di Lucia Filippi
"Quella mattina non ero di turno, purtroppo. Da un lontano villaggio del nord
della provincia di Esmeraldas, in Ecuador, era arrivato da noi un bambino di 9 anni con
una forte anemia e la febbre alta, un caso di malaria cerebrale. Lo avevano accompagnato
in ospedale più di una decina di famigliari, tutti Chachi, l'etnia indigena più
diffidente. Tanto diffidente che è estremamente raro che si affidino a noi medici...
Fortunatamente avevano capito che il bambino era grave e il capo villaggio, una persona
colta e carismatica, aveva convinto gli altri a sobbarcarsi il lungo viaggio in canoa per
arrivare fino da noi, a Borbon. Quando è arrivato il suo turno, il medico che lo ha
accolto non ha capito: si è limitato a somministrargli il chinino in una quantità tale
che in poche ore il bambino, da in piedi che era, è caduto in coma...".
Mentre racconta, Daniela Armani, 33 anni, di Bergamo, medico specialista in malattie
tropicali, e da 6 anni in Ecuador per il Mlal, s'inceppa spesso. Non trova la parola
giusta, arrossisce, riprende a parlare. È evidente che l'italiano già non è più la sua
prima lingua. E anche il papà, che per la straordinaria occasione le siede vicino (torna
in Italia una volta l'anno), sorride rassegnato: la sua piccola è ormai cittadina
ecuadoriana, cittadina del mondo.
Dunque, quel pomeriggio, a fare il giro in corsia, fortunatamente c'era lei. Daniela,
che già a 16 anni spediva in giro foto e curriculum per partire volontaria, nel '96 ha
sposato un medico ecuadoriano e oggi è un dottore appassionato e madre felice di due
bimbi di 4 anni e 5 mesi, Emilio e Matteo.
Quando Daniela ha visitato il bambino Chachi, "ormai faceva fatica a respirare tanto
era il liquido nei polmoni", ha capito che la situazione era gravissima.
"Intorno al capezzale - dice - la tensione era insopportabile. Non c'era più tempo
da perdere, ma bisognava convincere i famigliari a concederci ancora fiducia. Perché se
lo volevano riportare indietro, prenderlo così com'era, in coma, e rimetterlo sulla canoa
per riprendere la via del villaggio. Ero disperata e forse questo mi ha aiutato. Li ho
convinti a darmi due ore. Soltanto due ore e il bambino si sarebbe risvegliato, avevo
promesso ...".
In Ecuador le medicine in ospedale sono a carico dei famigliari. Sta a loro, anche
materialmente, la ricerca e l'acquisto dell'occorrente per la cura. In questo caso la
dottoressa Armani ha fatto però un'eccezione. È volata fuori dall'ospedale e si è
catapultata in farmacia dove ha preso a credito la fiala che le serviva. Nell'arco di un
paio d'ore il bambino ha riaperto gli occhi. È stata un'emozione indescrivibile. "E
pensare che per una diagnosi frettolosa lo stavamo perdendo per sempre...".
Non a caso il progetto Mlal insiste molto sulla formazione e l'aggiornamento del personale locale (430 persone tra medici, infermieri, e promotori sanitari coinvolti direttamente). Professionisti pagati una miseria e dunque non sempre motivati o disposti a sobbarcarsi fatica e straordinari per investire sul proprio aggiornamento. Da qualche anno a Borbon è stato realizzato un Centro di malattie tropicali (il Cecomet) di cui è presidente e responsabile una dottoressa veronese, Mariella Anselmi, del Centro malattie tropicali di Negrar, l'ospedale della Fondazione don Calabria che con l'Ecuador ha ormai stabilito un intenso legame di interscambio. "Con una diagnosi accurata - dice la dottoressa Armani - si può fare molto. Una malattia della pelle, il "pian", è stata debellata in questi anni ma altro si potrebbe fare ancora. In aumento sono ad esempio le malattie cronico-degenerative come l'ipertensione arteriosa particolarmente diffusa tra la popolazione nera. E su questo Daniela e il resto dell'équipe italiana sono impegnati intensamente. Si cerca di procurarsi i medicinali necessari (antiipertensivi e antibiotici basici) anche dall'Italia, e di incrementare le spedizioni lungo i fiumi per avvicinare villaggio su villaggio la popolazione più disarmata culturalmente, e che mai si presenterà spontaneamente all'ospedale. Perché c'è comunque da fare i conti con la naturale diffidenza delle comunità che vivono più isolate, nella maggioranza dei casi lontane anche fisicamente dai centri urbani e dal resto della popolazione. Così è per l'etnia Chachi. Tanto che la soddisfazione maggiore di Daniela Armani, in tutta la storia del piccolo colpito dalla malaria cerebrale, va al di là della guarigione medica . "Il ricordo più bello - dice infatti - è di un mese dopo. Quando me lo sono rivista comparire in ospedale. Finalmente grassottello e sorridente, completamente ristabilito, il bambino di 9 anni aveva rifatto tutto il viaggio per farsi vedere da noi, per dimostrarmi che ora stava bene".
Daniela è molto orgogliosa del progetto a cui lavora. Sarà perché, a differenza di altri volontari "a tempo determinato", si sente ormai di appartenere all'Ecuador. Un "colpo di fulmine", come dice lei, le ha fatto incontrare il medico suo futuro marito durante uno stage estivo, e da allora nel giro di pochi mesi ha deciso di lasciare Bergamo e famiglia e di trasferirsi stabile in America Latina: "Devo molto a lui. Io arrivavo con il mio bagaglio di tanta teoria, lui come medico rurale faceva su e giù lungo i fiumi Santiago, Onzolo e Cayapas. Seguirlo in quelle prime spedizioni mi ha aperto un mondo che non immaginavo. E non esagero quando dico che in poche settimane ho avuto chiaro che il mio posto era lì. Per sempre".
Volontari per lo sviluppo -
Novembre 2001
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