PUBBLICAMENTE DI DARIO SALANI

 

Il passato visto dal futuro

La Biennale di Venezia tra stravolgimenti temporali e intrecci economici.

Tutta basata sulle differenze questa quarantasettesima edizione della Biennale di Venezia. Il titolo del corpus centrale della mostra, quest’anno curata da Germano Celant e ubicata presso il Padiglione Italia ai Giardini di Castello e alle Corderie dell’Arsenale, lascia aperte varie strade interpretative e di lettura critica: Futuro, presente, passato. Si tratta, infatti, di un excursus sugli ultimi trent’anni d'avanguardia artistica, da Vedova a Lichtenstein fino ai più recenti Tobias Rehberger e Giuseppe Gabellone. "Futuro, presente, passato è una traversata temporale, cerca di coagulare, in un agglomerato visibile, lo stato presente dell’arte in uno scorrimento verticale e orizzontale che integri le testimonianze di tutte le età e di tutte le tendenze, dal 1960 ad oggi. Aspira a porsi come un’esposizione che viva sull’espansione e sulla ripresa, sulla diastole e sulla sistole dell’habitat artistico, presentando il familiare e lo sconosciuto, il vicino ed il distante, la stabilità ed il cambiamento": queste alcune parole estrapolate dalla presentazione in catalogo del curatore. Come si diceva, il tema della mostra è talmente libero da potere inglobare qualsiasi artista rappresentante di ogni tendenza che dagli anni sessanta ad oggi si sono succedute. Ma non è così, non è per nulla un percorso cronologico dove si susseguono, sala per sala, installazione per installazione, le opere di alcuni dei must mondiali, né, tanto meno, una celebrazione citazionista dell’univoca lettura della storia dell’arte contemporanea. Celant affianca coraggiosamente mostri sacri e giovani promesse, pittura e video installazione, scultura e performances multimediali, in un percorso di mostra assolutamente "disorientante" (ma solo sotto l’aspetto formale). Ovviamente numerose polemiche potrebbero essere sollevate a causa di gravi mancanze ed omissioni, come del resto accade da sempre a tutte le edizioni della biennale lagunare, ma come si sa, nonostante la monumentale dimensione della mostra, non è possibile costruire in così poco tempo - si pensi che questa è stata organizzata in soli quattro mesi - e in uno spazio relativamente circoscritto un’esposizione totalmente "politically correct".

Importante è introdurre la recensione segnalando che tutte le opere degli artisti presenti in mostra sono inedite e state appositamente realizzate per l’occasione.

Ad accogliere il visitatore ai Giardini vi è una dubbia installazione fatta di stendardi a strisce rosse e bianche applicati agli alberi lungo il viale, realizzata da Daniel Buren, vi è poi, sulla facciata del Padiglione Italia un'elegante decorazione di Giulio Paolini, dalla delicata ma toccante leggerezza e volatilità. L’interno del padiglione è costituito da molteplici sale che si susseguono in modo sparso ma con un ottimo impianto museografico tipico di Celant, con varie opere di autori quali Claes Oldenburg (il quale ha realizzato una grande scultura grazie allo sponsor della Illy Caffè), Mario Merz che propone un'installazione fatta dai suoi consueti igloo, Emilio Vedova e Agnes Martin che hanno entrambi ricevuto il Leone d’oro all’opera, Gilberto Zorio che presenta una bella sala con un'installazione composta da pelli, canoe e "marchingegni alchemici", Gerhard Richter espone tele recenti totalmente informali, Gino De Dominicis, autore storicamente trasgressivo e, al tempo stesso, introspettivo. Da segnalare l’installazione ambientale di Marina Abramovic dal titolo Balkan Baroque, in cui la tragedia della guerra nella ex Jugoslavia prende forma attraverso un ambiente privo di luce nel quale video proiezioni fanno da scenografia ad una lugubre azione in cui l’artista spazzola centinaia di vere ossa di bue; un "leccarsi le ferite" di forte impatto emozionale, caratterizzato da un interessante rinnovamento della performance mista alla video arte. Vi sono poi le stridenti sculture di Rebecca Horn e Jim Dine, con il rigore formale John Baldessari e Edward Ruscha.

Ecco, infine la trovata del curatore: la mostra nella mostra. Si tratta di un'esposizione eseguita a sei mani da Ettore Spalletti, Enzo Cucchi e Maurizio Cattelan. I tre nomi fanno automaticamente pensare ad una profonda dissonanza stilistica, oltre alla differenza generazionale degli autori. Ebbene la mostra supplementare titolata Futuro, presente, passato: Dall’Italia è un ulteriore tentativo di rendere correlate grandi differenze; ma questa volta è troppo, Celant esagera tale aspetto della sua bella biennale e neutralizza tutti i lavori dei tre bravi artisti! Si provi ad immaginare la precisione delle tele delicate, minimaliste e monocrome, di Spalletti, le figure coloratissime, dogmatiche ed espressioniste, di Cucchi con la "profanazione concettuale" della ready made art tipica di Cattelan, ironica e pungente, il tutto accatastato forzatamente nello spazio di poche sale...

La visita prosegue nelle vicine Corderie dell’Arsenale, suggestivo spazio cinquecentesco, dove vi è la parte più prepositiva dell’intera mostra. Installazioni, grandi opere, monumentali sculture e pannelli fotografici si susseguono nell’area ripristinata per l’occasione, con apprezzabili lavori di Robert Longo, Julian Schnabel, Haim Steinbach, Berttrand Lavier, Jeff Koons, Franz West, Francesco Clemente, fino ai giovani Vanessa Beecroft, Luca Pancrazi, Giuseppe Gabellone, Sam Taylor-Wood, Dinos e Jake Chapman, Mariko Mori...

In conclusione si può affermare che Germano Celant, con le sue doti imprenditoriali ormai appurate, è riuscito a realizzare una biennale fresca, dinamica, affatto convenzionale, riuscendo ad inserire in modo molto acuto, velato e sottile, la join-venture che più gli sta a cuore attualmente: il discusso sodalizio fra arte e moda, cominciato l’anno scorso con la neonata Biennale di Firenze Il tempo e la moda, proseguito al Guggenheim di New York con l’esposizione dedicata allo stesso tema, e decretato a questa edizione della Biennale di Venezia in forma celata dagli abiti d’arte di Jan Fabre, le lingerie di Vanessa Beecroft e Tobias Rehberger, l’allusione ai tessuti alle stoffe di Daniel Buren, Marie-Ange Guilleminot, le gigantesche "sottane" di Ann Hamilton, gli abiti futuristici ed improbabili di Mariko Mori. Una domanda per tutte: Celant è un genio dell’imprenditoria d’arte o un illuminato teorico in grado organizzare notevoli esposizioni dal non troppo celato interesse lobbistico? A voi la risposta.

XLVII Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia 1997. Fino al 9 novembre. Ingressi lire 18.000 interi, 12.000 ridotti.

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