a cura di Marco Bello
Alberto L'Abate, punto di riferimento del movimento nonviolento italiano, è professore di metodologia delle scienze sociali all'Università di Firenze dove tiene anche un corso per operatori di pace.
Quali indicazioni può dare ai nonviolenti in una situazione mondiale come quella
che si è creata?
Cito una frase di Gandhi: "il miglior modo per difendersi è quello di non aver
nemici", dovremmo cominciare e rimettere in discussione tutta la nostra politica
estera, che è fatta di mercati, di interessi strategici con nemici reali o presunti.
Gandhi diceva: per risolvere un conflitto la prima cosa è cominciare a vedere fino a che
punto noi stessi contribuiamo a farlo nascere. È qui che si introduce il concetto di
prevenzione: non fare cose come armare i talebani (vedi VpS novembre '98), Saddam Hussein, cioè quelli che
poi diventeranno i nemici. Questo è un assurdo: tutti quelli che sono oggi i più grandi
nemici dell'occidente sono stati suoi fervidi sostenitori e collaboratori. Li abbiamo
armati noi. Una politica seria dovrebbe fare esattamente il contrario. Questo vuol anche
dire iniziare a studiare i conflitti da prima; non intervenire quando sono già scoppiati.
Aggiungo che in un mondo civile non ci si può lasciare andare alla vendetta, occorre un
tribunale internazionale per i crimini di guerra. Bisogna concertare un'azione per
prendere Bin Laden, raccogliere le prove e portarlo davanti a una corte. Non per ucciderlo
o uccidere la popolazione intorno, che è già vittima.
Poi c'è il problema delle armi: finché il Consiglio di sicurezza ristretto delle Nazioni
Unite è in mano ai più grandi produttori di armi (dall'85 all'89 i cinque paesi del
Consiglio ristretto avevano venduto l'85,6% di tutte le grandi armi del mondo), che hanno
interesse estremo alla vendita, non arriveremo mai alla pace. A nulla servono i nostri
corsi di laurea in operatori per la pace, se poi i ragazzi escono in un clima così
militarista.
Parlando di prevenzione dei conflitti, lei è stato membro della Campagna Kossovo e
tra i realizzatori dell'Ambasciata di pace a Pristina. Cosa non ha funzionato?
Il Kossovo è l'unica area dell'Europa dove un'intera popolazione aveva deciso di lottare
con la nonviolenza per il ripristino dei propri diritti, eliminati con la frode nel 1989
dalla maggioranza serba. Le armi di questa lotta erano state inizialmente, fino
all'esplodere della guerra jugoslava, una miriade di iniziative e di azioni dirette
nonviolente (marce, digiuni, manifestazioni, scioperi, blocchi stradali, ecc.), e
soprattutto la costituzione di un governo parallelo, che rientra, nei termini della teoria
nonviolenta, nella categoria dei progetti costruttivi. Il governo parallelo era stato
legittimato da elezioni clandestine, avversate dal governo serbo, ma controllate da
osservatori internazionali, portando alla presidenza Rugova. Ma i governi e i giornali dei
nostri paesi hanno ignorato la lotta nonviolenta, mentre la gente verrà informata in modo
costante e con grande dovizia di particolari delle lotte armate sviluppatesi in seguito
alla distruzione della Repubblica Federale Jugoslava.
Nel 1994, fu deciso di intensificare il lavoro per la prevenzione del conflitto armato
organizzando a Pristina una vera e propria "Ambasciata di Pace". Si realizzarono
centinaia di interviste a studiosi, politici, leader della società civile, di tutte le
parti coinvolte, alla ricerca di possibili soluzioni che potessero evitare lo scoppio di
una guerra. Furono discusse e analizzate tutte le proposte di varie organizzazioni del
mondo, preparati incontri comuni tra le due parti. Ne emerse una possibile soluzione
finale: uno statuto di autonomia internazionalmente protetta quale quello che era stato
realizzato nelle isole Åland nel Mare del Nord. Abbiamo anche collaborato con la
Comunità di Sant'Egidio, per gli accordi che essa è riuscita a far firmare alle due
parti per la normalizzazione del sistema scolastico. La firma di questo accordo (1
settembre 1996), peraltro mai applicato, era bastata perché l'Unione europea eliminasse
le sanzioni alla Serbia e la dichiarasse "mercato privilegiato". Nel biennio
'96-'97 anziché lanciare iniziative diplomatiche per risolvere il conflitto, gli Stati
occidentali perseguirono una politica il cui obiettivo era conquistare i mercati dell'ex
Jugoslavia. Tra i tanti casi l'acquisizione, da parte italiana, del sistema delle poste e
delle comunicazioni della Serbia, sulla quale recentemente si è aperta un'inchiesta per
gli aspetti di corruzione e speculazione. Tutto il lavoro dell'Ambasciata di pace non è
stato inutile ma non fu utilizzato dalla comunità occidentale ai fini preventivi e, per
ragioni varie, che vanno da quelle economiche a quelle strategiche (ricerca dei mercati,
basi americane nei Balcani) si è preferito arrivare alla guerra. Guerra che non ha
risolto i problemi di fondo della zona, anzi, da un certo punto di vista, ha alimentato
l'odio tra le diverse etnie che vivono in quest'area.
Qual è la differenza tra pacifismo e lotta nonviolenta?
Ho notato un'ignoranza totale su queste cose, anche di quelli che sarebbero i nostri
intellettuali. C'è tutta una cultura da creare. Esiste una grande differenza tra
pacifismo puramente reattivo e la nonviolenza. Mentre il primo ha alti e bassi, a seconda
che ci sia la guerra o no, i movimenti nonviolenti hanno come uno dei pilastri principali
il processo costruttivo, il fare ogni giorno. Spesso sono interventi anche rischiosi (come
quando in Irak, lui e altri volontari nonviolenti rischiarono di restare sotto le bombe
Usa, ndr). D'altra parte se vogliamo eliminare la guerra non dobbiamo aver paura: la
paura è uno degli elementi che porta alla violenza.
Inoltre, in molti casi si vede la nonviolenza come riformismo; questa è la cosa che ci fa
arrabbiare di più. Capitini, filosofo della nonviolenza e nostro maestro, voleva la
rivoluzione, non il riformismo, anzi insisteva che quest'ultimo non è altro che un
cambiamento di facciata, e che invece bisogna andare a fondo, trasformare la società,
dare potere alla gente comune.
Agnoletto e Casarini dicono che se ci sarà un attacco, il movimento scenderà in
piazza. Questi tipi di strumenti sono efficaci?
L'iniziativa è sicuramente importante. Credo però che bisogna lavorare di più sulla
qualità piuttosto che contare sui grandi numeri. Vanno trovate forme nuove che colpiscano
l'immaginazione. Dobbiamo imparare anche da Greenpeace: piccole azioni ma significative,
coraggiose. E occorre costanza, continuità. Sullo stile delle donne in nero di Belgrado o
le madri di plaza de Mayo: tutte le settimane, sempre nello stesso posto.
Come movimento nonviolento, il cui motto è "globalizziamo la pace", siamo
coinvolti nel progetto di legge per la formazione alla nonviolenza delle forze dell'ordine
(vedi box) e vorremmo anche fare formazione di formatori all'azione
diretta nonviolenta. Genova è stato un fallimento totale da quel punto di vista. Quando
tu organizzi una manifestazione devi anche pensare a controllare la situazione. Perché
non possiamo dire: ai black bloc ci pensi la polizia.
Una proposta di legge in parlamentoPolizia nonviolentaForse neanche Peppe Sini, direttore del Centro di ricerca per la pace di Viterbo,
quando lo scorso agosto ha lanciato la proposta di legge per la formazione nonviolenta
delle forze dell'ordine, pensava di poter riscuotere tanti consensi. Gianluca Carmosino |
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Novembre 2001
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