare per
Jesminder detta Jess, una ragazza di origini indiane pazza per Beckham
e per il calcio. Una passione che la porta a sgattaiolare di nascosto
al campo di allenamento, sfidando le punizioni di una famiglia legata
a riti e consuetudini ancestrali che non lasciano spazio alcuno
a quello strano gioco. La vita di Jess, le amicizie e gli amori,
scorrono al ritmo di dribbling e palleggi, delineando il ritratto
di una generazione e di una comunità chiusa in se stessa. In un
finale sorprendente per ritmo e soluzioni narrative, Jess dovrà
scegliere tra il pallone e la sua famiglia e allo spettatore lasciamo
il gusto di scoprire come finirà. Sognando Beckham è un delizioso
puzzle che mescola la passione per il calcio e la commedia etnica
alla East Is East, trovando un mix calibrato e mai banale.
Fabrizio
Liberti
La
ricetta per un film di successo sembra alla portata di molti: una
regia moderna e scattante, un gruppo di protagonisti giovane e professionale,
uno stuolo di comprimari dalla comicità irresistibile, una sceneggiatura
di ferro, una colonna sonora coinvolgente. Sognando Beckham
questi elementi li possiede tutti, ma con qualcosa in più. Gurinder
Chadha sa miscelare sapientemente ogni componente, facendo sì che
nessuna di esse prevalga sulle altre: se da un lato il film risulta
girato ottimamente e con gran senso del ritmo, non meno importante
è l'apporto fornito da un cast al meglio di sé, così come imprescindibile
è il contributo della colonna sonora, costituita da una serie di
hit di successo. Ma ciò che distingue questo film dalle altre commedie
brillanti è la capacità con cui affronta tematiche difficili, come
l'integrazione razziale, lo scardinamento dei pregiudizi e, soprattutto,
lo scontro generazionale tra genitori e figli. La regista, con grande
maestria, aggira ogni facile schematismo.
Simone
Carletti
Gurinder
Chadha, nata in Kenya da genitori indiani, si trasferisce
in Gran Bretagna e lavora come reporter per la BBC. Il primo film,
Picnic sulla spiaggia (1993), ottiene diversi riconoscimenti
internazionali tra cui il Premio della giuria al Festival di Locarno.
Dopo una nomination al BAFTA come Miglior esordiente del Cinema
inglese, dirige What's Cooking? (2000) e Sognando Beckham,
gran successo di pubblico. Il suo ultimo film è Matrimoni e pregiudizi
(2004).
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ALLA
LUCE DEL SOLE
Regia, soggetto: Roberto Faenza. Sceneggiatura: R.
Faenza, Gianni Arduini, Giacomo Maia, Dino Gentili, Filippo Gentili,
Cristiana Del Bello. Fotografia: Italo Petriccione. Scenografia:
Davide Bassan. Musica: Andrea Guerra. Montaggio: Massimo
Fiocchi. Interpreti: Luca Zingaretti, Alessia Goria, Corrado
Fortuna, Giovanna Bozzolo. Produzione: Elda Ferri per Jean
Vigo Italia. Origine: Italia 2004. Durata: 89'.
"Rompere
le scatole", questo indica come impegno morale Don Pino Puglisi.
Per esser più chiaro, il prete salta su una scatola di cartone,
di fronte agli occhi sorpresi dei suoi allievi. Bisogna conoscere,
spiega, bisogna capire e poi, se lo si ritiene giusto, bisogna saper
dire di no. Siamo in una scuola di Palermo, nel '92. Ancora vivono
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Presto, il 23 maggio e il 19
luglio, i due magistrati saranno ammazzati perché smettano di romperle,
le scatole. E perché tanti altri non osino più dire di no. Dopo
di loro, il 15 settembre del 1993, la mafia ammazzerà anche il parroco
della comunità di San Gaetano. Non racconta una storia "edificante",
Alla luce del sole. Roberto Faenza e Luca Zingaretti non
fanno di Don Puglisi un eroe. Del resto, quella dell'eroe è una
retorica del consenso, poco interessata alla "rottura di scatole".
Soprattutto, poi, il prete del quartiere Brancaccio è troppo preoccupato
della vita dei ragazzini che toglie dalla strada, sottraendoli alla
mafia, per pensare alla morte - alla propria morte - come a un valore
appunto eroico. Valori per lui sono invece la dignità, il rispetto
di sé e degli altri, la condivisione critica e consapevole di regole
civili, l'assunzione aperta di responsabilità, la concreta e orgogliosa
pretesa di diritti. Su ben altri e ben tristi valori si apre il
film di Faenza. Con una passività già diventata abitudine, con una
sconcia disponibilità di ragazzini che si prestano a far da piccola
manovalanza per i combattimenti clandestini fra cani. Senza rispetto
per la vita e senza rispetto per sé, imparano a considerare naturali
la subordinazione, lo spettacolo della morte, la crudeltà. In cambio,
ne hanno poche migliaia di lire, da dividere fra tutti. Il prezzo
della dignità è basso, quando la miseria materiale e ancor più quella
morale si fanno cultura, autorità, e addirittura mondo. Insomma,
si preparano a diventare mafiosi, quei ragazzini. Si preparano a
considerare ovvio che gli uomini si dividano tra i molti che camminano
tenendo lo sguardo chino, e i pochi che li costringono a farlo.
Pare che la vita a Brancaccio nel 1993 - e altrove, e in altri anni
- regga su questa temibile ovvietà. Alla luce del sole non
lo nasconde. Anche a costo di rompere le scatole, appunto, Faenza
mostra le connivenze indirette, le complicità aperte, la collusione
tra politica e mafia, tra finanza e mafia, tra senso comune e mafia.
Roberto
Escobar
Roberto Faenza
nasce a Torino nel 1943. Regista, scrittore e professore universitario,
nel 1965 si diploma in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia
e firma tre anni dopo Escalation, seguito da H2S (1969).
Torna al cinema dopo una lunga assenza con Si salvi chi vuole
(1980) e Copkiller (1983). Tra i suoi film più recenti
si segnalano: Jona che visse nella balena (1994), Sostiene
Pereira (1996), Marianna Ucrìa (1997) e Prendimi l'anima
(2002).
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LES
CHORISTES - I RAGAZZI DEL CORO
Regia: Christophe Barratier. Soggetto: C. Barratier,
dal film La gabbia degli usignoli di Jean Dréville. Sceneggiatura:
C. Barratier, Philippe Lopes-Curval. Fotografia: Jean-Jacques
Bouhon, Dominique Gentil, Carlo Varini. Scenografia: François
Chauvaud. Musica: C. Barratier, Bruno Coulais, Jean-Philippe
Rameau. Montaggio: Yves Deschamps. Interpreti: Gérard
Jugnot, François Berléand, Jean-Baptiste Maunier, Maxence Perrin.
Produzione: Galatée Films, Novo Arturo Films, Vega Film AG,
CP Medien AG, France 2 Cinéma, Pathé Renn Productions. Tit. originale:
Les choristes. Origine: Francia/Svizzera/Germania
2004. Durata: 95'.
Non capita a tutti di debuttare con un film che totalizza otto milioni
di spettatori in patria, come è accaduto a Christophe Barratier,
regista e sceneggiatore di Les Choristes, l'opera prescelta
dai francesi per rappresentarli nella gara dell'Oscar per il miglior
film straniero. E pensare che l'esordiente, di formazione chitarrista
classico e da sempre innamorato del vecchio cinema parigino, si
è ispirato a La gabbia degli usignoli di Jean Dréville, una
pellicola del 1944 definita nella "Guide des films" di Jean Poulard
"un peu demodé". Mentre evidentemente si tratta di una storia semplice,
che può incontrare i favori di un pubblico vasto ed eterogeneo.
Nel 1949 un professore di musica, Clement Mathieu, viene assunto
come sorvegliante in un istituto di rieducazione per minori. La
durezza della vita nel triste, decadente edificio, dove sotto la
conduzione di un rigido direttore si risparmia su tutto, dal cibo
al riscaldamento, ha reso gli allievi ancor più difficili e ribelli.
Ma Mathieu ha un tipo di approccio diverso, basato sulla comprensione
e sulla tolleranza, sa che quei ragazzini sono usciti vulnerati
da una terribile guerra e da condizioni familiari precarie e tenta
di aiutarli con la disciplina dolce e coinvolgente del canto. Coloro
che hanno fatto parte di un coro conoscono la magia di sentirsi
amalgamati nell'armonia superiore della musica e fra i piccoli sbandati
c'è il selvatico Pierre dalla voce d'angelo che sull'esperienza
riuscirà a costruirsi un luminoso futuro da direttore d'orchestra.
La cornice del presente, in cui Pierre ormai maturo e famoso (un
cameo di Jacques Perrin, produttore del film e parente del regista)
e un altro ex allievo ricordano il passato, è ovvia e pleonastica.
Ma nell'insieme Les Choristes pur tutto prevedibile negli
snodi narrativi, si muove con grazia ed equilibrio tra dramma e
commedia. I giovanissimi interpreti, presi dalla vita, sono accattivanti
a partire dal piccolo solista di Lione Jean-Baptiste Maunier. E
molto si deve all'interpretazione di Gérard Jugnot, il quale ritaglia
sul filo di una sensibilità mai sdolcinata e di uno stilizzato umorismo
una bella figura di insegnante che senza nulla pretendere molto
sa dare.
Alessandra
Levantesi
Christophe
Barratier nasce nel 1963 in una famiglia di attori teatrali
e intraprende giovanissimo studi in ambito musicale, cantando in
un coro e frequentando il Conservatorio di Parigi. Nel 1996 esordisce
come produttore, passando dietro la macchina da presa nel 2002 con
il corto Les tombales. Les Choristes, da lui scritto,
diretto e per il quale compone la colonna sonora, è il suo film
d'esordio.
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IL MIRACOLO DI BERNA
Regia: Sönke Wortmann. Sceneggiatura: S. Wortmann,
Rochus Hahn. Fotografia: Tom Fährmann. Scenografia:
Uli Hanisch. Musica: Marcel Barsotti. Montaggio: Ueli
Christen. Interpreti: Louis Klamroth, Peter Lohmeyer, Johanna
Gastdorf, Sascha Göpel. Produzione: Little Shark Entertainment
GmbH, Senator Film Produktion GmbH, Seven Pictures. Tit. originale:
Das Wunder von Bern. Origine: Germania 2003. Durata:
117'.
Un
buon esempio di cinema capace di coniugare intrattenimento e ricostruzione
storica viene dalla Germania. Il miracolo di Berna del titolo
non ha nulla di mistico, si riferisce bensì alla vittoria a sorpresa
della Germania dell'Ovest ai Campionati mondiali di calcio del 1954,
un trionfo che assunse i connotati della ritrovata identità nazionale
e di un sussulto di dignità per un popolo distrutto dalla guerra.
Tra i vari, ben amalgamati ingredienti del film, il calcio funge
da collante ma non predomina, mentre sono l'infanzia difficile,
gli affetti negati, la crisi del dopoguerra a rendere universalmente
compatibile l'opera.
Nella primavera del '54, la regione mineraria della Ruhr non sembra
passarsela bene, così come Christa, che gestisce un bar aiutata
dalla figlia maggiore, mentre dei figli maschi il più grande suona
in un gruppo swing e il più piccolo, Matthes, fa da assistente-mascotte
a un calciatore dell'Essen, un surrogato della figura paterna. Il
capofamiglia è infatti dato per disperso in Russia fin quando non
arriva una lettera da oltre Cortina che si suppone infausta, ma
che reca invece la notizia del suo ritorno. Per un reduce da troppo
tempo assente dal mondo civile, lo stravolgimento dei costumi è
arduo da digerire, e la sua rigidità non fa che aumentare i problemi.
L'incontro alla stazione non è proprio idilliaco, l'uomo scambia
la figlia maggiore per la moglie di un tempo e poi chiede chi sia
il figlio che non sapeva nemmeno di avere. Il reinserimento nella
società costituirà oggetto di ulteriori frustrazioni. Sarà proprio
il pallone, via di fuga per Matthes da una realtà depressa, la chiave
per il difficile avvicinamento con il padre. Arriveremo a Berna
dove si gioca la finalissima dei Mondiali, Germania - Ungheria (finì
3 a 2). Certo, a cinquant'anni di distanza i nomi di Turek, Rahn,
Morlock o Kubsch dicono molto poco, mentre è interessante notare
alcune affinità con Napoli milionaria di Eduardo. In questo
caso, tuttavia, per il reduce la percezione dei familiari e dei
relativi costumi si rivelerà distorta ed errata.
La ricostruzione d'epoca è efficace, l'autore dribbla i rischi della
retorica, con una narrazione fluida che si avvale di recitazione
e di una scenografia all'altezza.
Mario
Mazzetti
Sönke
Wortmann
nasce nel 1959 a Marl (Westfalia, Germania). Dopo alcuni cortometraggi
firma Drei D, che gli vale una nomination agli Oscar nella
categoria studenti. È del 1991 il suo debutto con Allein Unter
Frauen. Con Tutti lo vogliono (1994), adattamento dell'omonimo
fumetto di Ralf Koening, firma uno dei lungometraggi tedeschi di
maggior successo degli anni Novanta. I quattro lungometraggi successivi
sono inediti in Italia.
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QUANDO
SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI
Regia: Marco Tullio Giordana. Soggetto: dall'omonimo
romanzo di Maria Pace Ottieri. Sceneggiatura: M.T. Giordana,
Stefano Rulli, Sandro Petraglia. Fotografia: Roberto Forza.
Scenografia: Giancarlo Basili. Montaggio: Roberto
Missiroli. Interpreti: Matteo Gadola, Alessio Boni, Ester
Hazan, Vlad Alexandru Toma. Produzione: Cattleya, RaiCinema,
Babe, Once You Are Born Films. Origine: Italia/Francia/GB
2005. Durata: 115'.
Dopo l'immersione negli anni dai quali veniamo, Marco Tullio Giordana
si è fatto nuovamente aiutare da Petraglia e Rulli per raccontare
l'oggi della pressione che esercita sulla nostra vita, avendone
modificato il panorama, un numero di immigrati che ha raggiunto
il 5 per cento della popolazione. Lo hanno fatto affidandosi allo
sguardo di un bambino, privo di pregiudizi, ma lo stesso regista
è riuscito a spogliarsi di ogni pregiudizio prendendo a riferimento
il Bresciano: espressione di una mentalità che egli conosce e sente
sua per essere originario di quei luoghi, e provincia laboratorio
che più di ogni altra ha inserito il flusso migratorio nella vita
produttiva e sociale. Né razzismo né ipocrisia caritatevole ma uno
sguardo vergine (il bambino) e pragmatico (un tessuto economico
interessato alla mano d'opera). Deideologizzato. Che resta, senza
la pretesa di essere diversamente, il nostro sguardo su "gli altri"
e non viceversa.
Fedele al principio secondo cui la regia migliore è quella che non
si vede, Giordana ha dato mano libera agli attori e al piccolo Matteo
Gadola. Il suo Sandro parte in crociera con papà e amico del papà,
nuovi ricchi un po' sbruffoni. Di notte li imita nel fare pipì fuori
bordo e cade dalla barca. Straziante è la sua voce che chiede aiuto
nel buio del mare. Lo salva un ragazzo rumeno tuffandosi dalla carretta
che lo sta portando con altri disgraziati in Italia. Inizia per
Sandro un percorso di formazione: fa esperienza della legge del
più forte, ma anche dell'amicizia. Radu e la sorella Alina entrano
nella sua vita. Quando i genitori lo andranno a riprendere nel centro
di accoglienza, Sandro vuole che adottino i due giovani clandestini.
Vincono la riluttanza, sono pronti a ricambiare chi ha restituito
la vita a loro figlio. Ma è difficile tradurre la fiducia dalle
parole ai fatti, ancor più da parte di chi non ha ragione di dare
la propria con naturalezza. Dopo la delusione comincia per Sandro
un'altra vita: sarà una scena di grande intensità il punto di partenza
dal quale forse e faticosamente nascerà qualcosa di duraturo e paritario.
Giordana si è lasciato guidare da molte suggestioni, la prima è
il libro di Maria Pace Ottieri al quale ha preso il titolo ma sullo
sfondo sta anche una lettura classica. Capitani coraggiosi
di Kipling da cui vengono la caduta in mare e il salvataggio del
bambino ricco da parte di un'umanità ruvida, che gli disvela nuovi
orizzonti.
Paolo
D'Agostini
Marco
Tullio Giordana nasce a Milano nel 1950. Il suo film
d'esordio è Maledetti vi amerò (1980), premiato col Pardo
d'Oro al Festival di Locarno. Dopo La caduta degli angeli ribelli
(1981) e alcuni film collettivi e progetti televisivi, dirige
Pasolini, un delitto italiano (1995), seguito da I cento
passi (2000) e La meglio gioventù (2003), che si aggiudicano
numerosi premi e lo fanno conoscere al grande pubblico. È anche
scrittore e regista teatrale.
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UN SILENZIO PARTICOLARE
Regia,
soggetto, sceneggiatura: Stefano Rulli. Fotografia: Ugo
Adilardi. Musica: Carlo Siliotto. Montaggio: Clelio
Benevento, Lorenzo Macioce. Con: Matteo Rulli, S. Rulli,
Giara Sereni. Produzione: U. Adilardi per Paneikon Productions,
Fondazione La Città del Sole. Origine: Italia 2004. Durata:
75'.
Andrebbe
visto in parallelo con Le chiavi di casa, perché, in chiave
autobiografica, racconta lo stesso disagio di un padre di fronte
alla malattia un po' misteriosa del figlio, la medesima alternanza
di pena e felicità, di imbarazzo e accettazione. Stefano Rulli,
metà della coppia Rulli & Petraglia, ha scritto il film di Amelio
pensando anche al figlio Matteo, oggi ventiseienne, fisicamente
normale (ha un bellissimo viso) ma affetto da una grave schizofrenia.
Partendo da filmini sgranati dal tempo, il regista ricostruisce
per lo spettatore la biografia di Matteo: lui bambino, lo sguardo
inerte, a svelare problemi psichici che si aggraveranno; il rifiuto
di ogni rapporto con la madre, la scrittrice Giara Sereni; il piacere
improvviso di farsi riprendere in occasione di una festa, su nel
casale umbro "La città del Sole" che ospita ragazzi handicappati.
Ma Un silenzio particolare (il titolo allude a una frase
sospirata da Matteo in una sera di vento insistente) è anche il
diario di una famiglia "diversa", che Rulli, pudicamente, d'accordo
con il figlio, verga con la sua telecamerina digitale: cogliendo
timidi progressi e ricadute aggressive, abbracci toccanti e sfuriate
improvvise. Un film per sconfiggere "l'incomprensibile vergogna"
di una malattia dalla quale non si guarisce.
Michele
Anselmi
Stefano
Rulli è uno dei grandi sceneggiatori italiani, ha lavorato con Bellocchio
(Matti da slegare), ha scritto La Piovra e moltissime
fiction di successo. In questo suo documento privato il soggetto
è la sua vita e il difficile rapporto, che ha segnato la vita anche
della moglie, col disagio psichico del figlio: si racconta la fatica
di affrontare e credere all'utopia. Il cinema aiuta, dato che nel
particolare home video Matteo decide infine di apparire e sorridere:
all'agriturismo della fondazione Città del Sole, in ricordo di un'amica.
Un film colmo di pietà e di tenerezza, senza moralismi né retorica,
un incontro di famiglia che lascia il segno di un cinema emozionante
che restituisce con un significato aggiunto silenzi, sguardi e sorrisi.
Maurizio
Porro
Stefano
Rulli nasce
a Roma nel 1949. Tra i più apprezzati sceneggiatori italiani, a
partire dagli anni Settanta collabora a oltre trenta lungometraggi
e sceneggiati, tra i quali si segnalano: Mery per sempre (1989),
Il portaborse e Il muro di gomma, entrambi del 1991,
Il ladro di bambini (1992), Vesna va veloce (1996),
La tregua (1997), La meglio gioventù (2003). Un
silenzio particolare segna il suo ritorno alla regia dopo alcuni
film collettivi degli anni Settanta.
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POLAR EXPRESS
Regia:
Robert Zemeckis. Soggetto: dall'omonimo romanzo di Chris
Van Allsburg. Sceneggiatura: R. Zemeckis, William Broyles
Jr. Fotografia: Don Burgess, Robert Presley. Scenografia:
Rick Carter, Doug Chiang. Musica: Glen Ballard, Alan Silvestri,
Irving Berlin, Ray Evans, Felix Bernard. Montaggio: R. Orlando
Duenas, Jeremiah O'Driscoll. Effetti speciali: Michael Lantieri,
Heather McCann, Tom Pahk. Produzione: Castle Rock Entertainment,
Playtone, ImageMovers, Golden Mean, Shangri-La Entertainment, Universal
CGI, Warner Bros. Tit. originale: The Polar Express.
Origine: USA 2004. Durata: 100'.
Sistemato
dal supercritico Roger Ebert nello scaffale di classici come Il
mago di Oz e La vita è meravigliosa e stroncato da Variety
come "un ambizioso passo falso", Polar Express è una scommessa
da 170 milioni di dollari che per ora non ha trovato adeguata accoglienza
presso il pubblico d'oltreoceano. Potrebbe rifarsi sul vecchio Continente,
anche se la favoletta tratta dal libro scritto e illustrato di Chris
Van Allsburg (1985) è quanto di più americano si può immaginare.
Nella notte di Natale un bambino senza nome è svegliato da un magico
treno che si ferma davanti a casa sua, ci salta su e fra mille peripezie
arriva al Polo Nord dove ottiene da Babbo Natale un campanello della
slitta. In seguito il bimbo smarrisce il dono e paradossalmente,
tornato a casa, lo ritrova fra i pacchetti sotto l'albero. Il suono
di quel campanello, che gli adulti non percepiscono, lo accompagnerà
per tutta la vita.
Siamo dalle parti di Little Nemo, con il protagonista che
vive la sua grande avventura in pigiama, fra i dialoghetti con il
conduttore, l'incontro con un barbone fantasma sul tetto del treno,
le accelerazioni vorticose in stile montagne russe, la crosta del
lago ghiacciato che si rompe sotto il peso dei vagoni, l'invasione
dei caribù sui binari e via inventando fino all'arrivo nella capitale
del Polo Nord invasa dai nanetti che impaccano i regali. La morale
della favola riguarda infatti la necessità di conservare, finché
possibile, lo sguardo incantato e la disponibilità dei nostri figli
o nipoti. Evidentemente Tom Hanks, unico personaggio in carne e
ossa in un contesto di figure computerizzate, è fra i fortunati
che ce l'hanno fatta a restare un po' ragazzini. In questo film
da lui ideato e prodotto, questo Peter Pan del cinema dà voce e
ispirazioni mimiche a molti fra i personaggi che vi compaiono; lo
asseconda il regista Robert Zemeckis, che tra scenografie incantate
e musiche di circostanza imprime un pimpante ritmo narrativo a una
confezione di incantevole eleganza. Pur finito sotto le forche caudine
di critici che si considerano troppo adulti per certe bambinate,
Polar Express sembra il film fatto apposta per ricordare
a grandi e piccini che Natale è sempre Natale.
Tullio
Kezich
Robert Zemeckis
nasce a Chicago nel 1952. Produttore, sceneggiatore e regista, esordisce
nel 1972 con il corto The Lift. Firma complessivamente venti
lungometraggi, tra i quali si segnalano: All'inseguimento della
pietra verde (1984), la trilogia di Ritorno al futuro
(1985, 1989, 1990), Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988),
Forrest Gump (1994), Cast Away (2000).
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