di Nanni Salio
Presidente Centro studi Sereno Regis, autore di diversi studi sulla nonviolenza ,
tra cui: Il potere della nonviolenza. Dal crollo del Muro di Berlino al Nuovo
Disordine Mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995
Dopo ogni evento luttuoso (guerra del Golfo, Kossovo, ecc.) e, a maggior ragione, dopo l'11 settembre, ci sentiamo ripetere la solita domanda: che cosa può fare la nonviolenza? Sovente, questo quesito cela una sorta di imbarazzo e di sfiducia, come se fossimo di fronte a un'ulteriore conferma dell'impossibilità di affrontare le grandi questioni internazionali se non facendo ricorso allo strumento militare. Le alternative esistono, purché si voglia cercarle e praticarle. Per vedere quali sono, occorre innanzi tutto provare a capire cosa è successo, ben sapendo che le informazioni veicolate dai media sono parziali e viziate dalla propaganda.
Si possono individuare tre principali interpretazioni, che non si escludono tra loro. La prima è la teoria del blowback, o contraccolpo, secondo la quale gli attentati terroristici sono la conseguenza di una politica estera ed economica degli Stati Uniti che ha prodotto nemici in tutto il mondo, in particolare nell'area islamica. Questa tesi è ampiamente sviluppata, tra gli altri, da Chalmers Johnson in un testo che con molta preveggenza metteva in evidenza i pericoli ai quali si esponevano gli Stati Uniti (Gli ultimi giorni dell'impero americano. I contraccolpi della politica estera ed economica dell'ultima grande potenza, Garzanti, Milano 2001). La seconda interpretazione vede ancora una volta il petrolio al centro dell'interesse sia degli Stati Uniti sia dei paesi coinvolti, Afghanistan compreso. Ricordiamoci che fra pochissimi anni, intorno al 2005, sarà raggiunto il picco di produzione geofisica del petrolio (vedi Volontari dello Sviluppo, agosto-settembre 2001). La terza interpretazione, infine, è stata proposta in particolare da Giulietto Chiesa, il quale suggerisce: "Cercate la cupola, non Bin Laden". Con questo, egli sostiene che esiste una sorta di cupola paragonabile a quelle mafiose che comprende persone al di sopra di ogni sospetto nel mondo non solo musulmano, ma anche occidentale, finanziario, dei servizi segreti. Queste interpretazioni non esauriscono lo spettro delle possibili cause, ma individuano le più significative e non costituiscono affatto un elemento di giustificazione.
La prima ipotesi, quella del contraccolpo, ci dovrebbe costringere a guardare dentro
noi stessi, a un riesame di coscienza. Sono sempre attuali le parole che Etty Hillesum
scrisse nel suo Diario 1941-1943, poco prima di morire ad Auschwitz: "Non
vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di
raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. È l'unica lezione di
questa guerra".
Se cerchiamo in noi stessi, dobbiamo vedere e denunciare con estrema fermezza i madornali
errori e lo strapotere del complesso militare-industriale-scientifico che domina gli Stati
Uniti, e gran parte del mondo occidentale. Il modello di difesa e le dottrine militari
elaborate negli ultimi cinquant'anni sono le principali responsabili dell'esplosione del
terrorismo e si basano esse stesse su assunti terroristici. È nostro dovere aiutare i
cittadini e le cittadine degli Usa a lottare contro questo sistema di potere e
liberarsene, così come a suo tempo aiutammo i paesi dell'est europeo a liberarsi dal
giogo sovietico. Non solo questo sistema difensivo, che il governo Usa vorrebbe
ulteriormente ampliare con il cosiddetto scudo stellare, ha creato una condizione di
insicurezza globale, ma ha clamorosamente fallito di fronte a un manipolo di persone
altamente determinate, che hanno trasformato in armi micidiali delle normali tecnologie di
uso civile. Sembra inoltre, anche se forse non sapremo mai con esattezza quanto è
avvenuto, che sull'aereo numero quattro, programmato per colpire la Casa Bianca, sia
avvenuto un significativo episodio di resistenza civile praticamente nonviolenta da parte
di un gruppo di passeggeri che si è ribellato provocando la caduta dell'aereo prima di
giungere a destinazione.
La resistenza civile nonviolenta comincia dunque in casa nostra, nei nostri paesi, per
sconfiggere definitivamente la logica militare suicida. A partire da questa condizione è
anche possibile instaurare un autentico dialogo con quella parte, ancora predominante, del
mondo musulmano che non è caduta nella trappola del fondamentalismo. Il dialogo è il
primo passo per un'opera di autentica riconciliazione, che si può ispirare al lavoro
svolto in Sudafrica da Desmond Tutu e Nelson Mandela e che ha visto papa Giovanni XXIII
avere il coraggio di "chiedere scusa" per gli errori commessi in passato dal
mondo cristiano. La superpotenza Usa avrà mai il coraggio civile di fare altrettanto?
La riconciliazione si nutre della capacità di vedere le sofferenze di tutte le vittime,
ricercando una verità trascendente, che liberi tutti gli attori sociali, oppressi e
oppressori, dalle catene della violenza. È quanto hanno saputo fare i grandi maestri
della nonviolenza nel corso di tutta la storia umana, da Buddha a Gesù Cristo, da Gandhi
a Martin Luther King, dando la propria vita. Ritroviamo questa tradizione e questa
capacità di lottare con la nonviolenza anche nel mondo islamico. Una delle figure più
importanti è quella di Badshah Khan, soprannominato il Gandhi musulmano, che negli anni
della lotta per l'indipendenza in India ha saputo trasformare gli indomiti e fieri
guerriglieri pathan in un esercito di centomila resistenti nonviolenti, che
operarono proprio in quelle regioni del Pakistan, al confine con l'Afghanistan e intorno
al mitico Khyber Pass, dove oggi sembra concentrarsi la crisi planetaria. (Eknath
Easwaran, Badshah Khan, Sonda, Torino 1990)
Ma perché l'azione nonviolenta collettiva, su larga scala, sia efficace occorrono altre condizioni: formazione, training, organizzazione, studio, disciplina, strutture logistiche, come ci insegna Gene Sharp nella sua opera sempre attuale e fondamentale (La politica dell'azione nonviolenta, vedi bibliografia). Purtroppo constatiamo amaramente che il movimento per la pace e lo stesso "movimento di movimenti", che da Seattle a Genova ha saputo attirare l'attenzione dei media, assomigliano spesso a "un'armata brancaleone" più che a un soggetto capace realmente di lottare contro lo strapotere economico e militare che ci sta portando verso lo sfacelo. Nel migliore dei casi, oggi il movimento per la pace è solo reattivo e non pro-attivo, capace di prevenire le guerre. Tuttavia, già negli anni '80 il suo contributo è stato essenziale per la caduta di uno dei due imperi, avvenuta quasi senza colpo ferire. È necessario smantellare anche l'altro impero e costruire strutture internazionali veramente democratiche, senza che nessuno si arroghi la pretesa di un'egemonia mondiale.
A coloro che sono impazienti, sia perché vogliono cambiare il mondo, sia perché intendono sconfiggere il terrorismo (ma sarebbe meglio dire i terrorismi) tutto ciò potrà sembrare poca cosa. Ma non ci sono semplici scorciatoie, e le conseguenze della violenza sono sotto gli occhi di tutti. I cambiamenti culturali avvengono in maniera molecolare e lenta e tuttavia sono gli unici che potranno permetterci di raggiungere lo scopo. A coloro che tentennavano, Gandhi rivolgeva un pensiero attuale anche per noi: "Quando sono disperato mi ricordo che lungo tutta la storia la via della verità e dell'amore ha sempre vinto; ci sono sempre stati tiranni e assassini, e per qualche tempo essi possono sembrare invincibili, ma alla fine cadono sempre".
Pratica nonviolenta - Le Peace Brigades InternationalScudi umaniNel quadro dei movimenti che nel mondo agiscono con una specifica filosofia e strategia
nonviolenta, le Peace Brigades International (Pbi, www.peacebrigades.org) sono un esempio unico. Malgrado le sue esigue
dimensioni, quest'organizzazione, composta in gran parte da volontari di 16 paesi diversi,
svolge un ruolo determinante in scenari di conflitto acuto come la Colombia, il Messico,
l'Indonesia/Timor Est, dove è attualmente presente. "Il loro contributo al processo
di democratizzazione del paese, al rispetto dei diritti umani e, con esso, all'intero
processo di pace è inestimabile", scrive Rigoberta Menchú Tum, Premio Nobel per la
Pace, riferendosi al suo paese, il Guatemala, dove 36 anni di guerra civile hanno causato
più di 200.000 vittime civili, 40.000 desaparecidos, più di un milione di
rifugiati. Lì, come in Salvador, in Sri Lanka, nei Balcani, ad Haiti, le Pbi sono
intervenute su richiesta di organizzazioni locali, proteggendo donne e uomini vittime
della repressione per il loro impegno non violento in difesa dei diritti umani. |
Bibliografia - Cento libri per capire la nonviolenza attivaTutto questo è già stato fattoÈ bello auspicare la pace e quindi non attaccare guerra per primi. Ma cosa deve fare
uno stato pacifico se altri attaccano guerra? |
Volontari per lo sviluppo -
Novembre 2001
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