Prefazione di
Pamela Villoresi
Quando nel nostro pianeta, milioni di anni fa, le acque si restrinsero, molti pesci rimasero intrappolati nel fango e cercarono un nuovo modo di respirare: non più acqua attraverso le branchie ma aria dai polmoni. Chi vi riuscì sopravvisse, aggiunse un anello alla catena evolutiva e dette origine alle innumerevoli razze animali terrestri; gli altri soffocarono. Qualche era più tardi, molti animali tentarono nuove importanti evoluzioni, qualcuno si eresse persino su due gambe e morì mangiato vivo dagli altri predatori, perché con due gambe sole, invece di quattro, correva troppo piano. (I teschi ritrovati degli ominidi presentano tutti dei grossi fori procurati dai dentoni di chi se li è mangiati). Dopo qualche altro tentativo, la natura perfezionò questa nuova specie ed elaborò l’Homo sapiens che partorì l’Homo sapiens-sapiens il quale perse un sacco di peli, cominciò a cacciare con le armi, poi ad allevare bestiame, poi a coltivare e quindi a raggrupparsi in comunità dove, raccolto con altri simili intorno a un fuoco, dette origine a sempre più elaborate forme di linguaggio, d’arte, di strutture sociali e politiche e di vestiario.
Il cammino fino all’era industriale è stato velocissimo e sono cambiate sostanzialmente poche cose (andiamo sulla Luna ma non abbiamo ancora smesso di farci la guerra fra “tribù” e ci copriamo ancora coi peli degli altri). Ma un’altra grande evoluzione nell’ultimo secolo è avvenuta: l’emancipazione della specie femminile. E, come i poveri pesci nostri avoli boccheggiavano nel fango strangolati dal cambiamento, così anche gli umani di oggi arrancano dietro questa novità strutturale. Le femmine faticano a gestire il proprio ruolo sociale e il lavoro, ritagliandoli dai compiti di madre e regina-serva della casa che comunque le sono delegati; si smarriscono tra i propri diritti, i propri impulsi, i propri desideri, l’esigenza di mediazione e l’insicurezza che le insegue dal passato. I maschi non riescono a rapportarsi a degli esseri diversi, ma uguali, che rifiutano di essere solo un “ruolo” nella loro vita. Gli uomini sono molto spaesati e spaventati e fuggono maldestramente (come poveri ominidi davanti agli animaloni), cacciandosi spesso in problemi più grandi di quelli a cui credono di sfuggire. Rubano, già da qualche anno, alle donne il centro dell’attenzione per dir loro “non ti voglio più perché sei cattiva e mi fai paura” ed esigono di essere corteggiati e ammirati come educande dell’alta società ottocentesca. Non sanno come affrontare il loro problema con le “nuove” donne e le rifiutano, così amano e desiderano altri uomini (magari vestiti da donna per scongiurare nostalgie) e, con rancore e cinismo, tentano di rivalersi dei privilegi perduti imponendo al mondo immagini femminili degradanti e poco interessanti ma sicuramente più rassicuranti. E siccome di mezzi, per il momento, ne hanno ancora tanti (quelli di comunicazione e l’industria della moda, per esempio), la vendetta sta riuscendo eclatante e spietata.
Dagli urlacci della televisione o dai sussurri subdoli dei cartelloni pubblicitari il messaggio parla chiaro: “Sei brutta se sei una donna vera, sei vecchia, rifatti il seno e le labbra, tingiti i capelli che le bambolone sceme sono meglio di te, almeno sappiamo come prenderle, possiamo comprarle perciò anche tu, sii docile, offriti al migliore offerente, stringi il vestito in vita, scopri l’ombelico, accorcia la gonna. Per piacerci devi essere trasparente e volgare, esibisci il seno finto e gonfio ma stai bene attenta che la rotondità sia solo lì, il resto lo vogliamo magro, magrissimo, ossuto, esangue. Sii anoressica come queste modelle che ti mostriamo, altrimenti non troverai vestiti per te, non farai innamorare nessuno, ti sentirai inadeguata e mal fatta. E per dimostrarlo si espongono per le strade fotografie di cadaveri femminili, sanguinanti e riversi da un automobile, per pubblicizzare collant; sulle fiancate dei tram sfilano signorine attonite, già impacchettate nei cellofan, pronte per l’obitorio e sui giornali diafane fanciulle sfoggiano abiti scuri e sconci, già intirizzite dal rigor-mortis. Accanto alle loro tristi foto trionfano quelle di maschioni sani e muscolosi, vivi, calorosi o truccati e femminei che ammiccano sornioni, che offrono spudoratamente, con lingua, pube e sguardi, prestazioni erotiche (ad altri uomini non a donne, anche questo appare chiaro) e chiedono di essere guardati e amati, sono lì per sostituirsi alle femmine come oggetti e modelli di desiderio.
“Beh, certo, qualcosa di insostituibile le donne ce l’hanno, i seni per esempio, ma il silicone si può iniettare o trapiantare anche nel petto degli uomini. I piedi, sì effettivamente, quelli femminili sono più piccoli e delicati ma noi gli propiniamo gli zatteroni informi e pesanti e glieli roviniamo. I capelli? È vero, le donne li hanno più folti e più belli, come distruggerli? Basta rasarglieli e impiastricciarglieli di tinte, di più: di pece e segatura così più nessuno al mondo avrà voglia di passarci dentro una mano, di carezzarli”.
La cosa più curiosa comunque non è questa cieca reazione maschile alla nostra emancipazione, è che noi donne, per questa sistematica demolizione della nostra immagine, della nostra dignità e della nostra persona, paghiamo prezzi salatissimi, di insicurezze, di frustrazioni e di denaro. Deambuliamo per le città, infelici, disarmoniche, impiastricciate con vestiti inadatti per andare al lavoro, al parco coi bambini o a pregare in chiesa; siamo scomode nel guidare la macchina, nell’allattare, nel camminare in campagna, nell’affrontare il freddo, nell’andare in bicicletta o prendere un tram, cioè nel vivere.
Mi vedo rispecchiata nelle altre, povera, squallida e volgare. Svuotiamo e riempiamo continuamente gli armadi (perché la moda cambia) con indumenti, oggetti e intrugli concepiti solo per avvilirci e arricchire chi se li inventa e chi li produce, cioè chi non ci rispetta, chi ci teme. Ripenso agli armadi della mia bisnonna, (che eliminò orgogliosa i bustini che l’avevano torturata da ragazza) e della mia nonna (che sapeva cucire e lo faceva per tutta la famiglia), in cui pendevano per anni e anni, aggiustate, stirate e profumate, le medesime gonne ampie e lunghe, così comode e così (non ci crederete) pratiche. Vi spiccavano, ordinate le camicette semplici e gentili e le giacchettine che segnavano con garbo la vita. Tutto l’insieme sottolineava l’armonia e la morbidezza del corpo femminile. E le pettinature! Quando mi capita di interpretare personaggi dell’inizio del secolo ho il piacere di vedermele sulla testa, sembrano fatte per me. Che grazia! Perfino gli abiti delle contadine, al confronto con quelli di moda oggi, avevano un’eleganza aristocratica. E com’erano belli e ricchi i vestiti di tradizione regionale coi loro colori, la loro gioia, la loro identità. In questi ultimi tempi, se qualcuno dovesse scoprire dov’è, in che parte del mondo è, dagli abiti di chi gli sta intorno, non saprebbe se si trova nell’Ohaio, a Oslo, a Osaka o a Otranto.
Perché non ci lasciate finalmente in pace, libere di essere femmine, non più sottoposte ma femmine? Tanto non si può tornare indietro. Io comunque ho deciso: appena avrò fatto fronte a tutte le spese d’autunno per i figli, la scuola, la casa… mi concederò un regalo. Mi farò cucire qualcuna di quelle gonne e di quelle camicette per poterle indossare almeno a casa mia, per sentirle frusciare quando corro o cammino, per accoccolarmi senza che mi si vedano le cosce fino all’inguine, per sentirmi addosso il profumo del cotone o del lino e non l’afrore pregno di sudore e trielina della robaccia sintetica che non si può lavare con acqua e sapone, per muovermi ampia e libera, a mio agio e sentirmi armonica… anche per dirigere un teatro o montare su un Jumbo.