Questa è la ricostruzione ufficiale dell'incidente
occorso al Pompiere Agostino Regis il 10 giugno 1912.
Ore 5' 30 Sveglia - pulizia personale.
Ore 6/7 Scuola varia, impartita dal maestro Ambrosione.
Ore 7/8 Manovre di allenamento al castello di manovra
e di conoscenza del materiale in dotazione.
Ore 8/12 Lavori di officina, secondo il proprio mestiere.
Questo l'orario di ogni giorno feriale, seguito volonterosamente;
specie per le lezioni di lingua Italiana.
Talvolta come ovvio, una qualche chiamata per interventi vari ne variava
il prescritto, una volta partiti i richiesti, ne seguivano lo svolgimento
i rimanenti.
Ma quel giorno (10 giugno 1912) ce ne fu per tutti e per tutti fu un giorno
di lutto.
Poco prima della sveglia era giunto l'avviso che nelle Officine di Savigliano
era scoppiato un esteso e furioso incendio.
In pochi secondi partirono la prima e la seconda partenza, sui carri Fiat
a ciò adibiti.
Seguiti in pochi altri istanti dalla terza e quarta partenza sulle due
autopompe Itala, le prime in dotazione al Corpo.
Seguì ancora, con altri uomini, la Pompa a vapore Thirion, trainata al
gran trotto da tre poderosi cavalli, affiancati, seguita dal carro tender,
carbone e acqua, trainato da due.
Attorno allo stabilimento in fiamme, vi sono pochi idranti della Società
acque potabili.
Ma è attraversato dal canale della Ceronda, ramo sinistro, che nell'interno
fa pure funzionare una turbina. Entra da tergo, esce sull'ingresso e va
oltre la vicina ferrovia.
Vi è pure un canale d'irrigazione che va a scaricarsi nella vicina Dora.
L'acqua per alimentare le autopompe e la pompa a vapore non mancava certo.
Giunti sul luogo, con rapidissima manovra ogni distaccamento provvide
a stendere le tuberie degli idranti, delle autopompe e della pompa a vapore,
mentre i capi posto andavano a predisporre, mettendosi agli ordini dei
Com. per circoscrivere e spegnere l'incendio.
Il mio capo diretto: Olivero Antonio, ottimo uomo, mi aveva assegnato
come aiuto lancia a Franchino, un anziano, e si era spostato ad assistere
gli altri subalterni.
A tratti dall'ingresso del reparto ove noi eravamo, usciva fumo; calore
e qualche vampata.
Franchino non resistette e retrocedette per prendere una boccata d'aria.
Di corsa, con altri Allievi, per una scala Porta già piazzata salii sul
tetto già in parte in fiamme.
Ci attendevamo che quell'individuo, dato quell'ordine, se ne assumesse
la responsabilità e fosse venuto con noi, ma non lo vedemmo più.
Sopra, già fin dal primo giungere, vi era già un distaccamento a cui credo
appartenesse il povero Agostino i cui componenti facevano il possibile
e l'impossibile per combattere l'incendio.
Ci unimmo di rinforzo a loro e provvedemmo a issare e a mettere in azione
un'altra potente lancia, oltre a altri aiuti.
Vi era pure Gilli Delfino di Rosta, che ci aveva dato un avvertimento:
"Fate attenzione, che questo tetto non mi pare troppo sicuro!".
A quell'incendio, per quanto grave, si poteva far fronte coi potenti mezzi
di cui eravamo dotati: oltre agli idranti, anche interni, a tergo dello
stabilimento, vi era in funzione e in piena efficienza l'anziana pompa
a vapore Thirion, che alimentava, poi suddivise, due lance da 80, con
bocchello di 30 mm con 2000 litri di erogazione al minuto primo alla pressione
di 9 (nove) atm. 4 lance da 60 mm per ogni autopompa con 500 litri al
primo e pure ad alta pressione, i mezzi non mancavano.
Ma quell'incendio aveva una caratteristica che rendeva più ardua la nostra
opera. Sottostante e di fronte a noi vi era un gran salone. In basso si
era potuto isolare dalle fiamme.
Il pericolo era che ne fosse invaso dal tetto.
Questo in lamiera con sottostante perlinaggio in legno formava un'intercapedine
ove il fuoco avanzava subdolo.
Quel salone era pieno di motori elettrici, di dinamo, che, ci dissero
i tecnici della Savigliano, se fossero stati bagnati sarebbero stati resi
inservibili con danno ingente.
Per evitare questo si cominciò a praticare nella tettoia degli opportuni
tagli.
Fu durante questo periodo che avvenne la sciagura.
Regis, recandosi di corsa a prendere un arnese adatto per quel lavoro.
Nella caligine in cui eravamo avvolti, non si avvide che al filo del pavimento
vi era un lucernario.
Reso fragile dal calore sottostante, la spaziosa lastra di vetro si ruppe
al suo passaggio e il povero Agostino precipitò nel vuoto per 15 metri,
batté il capo sullo spigolo di un peso e rimase privo di vita: fulminato!
Lontani da quel punto, dove eravamo noi, non ci rendemmo conto e non ci
fu nota subito la disgrazia.
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Ci fu palese molto tempo dopo, quando circoscritto e
domato l'incendio, fu dato l'ordine di raccogliere il materiale usato
per lo scopo.
A sentir raccontare il fatto luttuoso, e chi lo faceva
era angosciato, per il grande affetto fraterno che ci lega come una grande
famiglia, scese in me un angoscioso incubo: Agostino morto!
In quell'età in cui pare impossibile che si possa morire! Agostino fu
portato in caserma.
Il locale in fondo a sinistra di chi guarda, in cui di solito stazionava
il carro in cui era partito e su cui era deposto, fu trasformato in camera
ardente.
Fu disposta una guardia d'onore, in alta uniforme. Una vera fiumana di
cittadini, primi quei di Porta Palazzo a noi più vicini, vennero a rendergli
omaggio.
Innumerevoli le corone e infiniti i fiori. Vegliata nella notte, oltre
alla guardia d'onore, dai parenti e dalla fidanzata che vedeva così tragicamente
infranto il suo sogno d'amore.
Al mercoledì, poiché nel cortile della caserma non era agevole attuare
il corteo funebre che si prospettava imponente, l'auto con colui che si
onorava fu trasportato di fronte, sul corso Regina Margherita, a levante
della via XX Settembre, all'inizio del Giardino Reale.
Ivi seguitò a ricevere l'omaggio dei cittadini, che mai come in quel giorno
sentimmo partecipi del nostro lutto, del nostro dolore.
Alle ore 16 in un'atmosfera di viva commozione il corteo funebre si mise
in moto.
Il picchetto d'onore presentò le armi.
Agostino passò da davanti alla sua caserma ove all'esterno stavano schierati
i suoi compagni in servizio, quelli liberi lo seguivano.
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