Una transizione dall’esito imprevedibile: verso una maggiore democratizzazione o verso un prolungato declino?

 

Finita l’epoca dei conflitti armati interni e ripristinata una certa forma di legalità, l’America Latina pare rientrata nell’anonimato, mentre si impone una domanda: dove sta andando?

Il processo di democratizzazione è partito proprio in un momento di grosse difficoltà economiche e con la continuazione dello strapotere assoluto della politica neoliberista, con tutte le conseguenze sul piano sociale. Per cui, non avendo avuto alcun sollievo nelle grosse difficoltà per sostenere l’esistenza, molta parte della popolazione ha finito per considerare fallimentare il cambiamento.

E’ mancato il coraggio di fare i conti con il passato. La fine delle dittature e l’accertazione documentata degli orrori dell’epoca dei desaparecidos non ha portato ad una condanna, almeno dal punto di vista morale, dei principali responsabili dei crimini di quegli anni.

I principi liberaldemocratici, che in America Latina si sono sempre rassegnati a vivere in uno stato estremamente precario, sono ormai messi in discussione. I sistemi politici e le loro strutture sono corrosi da forti presenze personalistiche, dal peso degli interessi di ristrette oligarchie pressochè onnipotenti, da macroscopiche disuguaglianze sociali. A causa dei bruschi tracolli economici e delle regressioni rispetto ad un pur timido impiantarsi di più eque forme di convivenza sociale, rischiano di vanificarsi le speranze alimentate dalla fine delle carneficine del passato.

Dilaga il crimine, che in tutti i paesi è considerato dalle popolazioni il problema più grave, al punto che le spese pubbliche e private per la sicurezza sono arrivate a coprire il 14% del PIL in media, costituendo un serio ostacolo per lo sviluppo economico. E non sono tanto i grandi crimini che preoccupano la maggioranza dei latinoamericani, ma la microcriminalità dei ladruncoli che operano i piccoli furti, gli scippi, i borseggi, dando origine per reazione al barbaro fenomeno dei linciaggi e creando un clima in cui i politici “duri” cavalcano l’onda della popolarità.

A conclusione di queste note di carattere generale riportiamo due valutazioni fatte da importanti analisti.

La prima è apparsa su “Le Monde Diplomatique” del novembre 2003 ad opera del suo direttore Ignacio Ramonet. Riferendosi al caso recente della Bolivia, l’analista tocca la fondamentale questione di come gli Stati Uniti intendano il significato di democrazia applicata agli altri paesi.

“Era una democrazia perfetta la Bolivia. Non rispettava forse i due diritti fondamentali, la libertà di stampa e le libertà politiche? Il fatto che il diritto al lavoro, all’alloggio, alla salute, all’educazione, all’alimentazione e tanti altri diritti siano stati sistematicamente calpestati non intacca per nulla, a quanto pare, la perfezione democratica di questo stato.

In Bolivia, un paese di 8,5 milioni di abitanti che dispone di un sottosuolo tra i più generosi del pianeta, da duecento anni una manciata di ricchi si accaparra le risorse ed il potere politico, mentre il 60% degli abitanti vive sotto la soglia della povertà. Gli amerindi, maggioritari, sono tuttora discriminati. La mortalità infantile è ad un livello indecente, la disoccupazione è endemica, l’analfabetismo predomina, la maggioranza della popolazione non dispone dell’energia elettrica. Ma tutto questo non cambia il dato essenziale che si tratta di una democrazia.

Perciò, quando il presidente Gonzalo Sánchez de Lozada tra l’11 e il 12 ottobre 2003 ha ordinato all’esercito di sparare contro i manifestanti antigovernativi provocando più di 60 morti e centinaia di feriti, la consigliera del presidente degli Stati Uniti Condolezza Rice ha dichiarato che Washington mette in guardia i manifestanti (!) contro “ogni tentativo di rovesciare con la forza un governo democraticamente eletto”.

E questo tralasciando il fatto che l’esplosione popolare era diretta contro la decisione presa da Sánchez de Lozada di espropriare il paese delle sue riserve di gas per venderle agli Stati Uniti attraverso un gruppo di multinazionali.

La seconda valutazione è tratta da un’analisi formulata nel 2002 dall’economista statunitense Rudy Dornbush dal titolo “L’inarrestabile declino dell’America Latina”.

“Ancora cattive notizie dall’America Latina. Le condizioni economiche peggiorano quasi ovunque, si allenta la coesione sociale, cresce l’instabilità politica. Negli ultimi anni il PIL procapite è aumentato in media dello 0,36%, e di questo passo occorrerebbero duecento anni per raddoppiare le dimensioni dell’economia, mentre in Asia questa raddoppia ogni 10 anni. La colpa del ristagno economico è da attribuire al malgoverno e non alla cattiva sorte.

Sono quattro i fattori che hanno messo l’America Latina in queste condizioni:

1)   La corsa alle privatizzazioni ha spostato i vantaggi dai servizi pubblici alle imprese private. Gli introiti realizzati dallo stato non sono stati impiegati per migliorare le infrastrutture e la competitività per le esportazioni.

2)   Poiché le riforme hanno portato vantaggi solo ad una parte minima della popolazione, ora più nessuno vuole continuare a realizzarle, anche quelle necessarie per il progresso economico.

3)   Presidenti e governi hanno operato con politiche inefficienti e con incompetenza, ed i risultati sono stati molto negativi.

4)   Il tasso di risparmio è drammaticamente basso e non é in grado di alimentare gli investimenti. Gran parte della popolazione è ai limiti della sopravvivenza, mentre la ricchezza è in mano a gruppi ristretti che la trasferiscono all’estero.

L’America Latina ha sinora retto perché sono entrati per lungo tempo capitali stranieri, ma questo tempo è ormai finito”.