di Massimo Cavallini
da Los Angeles
Howard Zinn, il celeberrimo autore della Storia del popolo americano, è vecchio quanto basta per ricordare: "Nel maggio del 1965, quando Lyndon Johnson avviò la sua politica di escalation in Vietnam - dice - il movimento per la pace si riunì per protestare proprio qui, a Boston, nella Copley Square". Ed in quell'occasione ebbe, infine, la possibilità di contare le proprie forze. Un facile compito, visto che, rammenta lo storico "dell'altra America", in quella piazza non c'erano quel giorno più di "ottanta, forse cento persone". Il 17 settembre, cinque giorni dopo gli attacchi contro il World Trade Center ed il Pentagono, il movimento è tornato a Copley Square, mentre i rumori di una nuova guerra - anzi, della "prima guerra del XXI secolo", come George W. Bush ha voluto battezzarla mentre la dichiarava - andavano riempiendo ogni anfratto del pianeta. E c'erano, questa volta, almeno 2 mila persone.
Morto il movimento pacifista? No, dice Zinn. E non solo per una questione di numeri o
di paralleli con un passato probabilmente troppo lontano e troppo diverso. Nel giorno in
cui la Copley Square si riempiva di persone e di cartelli, altre migliaia sfilavano per le
vie di Washington, San Francisco e quasi in ogni campus americano. Quello che oggi manca
rispetto agli "anni del Vietnam" - o ad altri e ben più recenti tempi - è, in
realtà, la chiarezza sul significato delle parole.
"Non è semplice - dice Zinn - riaffermare le ragioni della pace di fronte ad una
guerra che ancora non esiste (al momento di quest'intervista ancora nessun attacco
militare era stato lanciato ndr.) e che, pure, è già dovunque". Non è facile,
soprattutto, farlo in un paese dove ogni sondaggio rivela come, sull'onda dell'emozione
per l'atrocità degli attacchi, quasi il 90 per cento della popolazione sia favorevole ad
una "risposta militare". E dove - come già ai tempi del Vietnam - torna a
serpeggiare (e talora ad esplodere) un rancoroso sentimento contro tutti i "ridotti
dell'antipatriottismo". In primo luogo: le università e tutti i gruppi - quelli del
volontariato compresi, ovviamente - che negli ultimi tempi si sono in un modo o nell'altro
identificati con il movimento "no global".
Ma il movimento c'è. C'è e si muove, parla, agisce. Ottiene persino dei successi. Un
gruppo di professori e studenti della facoltà di Teologia dell'Università di Chicago ha
fatto circolare, fin dal 13 settembre, una petizione nella quale si chiede al presidente
Usa di non lasciarsi risucchiare nella logica della rappresaglia, e di "fare
giustizia" usando le leggi e le istituzioni internazionali. Ed ha già raccolto più
di mezzo milione di firme. A San Francisco la Veterans for Peace Inc - formata da
reduci del Vietnam, poi convertiti al pacifismo - sta organizzando scorte destinate a
proteggere quanti si sentano minacciati dall'ondata di xenofobia antimussulmana che scuote
il paese. E ovunque ci sono manifestazioni, dibattiti. Quello che manca è - al di là
d'una generica opposizione alla guerra invisibile dichiarata da Bush - un comune
obiettivo. Più ancora: una comune visione delle cose.
Judy Miller, 21 anni - studentessa della Law School di Yale che, nei giorni immediatamente
successivi alla strage, ha contribuito ad organizzare un "Day of Action" in
oltre 100 campus americani - la mette in questo modo: "I pacifisti sono divisi tra
quanti credono che la lotta al terrorismo sia qualcosa che richiede una diretta
iniziativa, e quanti credono che la strage dell'11 settembre non sia che un ultimo
prodotto, aberrante ma consequenziale, d'altre e ben più antiche violenze".
"Ciò che occorre rendere chiaro - dice Judy - è che il fronte di questa guerra
passa soprattutto dentro di noi. Perché è, essenzialmente, una guerra di valori. E le
guerre di valori non si combattono con i missili o con le azioni di commando...".
Christopher Hitchens ha scritto su The Nation - una delle più diffuse riviste
della sinistra americana - che sarebbe un gravissimo errore, per il movimento contro la
guerra, dimenticare come alla base degli attentati non vi sia alcuna - sia pur distorta -
visione di giustizia "globale", bensì il suo esatto opposto. "Quello che
gli attentatori davvero rappresentano è una forma di fascismo islamico...E quello che
combattono dell'Occidente non è l'ingiustizia economica, ma l'emancipazione femminile, lo
spirito scientifico, il concetto di separazione tra Chiesa e Stato...".
Lo scontro è aperto. E in nessun luogo le sue tracce sono evidenti come all'interno
dei gruppi che la pace, paradossalmente, la vanno sperimentando sul campo di battaglia. In
particolare quando quel campo di battaglia - presto probabilmente non soltanto metaforico
- si chiama Afghanistan. Negli Usa sono almeno una trentina i gruppi di volontariato che,
in una forma o nell'altra, si occupano di aiuti a questo lembo di mondo devastato da oltre
venti anni d'una carneficina che fu parte integrante della Guerra Fredda. E che della
Guerra Fredda porta ancor oggi i sanguinosi ricordi (comprese le armi made in Usa degli
uomini di Bin Laden). Tutti questi gruppi vivono oggi in una sorta di terra di nessuno,
soli con il proprio impegno. E soli soprattutto con una verità che nessuno sembra voler
ascoltare. "L'Afganistan - ha scritto in una lettera a George W. Bush Suraya Sadeed,
direttrice del Htachi (Help the Afghan Children, Inc.) - ha, in questi anni, sacrificato
oltre un milione di vite. E vanta 5 milioni di rifugiati, due milioni di vedove, tre
milioni di orfani, 500mila mutilati. Non v'è alcuna ragione per infliggere loro nuove
pene e nuove sofferenze...".
La risposta di Bush non è mai arrivata. Arriveranno invece certamente (forse, anzi, già
sono arrivate) le nuove pene e le sofferenze che la "prima guerra del XXI
secolo" - straordinariamente simile all'ultima del XX e ad ogni altra guerra
combattuta dall'uomo - si prepara a regalare agli afgani e al mondo dei poveri.
Informazione - Le alternativeLa pace viaggia in reteÈ possibile fare una distinzione tra media violenti e media nonviolenti? Forse sì, se
proviamo a distinguere tra media invasivi, che ci raggiungono forzatamente anche quando
non vogliamo, e media non invasivi che presuppongono l'interesse e il "primo
passo" da parte di chi li usa. Ma anche tra mezzi di comunicazione unidirezionali,
che consentono solo la ricezione di informazioni, e interattivi, che stimolano la
produzione e lo scambio di idee. È per questo che, ormai da anni, l'area pacifista e
nonviolenta ha scoperto l'utilizzo della rete come strumento per la realizzazione di
quella "omnicrazia" (il potere di tutti) teorizzata da Aldo Capitini, il
pioniere italiano della nonviolenza. Grazie a questa "invasione pacifica" delle
reti telematiche, nata molti anni prima della new economy, si riesce a restituire
ai comuni cittadini almeno una parte di potere informativo, ancora fortemente concentrato
nelle mani dei grandi colossi dell'editoria. Carlo Gubitosa |
Centri di ricerca e corsiLa pace si imparaLa pace non si può inventare o improvvisare. Bisogna preparare il campo e costruire
una vera e propria cultura nonviolenta: gli istituti di ricerca per la pace nascono con
questi obiettivi. Il Peace research institute di Oslo (Prio) è uno di primi al mondo,
attivo dal 1959. È impegnato attivamente in Colombia, Mediterraneo Orientale (per i
diritti umani in Turchia, le relazioni tra le due comunità di Cipro, i rapporti
greco-turchi), e nei Balcani (www.prio.no). (Altreconomia n°9, sett. 2000) |
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Novembre 2001
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