Per questo mi
trovo, tra l’altro a scrivere un articolo che, come sarà chiaro in seguito, non avrei
voluto scrivere, ma che tuttavia mi sembra
necessario per offrire un contributo alla discussione.
Sono sempre stato molto critico sul processo di autonomia scolastica
realizzato negli ultimi anni e probabilmente mai davvero convinto che l’autonomia
potesse costituire un vero passo avanti nel rinnovamento della scuola italiana.
Soprattutto, mi ricordo che più volte mi trovai a sostenere che l’autonomia avrebbe
potuto assumere dei caratteri positivi solo a tre condizioni, relative al corpo docente.
Queste condizioni erano l’esistenza di un corpo docente culturalmente motivato e
professionalmente coeso, sindacalmente forte ed economicamente ben retribuito. Come è
noto, queste tre condizioni erano e sono ben lontane dal realizzarsi e proprio per questo,
a mio avviso, l’autonomia scolastica si presenta oggi come uno dei principali cavalli di
Troia di Letizia Moratti per la costruzione di un sistema scolastico classista e
privatistico. Leggendo per esempio le testimonianze di insegnanti contenute nella
monografia pubblicata da école nel gennaio 2002 (disponibile su www.scuolacomo.com/ecole), emerge un quadro
largamente negativo dell’autonomia e della sua attuazione. Potere forte dei presidi,
piani formativi aziendalistici e pubblicitari, mancanza di rapporto con il territorio sono
solo alcuni dei dati emergenti, in un quadro complessivo che testimonia forte disagio e
difficoltà. Soprattutto, assenza sostanziale degli insegnanti dalle decisioni e incapacità
dei collegi docenti di gestire alcunché di positivamente innovativo. Ecco perché questo
articolo non avrei mai voluto scriverlo, avrei preferito che le mie tristi previsioni fossero seccamente smentite. Purtroppo
invece sono confermate.
Si tratta quindi di fare un bilancio delle scelte che sono state
anche di una parte della sinistra (non dimentichiamo che l’autonomia fu realizzata dal
governo di centro-sinistra e sostenuta con convinzione dalla
Cgil e da diverse associazioni di insegnanti di sinistra), non tanto per lacerarsi sul
passato, ma per evitare di ripetere gli errori. E’ certo che la crisi della scuola e del
lavoro docente e il soffocante apparato burocratico ministeriale fecero desiderare a molti
insegnanti una via d’uscita e di
cambiamento, qualunque essa fosse, pur di smuovere delle acque troppo stagnanti.
Ma è anche vero che l’introduzione dell’autonomia scolastica, in
una situazione di debolezza progettuale e sindacale degli insegnanti, non ha fatto che
porre le scuole sul mercato, mettendole in competizione tra loro, sostituendo alla seria
riflessione sul curricolo formativo l’idea di una scuola à la carte che offrisse
in definitiva ciò che la pubblicità più becera faceva intendere ai genitori come
oggetti “moderni” e “spendibili”, con la proliferazione di progetti e progettini,
di stucchevoli quanto demagogiche iniziative sull’informatica e sull’inglese (ma ci si
è mai chiesti se le “tre i” di Berlusconi non siano uscite dai focus group di
Forza Italia sulla scuola, e quindi raccolte prontamente dal grande demagogo?). Accettare
scuole che competono tra loro, in definitiva, su basi di mercato, significa assecondare pienamente la logica della produzione capitalista
e non quella del progetto culturale.
In questo contesto, è conseguenza logica la trasformazione del lavoro dei docenti, con la
corsa ai progetti e ai progettini, alle “funzioni obiettivo” e quant’altro, che in
realtà non risponde a nessun criterio pedagogico se non a quello di creare una
stratificazione aziendalistica e produttivista del lavoro dell’insegnante. Alla capacità
del docente di costruire percorsi curricolari, relazioni, proposte significative dal punto
di vista educativo si è progressivamente preferita la sua iniziativa in direzione di
progetti appetibili al mercato, che fossero attrattivi per i “clienti” del servizio.
Inoltre, spesso i progetti e la creazione di funzioni specifiche, oltre a gerarchizzare il
lavoro, sono serviti a garantire privilegi ai docenti più vicini ai presidi, provocando lo sviluppo
di piccole aristocrazie clientelari, in cui non poco ruolo hanno giocato, in molti
casi, gli aderenti cigiellini più osservanti (che poi tutto ciò in termini economici sia
la condivisione della miseria è fatto che discuteremo in seguito).
Tutto ciò, a
mio avviso, è quanto ha significato e significa l’autonomia, che, ben lungi
dall’introdurre elementi reali di innovazione e sperimentazione, costituisce il
presupposto per la privatizzazione della scuola e
per il decadere della prospettiva di costruire una scuola
che sia proposta culturale e sociale.
L’utopia sconfitta, nutrita da una parte della sinistra è stata quella di poter “governare” il
processo di autonomia dal basso, da parte del corpo docente, ma la realtà ha dimostrato
quanto fosse velleitaria questa idea. Non credo di dire nulla di straordinariamente nuovo
se affermo che uno dei grandi errori della
sinistra degli ultimi venti anni è stato probabilmente proprio quello di sentirsi
responsabilizzata a governare processi che dovrebbero essere estranei alla sua cultura,
dalle privatizzazioni alla riforma della Costituzione, sino a scendere all’autonomia
scolastica. L’autonomia scolastica, per come fu concepita dalla gestione Berlinguer, ha
in sé un’anima privatistica e autoritaria e solo una fortissima presenza politica degli
insegnanti avrebbe potuto cambiarne il segno. Ma tale presenza evidentemente non c’è e
non potrebbe essere altrimenti data la situazione di umiliazione professionale a cui sono
costretti gli insegnanti.
Dice bene Vita Cosentino (sempre in école di gennaio) che gli
insegnanti dovrebbero fregiarsi con maggiore orgoglio della parola insegnante.
Certamente un bellissimo lavoro, forse uno dei più belli e interessanti, se svolto in
condizioni accettabili. E’ inutile ricordare quanto, negli ultimi anni, questo lavoro
sia stato offeso e vilipeso, a cominciare dalle accuse di essere dei benemeriti lazzaroni
fino a quelle di rovinare l’Italia con le baby pensioni. A questo massacro
dell’immagine dell’insegnante hanno contribuito non poco anche alcune parti della
sinistra, confederali compresi, che hanno accettato pienamente il linciaggio degli
insegnanti che avrebbero goduto di grandi privilegi a fronte di un lavoro svolto in modo
impiegatizio.
E non credo poi
che nella formazione della propria immagine professionale non incida, per gli insegnanti,
la loro condizione di povertà. Si sorvola spesso, anche sulle riviste scolastiche della sinistra, sulla condizione
economica degli insegnanti, sul fatto che il loro stipendio non consente loro un livello
di vita adeguato, quasi che trattare certi argomenti fosse
poco elegante (meglio parlare del concetto di professionalità docente, di
relazione educativa ecc.). Mi chiedo quale considerazione del proprio lavoro possa avere
un insegnante-massa che non può comperarsi
un libro costoso, che non può permettersi il biglietto di concerti e spettacoli
culturali, che ha difficoltà a spostarsi, viaggiare e aggiornarsi. La concezione non può
che essere quella di una pura sussistenza, di un faticoso bricolage
economico-professionale in cui certamente non è facile liberare la propria creatività
educativa. Credo che non sia possibile pensare a nessuna trasformazione della scuola in un
paese che umilia economicamente gli insegnanti.
Da alcuni compagni si sente affermare
che oggi non è possibile contrapporsi a “questa autonomia con la semplicistica
parola d’ordine del no all’autonomia”. Certamente oggi l’autonomia esiste ed è un
dato che, salvo rivolgimenti al momento improbabili,
irreversibile. Credo anche, tuttavia, che la china imboccata impedisca inversioni
su una possibile “autogestione” dell’autonomia. Presto, oltre ai presidi menager, ci
saranno i consigli di amministrazione, che sostituiranno i consigli d’istituto,
E’ noto che nei piani della Moratti gli insegnanti subiranno un
ulteriore forte ridimensionamento del loro potere in merito alla gestione della scuola,
avendo una presenza minoritaria in tali consigli che saranno sostanzialmente dominati dal
dirigente e dai genitori. Inoltre il collegio docenti verrà completamente svuotato di
senso nel momento in cui non sarà più, probabilmente, l’organo che stabilirà gli
orientamenti e le linee pedagogiche e didattiche dell’istituto, compito demandato,
appunto, al consiglio d’amministrazione. Il carattere privatistico della scuola
autonoma, che ha un rapporto di tipo sostanzialmente commerciale con la sua utenza sarò
infine sancito, anche simbolicamente dalla figura del “garante della qualità”, un
genitore a cui sarà demandata anche la guida del nucleo di valutazione degli insegnanti.
Tutto ciò evidentemente non può essere considerato come una serie di casualità e di
vessazioni sortite dalla testa della Moratti, ma ha fortemente a che vedere con la natura
essenziale dell’autonomia scolastica,
Tuttavia, una seria considerazione dell’abbaglio preso da parte
della sinistra potrebbe almeno evitare di
commettere nuovi errori.
Faccio un esempio. La regionalizzazione della scuola, che pure attrae
ancora molti insegnanti. L’idea che ogni regione possa stabilire parte dei programmi
scolastici e della gestione del tempo scuola è l’ennesima mostruosità in termini
scolastici . Mi chiedo se non ci si renda conto che l’esistenza di un sistema scolastico
nazionale sia stato uno dei fattori unificanti, a livello culturale, del nostro paese, peraltro di nascita piuttosto
recente. Inoltre credo che l’unitarietà dei percorsi formativi sia stata un
fattore egualitario importante tra le regioni ricche e quelle povere. Non è difficile
immaginare che la regionalizzazione dei
percorsi formativi possa rafforzare, al contrario, la tendenza all’adeguamento dei programmi e dei curricoli alle esigenze
della divisione capitalista del lavoro, attribuendo ruoli diversi alle varie regioni, eliminando condizioni di
partenza almeno in linea di principio uguali e sancendo la stratificazione professionale
dei giovani già dalla loro formazione.
Inoltre, una delle conseguenze della
regionalizzazione della scuola sarebbe quella di aprire la strada all’abolizione
del valore legale dei titoli di studio, aprendo cosi il mercato selvaggio in quanto alle
possibilità occupazionali
Credo che, nonostante le sconfitte subite, ci sia ancora lo spazio per cercare di impedire la demolizione totale del sistema scolastico nazionale. Ma credo anche che la riapertura di un’iniziativa della sinistra nella scuola non possa prescindere da una seria riflessione critica su quanto avvenuto negli ultimi anni.
Maurizio Disoteo
CUB Scuola Milano
LA SCUOLA DEL Terzo MILLENNIO
Ciò che sta vivendo la scuola da parecchi
anni a questa parte, ormai, è un cambiamento storico profondo, un netto regresso rispetto
a ciò che avrebbe dovuto essere diritto sociale acquisito: il diritto allo studio,
garantito da un sistema scolastico pubblico, laico, ugualmente presente e funzionante sul
territorio nazionale.
Ciò che oggi affrontiamo con la Riforma
Moratti, accompagnata ad hoc da accordi sindacali, legge finanziaria, uso propagandistico
o censorio dei mass media, non è altro che la continuazione di un percorso già
intrapreso dai precedenti governi, nell’ambito di un disegno politico-economico più
generale, non solo italiano quindi, secondo il quale istruzione, sanità, trasporti,
assistenza, previdenza devono essere sempre meno “servizi” sociali offerti a tutti i
cittadini e sempre più fonti di reddito privatizzate nella logica capitalistica del
mercato e delle merci.
Secondo tale logica la scuola:
- non deve essere un costo per lo Stato, ma
un business privato (legge sulla parità scolastica, buono scuola, regionalizzazione della
formazione professionale, taglio degli organici e delle retribuzioni, aumento dei carichi
di lavoro e della flessibilità);
- deve essere piegata agli interessi
dell’imprenditoria anche nell’iter formativo, avendo come obiettivo non più la
formazione della persona e del cittadino, ma del lavoratore flessibile e del consumatore
(materie e contenuti, struttura dei cicli di studi, valutazione, identificazione dei
profili formativi in base all’impiegabilità);
- deve contribuire a ridurre i costi della
forza lavoro (apprendistato gratuito degli studenti);
- non deve e non può, pertanto, essere
democratica nella gestione (ampi poteri e discrezionalità ai dirigenti scolastici, legge
sull’autonomia scolastica, precariato ad oltranza e ricattabilità dei lavoratori,
restrizione delle libertà sindacali).
Secondo tale logica il sapere ed il titolo di
studio sono merci, la scuola l’azienda che le fornisce, l’insegnamento è
l’“offerta formativa”, le famiglie i clienti, i presidi diventano i “dirigenti
scolastici”, gli studenti - avendo stipulato un “contratto formativo” - a seconda
dei risultati scolastici contraggono “debiti” o “crediti” formativi, mentre gli
insegnanti ed il personale ATA (amministrativo, tecnico, ausiliario), poiché lavoratori
dipendenti, devono produrre sempre più pagati sempre meno. Dipendenti non già dal MPI,
Ministero della Pubblica Istruzione, ma dal MIUR, Ministero dell’Istruzione, Università
e Ricerca (l’aggettivo “pubblico” è rigorosamente sparito). La terminologia non è
solo simbolica.
Chi investe i capitali nell’impresa-scuola?
Lo Stato, in altre parole noi con le nostre tasse.
Chi ne gode gli introiti? Con la legge sulla
parità scolastica anche tutta una serie di istituzioni private di varia natura, che
accanto ai fondi propri si vedono aggiudicare quote di fondi pubblici.
Nel corrente anno scolastico, il secondo in
cui vige la “parità”, l’80% delle scuole private ha ormai ottenuto il
riconoscimento del Ministero. Esse sono legate alla Chiesa, al mondo imprenditoriale, ai
sindacati di Stato, mentre i cosiddetti “diplomifici” sono vere e proprie imprese
commerciali.
Con tutti questi istituti le scuole pubbliche
si devono suddividere risorse di per sé già esigue: i 200 miliardi di lire stanziati
dalla Finanziaria si traducono in 20 milioni scarsi per ciascun istituto, un’inezia se
paragonata ai 40 miliardi destinati all’aumento degli stipendi dei dirigenti scolastici.
I buoni scuola sono un’altra fonte di
introiti: il 97% dei fondi stanziati dalle singole Regioni, secondo meccanismi diversi ma
mirati, va alle private. Il meccanismo più eclatante, ad esempio, è quello della
franchigia vigente in Lombardia: soltanto se la spesa mensile supera le 400.000 lire si ha
diritto al buono scuola, il che taglia automaticamente fuori le scuole pubbliche. Le
famiglie fungono solo da tramite verso i veri beneficiari.
Tutto questo in nome della tanto proclamata
“libertà di scelta”, ipocrita scusa per celare dietro un’immagine democratica ciò
che in realtà è appropriazione di risorse pubbliche a scopo di lucro privato. Operazione
massmediatica per far credere che una merda sia un bignè, altrimenti, chi se la
mangerebbe? Così come la guerra è un “intervento umanitario”, un bombardamento
un’“operazione chirurgica”, lo sterminio di un popolo una “muraglia difensiva” e
via dicendo...
Ma fino a quando gli imbonitori di mezzo
mondo troveranno menti disposte a credere e coscienze disposte a trangugiare?
A proposito di democrazia e delle varie
libertà, di scelta, opinione, espressione, ecc.: è da segnalare un’iniziativa
pionieristica dell’assessore all’Istruzione di Bologna (F.I.), il quale ha istituito
un numero verde tramite il quale denunciare chi a scuola parla male di Moratti o
Berlusconi, siamo ben oltre la grottesca censura dei libri di testo “non obiettivi”
perché parlano bene della Resistenza e male dei fascisti, siamo all’aperto attentato
alle libertà individuali!
Tornando al buono scuola, in realtà la
libertà di scelta delle famiglie sarà ancor più lesa. Esse, infatti, saranno orientate
secondo logiche di appartenenza sociale e culturale, mentre aumenterà la concorrenza tra
istituti per accaparrarsi utenza “pregiata” e le fasce sociali più deboli accederanno
alle scuole di serie”C”, che fungeranno un po’ da parco giochi, un po’ da
riformatori, un po’ da formazione professionale.
Chiesa Cattolica e Confindustria entrano
pesantemente nel settore dell’istruzione con un ruolo di orientamento e di potere
notevolissimi.
Esiste già una legge (mancano solo più i
regolamenti applicativi) per 14.000 insegnanti di religione selezionati dalla Curia, che
saranno immessi in ruolo attraverso un concorsino pro-forma, ovvero tout court, a fronte
di una cronica situazione di precariato dei docenti delle altre materie.
Personaggi significativi sono chiamati a far
parte della “Commissione per la deontologia professionale del personale docente” e
della “Commissione per l’applicazione della legge sulla parità tra scuola statale e
non statale”. Nella prima troviamo il Cardinale Ersilio Tonini (nominato da Letizia
Moratti nientemeno che presidente onorario), Giuseppe Savagnone (direttore del Centro
Diocesano per la pastorale della cultura e dell’Ufficio regionale per la cultura, la
scuola e l’università della Conferenza Episcopale Siciliana), Rosario Drago
(Associazione Nazionale Presidi), Emilio Brogi (A.N.), Carla Cerofilini (F.I.), Luciana
Lepri (Fondazione Nova Spes, legata alla destra sindacale). Della seconda fanno parte
Franco Garancini (“Avvenire”, organo dell’episcopato italiano), Don Guglielmo
Malizia (pedagogista dell’Università Salesiana), Enzo Meloni (presidente dell’Agesc,
associazione delle famiglie che sostengono la scuola cattolica), Franco Nembrini
(Responsabile Scuola della Compagnia delle Opere, braccio economico di Comunione e
Liberazione), Attilio Oliva (ex Responsabile Scuola della Confindustria).
La strategia di tali scelte si commenta da sé.
In ogni caso già da tempo le corporazioni
delle professioni e le imprese si adoperano per avocare a sé la gestione della scuola. La
Confindustria ha investito in ciò ingenti risorse economiche, ha organizzato convegni,
corsi di formazione per presidi manager ed insegnanti, finanziato ricerche, pubblicato
notiziari influenzando con le proprie idee ampi settori del personale scolastico. Nel
corso degli anni ha intensificato i rapporti col Ministero ed è entrata a far parte di
organismi che si occupano di specifici settori dell’istruzione. Deve pur esserci un
tornaconto…
Le vie della privatizzazione sono infinite.
Con la Riforma Moratti si profila una
profonda destrutturazione del sistema scolastico nazionale anche attraverso la
distinzione, nel ciclo superiore successivo alle medie, fra Istruzione e Formazione
Professionale e la regionalizzazione di quest’ultima.
La nobile Istruzione sarà fornita dai Licei:
classico, scientifico, linguistico, tecnologico, economico, artistico, musicale,
umanistico. La semplice Formazione, articolata nelle aree: agricola-ambientale,
tessile-sistema moda, grafica-multimediale, chimica-biologica, meccanica,
elettrica-elettronica-informatica, edile e del territorio, turistica-alberghiera,
aziendale-amministrativa, sociale-sanitaria, più eventuali aree d’interesse locale, sarà
offerta dagli attuali Istituti Professionali (non più statali, ma regionali) e da una
serie di “agenzie formative”.
Come cambierà la situazione dei docenti e
del personale ATA degli attuali Istituti Professionali Statali a tutt’oggi non è dato
sapere.
Ogni Regione, in base a scelte politiche e
risorse disponibili, potrà gestire in proprio la Formazione (come appare l’orientamento
di Emilia Romagna ed Umbria, ad esempio) o “appaltarla” in tutto o in parte ad agenzie
esterne (vedi Piemonte, Lombardia, Veneto).
Un vero affare, che rafforzerà il ceto
politico locale e le associazioni imprenditoriali.
Non a caso questo passaggio riguarda gli
Istituti Professionali, quelli in assoluto più costosi per lo Stato, per via dei
laboratori e delle attrezzature che richiedono, ma anche quelli dove la formazione è più
appetibile sul mercato. Per intenderci: un corso tecnico-pratico di fotografia,
informatica o accompagnatore turistico si vende molto meglio che uno di filosofia o
letteratura italiana. Inoltre gli studenti potranno inserire nel proprio iter
l’alternanza scuola-lavoro, quest’ultimo da svolgersi in azienda ed ovviamente non
pagato.
Ecco quindi che le imprese avranno a
disposizione manodopera gratuita mediante la quale abbattere ulteriormente i costi della
forza lavoro, sfruttabile in cambio della fornitura di competenze minime immediatamente
usufruibili ed utili in particolare a quella singola azienda.
E dato che, come auspica la legge delega, sarà
possibile continuare la formazione durante tutta la vita lavorativa, dopo l’immissione
sul mercato del lavoro eventuali ulteriori qualificazioni dipenderanno dalle imprese, che
decideranno a chi, quando, come ed a quale prezzo fornirle.
In tal modo viene oltremodo ridotta per la
scuola la possibilità di trasmettere un patrimonio di competenze più generali e di
perseguire la formazione culturale dell’individuo in quanto tale: bando ai retrogradi
romanticismi, è la produzione di forza lavoro ciò che interessa ed anche questo deve
diventare, almeno in parte, fonte di profitto.
Per un meccanismo molto simile, alcune
materie considerate fin’ora parte integrante del processo educativo e culturale
dell’individuo, come le Lingue Straniere e l’Educazione Fisica, saranno declassate a
materie opzionali, da seguire in appositi corsi pomeridiani, gestibili anche da
enti/personale esterni.
La Riforma Moratti diminuisce ulteriormente
il potere degli Organi Collegiali e ne aumenta l’accentramento nelle mani del dirigente
scolastico.
Anche in questo nulla di nuovo, ma la logica
continuazione di quanto intrapreso con la tanto decantata “autonomia scolastica”,
parola d’ordine dietro la quale si cela il progetto di trasformazione delle scuole in
aziende, con la delega di gran parte dei poteri del Ministero ai presidi, con la
distribuzione capillare del clientelismo e la violazione sistematica dei diritti dei
lavoratori, con il decentramento della contrattazione sul salario accessorio ai singoli
istituti, ovvero ai rapporti di forza ivi esistenti. Autonomia gestita attraverso
meccanismi burocratici soffocanti, logiche di potere pseudomafiose, gerarchiche, ad ampia
discrezionalità da parte dei dirigenti scolastici e della loro ristretta cerchia di
collaboratori (insulti alla democrazia ed alla trasparenza), spesso in modo inefficiente e
con obiettivi di fatto divergenti da quelli propriamente educativi e didattici.
Questo è quanto, mediamente, governa in
Italia le sorti di circa 1 milione di lavoratori (850.000 docenti e 150.000 ATA) e di
oltre 10 milioni di studenti (tra elementari, medie e superiori), rendendo quotidianamente
faticoso/impossibile ogni tentativo di effettiva autonomia ed innovazione dal basso.
La scuola pubblica è formalmente pubblica,
sostanzialmente privatizzata.
La stessa funzione docente viene trasformata,
sia sul piano professionale, come libertà di organizzare autonomamente una parte del
proprio lavoro, sia come potere di valutazione, di cui l’insegnante viene esautorato.
Sarà il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di
Formazione a predisporre verifiche sulle conoscenze ed abilità degli allievi, attraverso
“oggettivi” strumenti di rilevamento, quali i test elaborati a computer…
Nessuna riforma scolastica è mai stata
varata a partire da un’indagine obiettiva ad ampio raggio a livello nazionale, cui
abbiano potuto partecipare effettivamente tutti i protagonisti della scuola: insegnanti,
studenti, ATA, famiglie, tenendo conto delle loro problematiche ed esperienze concrete,
valorizzando le loro sperimentazioni e proposte, per un miglioramento tangibile a livello
sia di contenuti e programmi che di organizzazione.
Oltre ai politici, hanno sempre solo avuto
voce gli “esperti”, nel migliore dei casi cattedratici che nella scuola reale non
hanno mai messo piede e che coi suoi problemi quotidiani non si sono mai scontrati.
Gli “Stati Generali della Scuola”, convocati dal ministro
Moratti, sono serviti soltanto a definire una riforma già elaborata e a darne il
beneplacito. Sebbene lo stesso Consiglio dei Ministri non ne abbia poi approvato tutti i
punti, è annunciata la sua entrata in vigore a partire da settembre 2002.
Ultimo aspetto, ma non secondario, sono i
contratti dei lavoratori della scuola, che da 10 anni a questa parte non hanno fatto altro
che peggiorarne le condizioni economiche, a fronte di un aumento costante dei carichi di
lavoro e della pretesa flessibilità.
Quello del ‘94/’97 ha abolito gli
automatismi salariali, ridotto le retribuzioni per tutti ed incentivato, con i conseguenti
risparmi, il lavoro aggiuntivo.
L’ultimo è il “contratto cannibale”,
così definito dalla CUB, sindacato di base.
Secondo gli accordi firmati il 4 febbraio
2002 dai sindacati confederali, gli ATA non avranno un centesimo in più in busta paga,
mentre aumenta la possibilità di esternalizzare il loro lavoro; gli insegnanti avrebbero
un aumento (tolta l’inflazione programmata) corrispondente a mezza pizza al mese (se
l’aumento fosse equamente distribuito a tutti sullo stipendio di base).
Il succulento gruzzolo viene, infatti,
diluito nell’arco di due anni e, recita l’art. 2 dell’accordo, si deve destinare
“una quota delle risorse finanziarie all’incentivazione dell’efficienza del servizio
e della produttività”, cioè al salario accessorio, trovata che negli ultimi anni è
servita a divedere i lavoratori ed a porli gli uni contro gli altri.
L’ultima disposizione morattiana che
sfrutta tale meccanismo è quella dell’eliminazione dei cosiddetti “spezzoni”, cioè
le ore che restano in ogni scuola dopo l’assegnazione delle cattedre, dando la
possibilità agli insegnanti di ruolo di prolungare volontariamente il proprio orario di
lavoro coprendo tali “eccedenze” e sottraendo così ore ad altri colleghi (i precari
in primo luogo), che già si trovano in condizioni di assoluta debolezza.
Qui sta il cannibalismo: retribuzione in più
per alcuni in cambio di posti di lavoro in meno per altri.
Quanto esposto fin’ora rappresenta solo gli
aspetti più eclatanti del regresso in atto nella scuola italiana, senza scendere in
dettagli di contorno che non cambiano la pietanza, anzi la completano.
Di fronte
a quest’offensiva cresce e si manifesta la protesta di lavoratori e studenti, ma anche
la necessità di non frammentarla, ad esempio, in tanti scioperi diversi. Oggi più che
mai è sentita l’esigenza di unità ed è urgente la maturazione di una coscienza e di
una preparazione politica che crei solidarietà tra i lavoratori, per costruire
organizzazioni di base che aiutino a tessere reti di resistenza e, possibilmente, di
controffensiva.
Adelina Bottero
CUB Scuola Torino