Alcune testimonianze della Manifattura.


Un artiere

Quanto tempo è passato, sono molto vecchio, non posso ricordare bene. Ricordo però che le donne, specialmente quando erano ancora in produzione i sigari, facevano una vita grama. Era un inferno, c’era tanta umidità, il tabacco in fermentazione, soffrivano di reumatismi. Poi quando hanno chiuso il reparto dei sigari, sono passate alla produzione delle sigarette e lì si stava un po’ meglio.

A quel punto fu un problema che riguardava solo gli uomini in quanto erano loro a venire a contatto con il tabacco in fermentazione.

Se le sigaraie non raggiungevano la quota giornaliera prefissata era un problema grave, e per raggiungerla bisognava lavorare sodo.

Ho iniziato a lavorare alla Manifattura Tabacchi nel 1933, avevo trentadue anni e quella era l’ultima possibilità che avevo di accedere ad un impiego statale in quanto avevo raggiunto i limiti di età.

Ho fatto un concorso e sono risultato il primo della graduatoria. Prima delle prove ci sottoposero, nudi, ad una visita medica molto accurata; sollevammo dei pesi e successivamente noi artieri producemmo il capolavoro, consistente in un incastro.
Io dopo la guerra ho inventato un dispositivo che, applicato ad alcuni macchinari, consentiva contemporaneamente di alleviare la fatica delle donne e di far risparmiare nello stesso tempo l’azienda. Di questa modifica ho ancora tutti i disegni, non avevo potuto farla brevettare perché ero dipendente statale, come premio la direzione mi mandò ad installare la mia invenzione alle manifatture di Bari e Catania.

Non mi fu riconosciuta né promozione né aumento di stipendio. Riportavo sempre ottimo nelle note di merito ma nessuna promozione: perché ero comunista. Anzi il direttore cercò di prendersi il merito dell’invenzione e solo grazie al segretario dei Monopoli di Roma, mi venne riconosciuta. Si vede che avevano avuto vergogna per i tanti soprusi da me subiti.

Ero diventato il capo dei manutentori, cioè coloro che si occupavano delle riparazioni ai macchinari, avendo con me solo uomini, non interferivo assolutamente con il lavoro e la carriera delle donne che erano tutte in produzione.

Durante la guerra facevo parte delle SAP di fabbrica e l’allora direttore, ingegner Franchi, fece arrestare me ed altri quattro miei compagni solo perché avevamo preso parte allo sciopero del 6 marzo 1943. Al momento dell’insurrezione, alla fine dell’aprile 1945, a presidiare la fabbrica c’erano anche le donne.

Come dipendenti della manifattura guadagnavamo meno degli operai che lavoravano presso le industrie private.

Quando entrai in manifattura percepivo diciannove lire e cinquanta centesimi al giorno. Le donne guadagnavano qualche cosa di meno, ma a parità di qualifica la differenza non era rilevante. Solo negli ultimi anni vi è stato un notevole aumento degli stipendi che sono stati in pratica equiparati a quelli dell’industria privata.



Una scrivana (Giulia Marengo)

Sono entrata alla Manifattura Tabacchi nel 1936, con la qualifica di operaia scrittuarale su sollecitazione di mia zia che lavorava in Manifattura come scrivana, questa strana qualifica significava che con la retribuzione da operaia svolgevo mansioni da impiegata, questo però non deve stupire più di tanto in quanto a quel tempo tutte le impiegate della Manifattura Tabacchi inizialmente venivano assunte con tale qualifica. Si veniva con contratti trimestrali, dopo aver superato un concorso, riservato solo alle residenti in Torino. Il concorso verteva su prove scritte ed orali di cultura fascista, italiano e aritmetica. Il salario veniva percepito quindicinalmente e corrispondeva alle ore effettivamente lavorate giornalmente.

Nel 1941, avendo ormai maturato i quattro anni di anzianità necessari, partecipai ad un concorso vero e proprio che ebbe luogo a Roma, presso il Palazzo degli Esami.

Rimasi esclusa dalla graduatoria in quanto ero nubile e senza figli, all’epoca, ai fini del punteggio, tutto questo contava molto più di oggi. Continuai pertanto a lavorare come operaia temporanea prima, e come impiegata avventizia all’ufficio riscontri poi, fino alla mia entrata in ruolo nel 1955.

Attorno alla metà degli anni ‘50, ripresero le assunzioni di personale da inserire nei ruoli impiegatizi. Purtroppo però i concorsi erano banditi esclusivamente per gli uomini. Anche gli operai/e venivano assunti/e tramite un concorso che verteva sul superamento di una prova attitudinale: ovvero occorreva dimostrare di possedere una certa manualità. Occorreva anche sottoporsi ad una visita medica tendente ad accertare la sana e robusta costituzione fisica.

Le operaie tutte comuni, erano le uniche a svolgere mansioni di effettiva produzione.

Gli uomini invece erano suddivisi sia in comuni che in specializzati. Mentre i secondi si occupavano delle varie manutenzioni (elettricisti, falegnami, riparatori in genere), i primi erano assegnati a mansioni di fatica, come lo scarico dei vagoni ferroviari delle partite di tabacco o il rifornimento di materia prima ai vari reparti di lavorazione.

Ad un gradino più alto delle operaie comuni si trovavano le operaie di controllo e sorveglianza, le cosiddette maestre; le quali venivano scelte fra le operaie più esperte e con maggiore anzianità di produzione, dopo aver sostenuto un piccolo esame.

Le maestre avevano il compito di riferire al capo laboratorio le esigenze delle operaie, assicurare un continuo e costante approvigionamento di materie prime, fare cioè da tramite fra lavoratrici e direzione.

La Manifattura Tabacchi era suddivisa in reparti, ogni reparto produceva un articolo. A sua volta ogni reparto era costituito da laboratori che eseguivano, ognuno, una particolare fase di lavorazione.

Alla direzione di ogni laboratorio vi era un impiegato tecnico, denominato capo laboratorio. Nessuna donna era capo laboratorio, anche perché, come ho già detto, i concorsi per queste mansioni erano banditi esclusivamente per gli uomini. Il livello massimo al quale una donna poteva aspirare era quello di impiegata amministrativa.

Negli anni seguenti al 1945 si raggiunse una maggiore parità fra uomini e donne; infatti, a parità di lavoro svolto e di qualifica, uomini e donne giunsero a percepire la massima retribuzione.

Il personale era così inquadrato: i dirigenti nel gruppo (A), gli impiegati tecnici nel gruppo (B), le impiegate amministrative nel gruppo (C). Le retribuzioni fra il gruppo (B) e il gruppo (C) erano diverse.

Fra uomini e donne non vi era assolutamente rivalità per quanto concerneva la carriera lavorativa, in quanto questa seguiva percorsi diversi per gli uni e per le altre. Gli uomini potevano entrare in Manifattura come operai comuni e poi, in base alle capacità ma sempre per concorso, passare impiegati tecnici. Le donne entravano come operaie comuni e potevano diventare o maestre o impiegate amministrative, sempre che venissero banditi i relativi concorsi che permettevano il passaggio di categoria. A fine anno per ogni dipendente, a cura del capo laboratorio, veniva formulato un giudizio di merito che, tenendo conto dei vari parametri, come ad esempio l’assiduità al lavoro, prontezza e precisione nell’esecuzione delle disposizioni, produttività, si traduceva in ottimo, buono, distinto e così via.

L’orario di lavoro andava dalle otto alle sedici e venti, per gli impiegati e dalle otto e venti alle sedici per gli operai, per cinque giorni lavorativi, compresa nell’orario vi era una pausa mensa di tre quarti d’ora. Prima della guerra il sabato non era lavorativo in quanto rispettavamo il sabato fascista.

Essendo una fabbrica che lavorava e produceva generi di monopolio, si era soggetti a severi controlli, uscendo i dipendenti dovevano sottostare al controllo del contenuto delle borse e alcune volte vi erano anche vere e proprie perquisizioni personali, per evitare i furti. Un tempo questi controlli erano affidati al nucleo interno della Guardia di Finanza, successivamente, poiché si erano verificati alcuni inconvenienti, queste mansioni vennero affidate a personale civile sia maschile che femminile.

Gli stipendi erano sufficienti e poiché spesso nella stessa famiglia lavoravano sia il marito che la moglie, e magari entrambi alla manifattura, non si riusciva a capire se vi fosse qualcuno che vivesse nell’indigenza; non si viveva nel lusso e nello sperpero, ma la vita era dignitosa.

All’interno della Manifattura vi era un asilo nido, che veniva denominato, e ancora adesso non so per quale motivo, l’incunabolo presso il quale trovavano sistemazione i bambini fino all’età di tre anni. Per ammettere i bambini al nido le famiglie pagavano una retta mensile molto bassa. Coloro che accudivano i bambini erano operaie dello stabilimento che per motivi diversi (anzianità, motivi di salute, capacità individuali), venivano destinate a queste mansioni.

Mi pare di ricordare, ma non sono del tutto sicura delle date, che prima del 1950 le donne che si trovavano nella condizione di attendere un bambino avessero diritto ad usufruire di un permesso pagato pari a trentadue giorni prima e a quaranta giorni dopo il parto. In seguito però la normativa riguardante la maternità si uniformò a quella nazionale.

Quando venni assunta avevamo diritto a quindici giorni di ferie all’anno; più avanti il periodo di ferie giunse ad un mese.

Esisteva anche un dopo lavoro, il quale era un formidabile punto di aggregazione, non solo per i dipendenti, bisogna infatti tenere presente che qualche decina di anni fa il Regio Parco, era un borgo nettamente separato dalla città e che la maggioranza dei dipendenti era residente nel borgo o comunque nelle sue immediate vicinanze, quindi dopo una giornata di lavoro ci si ritrovava spesso, per divertirci e per trascorrere insieme il tempo libero, gli impianti del dopo lavoro consistevano in uno chalet, che fungeva da bar e luogo di riunione, da campi da bocce, e anche da un campo da tennis.

Alla Manifattura Tabacchi, erano presenti la CGIL, la CISL e solo molto più tardi entrò la UIL. Esisteva la Commissione Interna nel cui seno veniva eletto un Esecutivo. La sindacalizzazione era molto alta e così anche la partecipazione a tutte le iniziative e agli scioperi. All’interno di questi organismi non vi erano forme di discriminazione nei riguardi delle donne che, anzi, se si mettevano in lista, riscuotendo la fiducia delle compagne, entravano a far parte della Commissione Interna e dell’Esecutivo.

Le uniche forme di rivalità erano quelle derivanti dall’aderire a partiti politici o a sindacati diversi, queste rivalità potevano essere anche molto accese, ma si limitavano ad interminabili discussioni.



Da sigaraia a infermiera della Manifattura. (Gina Perona)

Entrai alla Manifattura Tabacchi di Torino l’1 febbraio del 1947 all’età di ventuno anni. Le orfane e le vedove di guerra, come nel mio caso, rientravano nelle assunzioni obbligatorie, purché non avessero superato i trentanove anni di età. Mio marito si arruolò nelle brigate partigiane che operavano nella Val Chisone nel mese di luglio del ‘44 e, a seguito di un rastrellamento dei tedeschi, fu ucciso nel novembre dello stesso anno.

L’assunzione delle orfane e delle vedove di guerra fu l’ultima grande assunzione prima di quella del 1975, ad eccezione di quella che beneficiarono le profughe istriane che provenivano dalla Manifattura di Pola agli inizi degli anni ‘50. Prima di entrare alla Manifattura lavoravo alla Microtecnica, mi sposai all’età di venti anni ed ebbi una figlia, ma mantenni il posto di lavoro. Alla Microtecnica ero addetta al collaudo dei goniometri per li aerei, lavoravo indossando il grembiule bianco, percepivo una buona retribuzione, superiore a quella che avrei percepito successivamente alla Manifattura.

Decisi di cambiare lavoro allettata soprattutto dall’orario, che per me, abitante in Ciriè, risultava molto vantaggioso. Infatti, uscendo alle ore 15,45 anziché alle 19, potevo disporre di più tempo da dedicare alla famiglia, dopo alcuni mesi mi fu riproposto di ritornare alla Microtecnica, ma rifiutai, optando per la sicurezza del posto di lavoro statale, il vantaggio di avere una mensa aziendale, il premio di produzione, la regalia di quindici pacchetti di sigarette al mese, e soprattutto l’orario di lavoro.

In quel momento l’unico svantaggio era rappresentato dallo stipendio notevolmente inferiore che si percepiva alla Manifattura. Ricordo che alcuni anni dopo guadagnavo 26.000 lire al mese contro le 50.000 lire percepite da mia cognata che lavorava alla R.I.V.

In quel periodo il lavoro presso la Manifattura Tabacchi nell’opinione corrente non era molto considerato, forse perché vi lavoravano molte donne, rispetto al basso numero di donne occupate in altri settori produttivi e mi viene in mente che, parlando con una conoscente della mia futura entrata in Manifattura, questa mi chiese stupita come fossi riuscita ad ottenere un posto come quello, ritenuto privilegio delle amanti degli ufficiali.

Entrai in Manifattura come operaia temporanea, dopo aver passato la visita medica e prima ancora aver superato delle prove attitudinali, tipo alzare dei birilli e similari. A differenza delle altre operaie, assunte in via ordinaria, mentre loro impiegavano qualche anno per passare nella categoria delle permanenti, noi a luglio dello stesso anno fummo tutte confermate come permanenti. Questo fatto non fu molto gradito dalle più anziane e non ci fu mai perdonato.

Ricordo che quando ci fecero la visita medica ci misurarono l’altezza e chi non superava il metro e cinquanta non veniva ammessa. A questo proposito mi viene in mente un’altra vedova che era molto contenta di essere finalmente riuscita a trovare un posto di lavoro, ma venne scartata proprio a causa della sua bassa statura, che del resto non le avrebbe consentito di svolgere alcune mansioni nell’ambito del ciclo produttivo.

Quando sono andata alla Manifattura Tabacchi per la visita medica vidi arrivare in portineria una donna con una cuffia in testa, con indosso un grembiule sporco, con delle croste spesse, le mani sudicie, marroni, secche e screpolate, ne fui colpita e mia suocera che mi accompagnava, per rincuorarmi mi disse: ma figurati se ti mettono a fare un lavoro così!. Invece finii proprio lì, quella donna lavorava alla produzione sigari, e quello era il reparto che tutte le nuove assunte avevano come prima destinazione.

La produzione dei sigari si faceva in tre reparti grandissimi e venivano prodotti tutti completamente a mano. Al mattino appena entrate si andava al magazzino a prelevare la quota, ovvero la quantità di tabacco necessaria per la giornata. Si doveva entrare con il fazzoletto sul naso, mancava il respiro, tali erano le esalazioni e la puzza  del tabacco in fermentazione.

La quota era contenuta in un sacchetto, con questo andavamo al rispettivo reparto, ci sedevamo al nostro posto, prendevamo il tabacco dal sacco, ce lo mettevamo in grembo e mano a mano riempivamo i sigari. Era molto dannoso per la salute tenere il tabacco che fermentava sulle ginocchia, ma non solo, tutto l’ambiente del reparto era molto umido e poi d’estate faceva un caldo insopportabile e per giunta non potevamo nemmeno aprire le finestre perché altrimenti il tabacco si sarebbe seccato. Soprattutto nel periodo estivo molte operaie svenivano. L’odore del tabacco in fermentazione impregnava le mani in maniera tale, che, persistendo ai lavaggi, eravamo riconosciute a fiuto. Chissà cosa sarebbe successo se fosse entrato l’Ufficio d’Igiene per fare un’ispezione.

Coloro che affermano che essere addette alla produzione dei sigari fosse un lavoro ambito dalle operaie raccontano fandonie e non hanno mai visto che cosa era quel tipo di lavorazione. Altro che chiacchiere...! A parte l’ambiente di lavoro che, come ho già detto, era molto nocivo e dannoso per la salute delle operaie, bisognava poi raggiungere la quota giornaliera di produzione. Qualcuno riusciva anche a fare ventuno medaglie ma i sigari erano bruttissimi. Quando la verificatrice veniva a prelevare i sigari per portarli al controllo, dovevano essere perfetti.

Chi riusciva a produrre le ventun medaglie giornaliere lo faceva per poterle vendere a quelle operaie che non riuscivano a raggiungere la quota giornaliera. Ma la qualità dei sigari che si comprava non era certamente delle migliori, a volte mettevano dentro anche i ritagli e gli scarti di lavorazione, questo veniva fatto dalle più anziane. Io riuscivo a realizzare al massimo, dodici medaglie. Però i miei sigari erano qualitativamente migliori, avevano i tre giri, erano gonfi e affusolati, e quindi utilizzavo una grande quantità di interno. Avevo raggiunto la capacità di ottenere sei-sette sigari da ogni foglia di tabacco mentre le altre operaie arrivavano solo a quattro o cinque. Eppure, quando non ce la facevo a raggiungere la quota, non me ne vergogno, qualche volta li ho comperati anch’io.

Il posto di lavoro delle sigaraie era costituito da un lungo tavolo dove sedevano affiancate, le une di fronte alle altre, ma con poche opportunità di dialogo e di pause. Ogni verificatrice (maestra) era responsabile di un tavolo al quale lavoravano dieci Ð quattordici operaie. Accadeva, sporadicamente, che la verificatrice sostituisse per un breve momento l’operaia, magari per fare due chiacchiere, ma questa eventualità era da considerarsi un regalo.

Non potevamo allontanarci dal nostro posto di lavoro.

Si poteva andare in bagno solo due volte al giorno: alla mezza, prima della pausa mensa e a fine giornata dieci minuti prima
dell’uscita.

A proposito della nocività del lavoro, dopo pochi mesi di permanenza alla manifattura, ho avuto delle forti febbri causate dal tabacco. Il mio medico, non avendo riconosciuta la vera causa mi curava come se avessi l’influenza. Avevo allucinazioni, ho rischiato di morire. Sono stata guarita da uno specialista, che riconobbe la malattia.

Fortunatamente sono rimasta alla lavorazione dei sigari soltanto un anno, dal 1947 al 1948, mi chiedevo come potessero resistere quelle che vi rimanevano per più anni.

Quando iniziai a lavorare ricordo che c’erano donne che camminavano con il bastone, andavano in pensione a sessantacinque anni di età. Successivamente, utilizzando i cinque anni concessi dall’amministrazione, coloro che avevano maturato dieci anni effettivi di lavoro potevano andare in pensione.

Successivamente, dal 1948 al 1952, ho lavorato per il servizio mensa, raccoglievo all’interno dei reparti le prenotazioni per la mensa. Sono stata poi trasferita alla lavorazione delle sigarette, dove rimasi fino al 1958.

La prima fase della lavorazione consisteva nella triturazione del tabacco, che a mano su carretti veniva portato al reparto vero e proprio. Nella fase di spulardamento riempivamo dei silos con il contenuto di cassette che pesavano 30-40 chili, che ogni operaia trasportava manualmente. Anche qui c’era tanta polvere, le tramogge venivano caricate a mano.

Nel reparto sigarette vi erano venti macchine, ma, a causa della polvere, entrando nel salone, solo le prime due erano visibili. Non ricordo quando hanno rimodernato i reparti installando gli aspiratori, ma allora l’odore e le polveri ti prendevano allo stomaco.

Anche in questa fase di lavorazione sono rimasta per poco tempo, in quanto sono poi passata alla confezione, ossia il reparto di inscatolamento delle sigarette, ove l’ambiente era decisamente migliore.

Dal 1958 al 1962 ho svolto mansioni di verificatrice; durante questo periodo, su proposta dell’azienda, ho frequentato un corso per conseguire il diploma di infermiera, usufruendo un distacco retributivo di nove mesi. Ho poi svolto tale mansione fino al pensionamento.

Nessuna donna ricopriva ruoli dirigenziali. Nella gerarchia aziendale vi era il direttore, il commissario, l’ingegnere, il perito, il tecnico. Le donne erano, al massimo, impiegate amministrative.

Affiancata al capo laboratorio vi era la verificatrice, comunemente chiamata maestra. Nei primi tempi in cui lavoravo presso la manifattura operava ancora la figura della “maestra con il grembiule grigio”. Era questa il capo di tutte le maestre. Questo ruolo venne poi abolito.

I rapporti fra le operaie della manifattura non erano improntati sulla competitività; si instauravano legami di amicizia che proseguivano, in molti casi, anche al di fuori della fabbrica.

I rapporti fra gerarchia aziendale e operaie erano molto formali, caratterizzati dal reciproco rispetto. Non era assolutamente immaginabile di rivolgersi al capo con il ìtuò, come invece avvenne negli ultimi tempi.

Quando ancora lavoravo, tutte le operaie indossavano la cuffia bianca che conteneva la capigliatura. La cuffia era indispensabile per proteggersi dalle polveri e anche per evitare che i capelli andassero, accidentalmente, ad impigliarsi negli ingranaggi delle macchine e soprattutto nel tabacco che veniva lavorato. Negli ultimi tempi a Torino, unico caso sulle diciotto manifatture italiane, la cuffia non veniva più indossata.

L’insieme delle capacità lavorative, l’assidua presenza al lavoro, il buon comportamento tenuto in fabbrica, l’operosità determinavano la formulazione di un giudizio complessivo, il cui riscontro materiale consisteva in un premio di produzione.

Sono andata in pensione  per dare ascolto a mia figlia; però avrei preferito rimanere ancora, in quanto mi trovavo molto bene. L’unico problema era alzarmi al mattino, perché poi, quando ero sul lavoro mi sentivo veramente felice. Ho pianto quando sono andata via. Sogno ancora adesso di lavorare in Manifattura.



Una “tabacchina”

Sono stata assunta in Manifattura nel 1940, tramite un concorso. Quando mi presentai alla visita medica obbligatoria, ero in attesa di un bambino e quindi un poco impedita nell’eseguire le prove di manualità, consistenti nello spostare alcuni, piccoli birilli. Rassicurai i miei esaminatori dicendo che al termine della gravidanza avrei certamente raggiunto una maggiore velocità.

Allora si sentiva dire che per entrare in Manifattura occorreva essere raccomandati, ma non era vero e infatti io che non lo ero fui assunta ugualmente.

In precedenza, dall’età di dodici anni fino ai ventidue ho lavorato presso il Calzificio Torinese. Appena assunta confezionavo le calze taglia zero e taglia nove. Ero talmente inesperta che non avevo nemmeno il concetto di produzione, di quota, e mi limitavo a imitare ciò che faceva l’operaia che mi stava di fronte. Infatti l’anno successivo, nel periodo che precedeva le ferie, quando sempre con la scusa della diminuzione del lavoro un certo numero di operaie venivano licenziate per poi magari essere riassunte poco dopo, venni licenziata per scarso rendimento.

Fui presa dallo sconforto e dalla disperazione perché avevo proprio bisogno di lavorare: ero l’unico sostentamento della mia famiglia; orfana di padre con un fratello gravemente malato.

Così decisi di andare a pregare la Madonna, cui ero devota, perché mi facesse venire voglia di lavorare. In fondo ero poco più di una bambina, avevo sempre voglia di giocare sebbene non possedessi le bambole.

Andai anche dal capo reparto a supplicarlo affinché mi riassumesse. Gli promisi che se mi avesse ripreso a lavorare non avrei più sollevato gli occhi dalla macchina. In tal modo ottenni un rinvio di due mesi. Fui licenziata ugualmente, mi spiegarono che non era per scarso rendimento ma per una diminuzione del lavoro. Infatti, trascorso il periodo di ferie, mantenne la promessa e venni riassunta. Anch’io mantenni la mia: nella pausa pranzo, mentre le altre interrompevano il lavoro, io, che non avevo mai molto da magiare, utilizzavo la pausa per pulire tutti gli aghi della macchina, diminuendo così gli scarti di lavorazione.

Spesso il capo mi diceva: San Mò, ‘t l’as batù ‘l recòrd. Mi chiamava San Mò perché abitavo a San Mauro Torinese. Pur non avendo più subito il licenziamento stagionale, appena seppi delle assunzioni alla Manifattura, ovvero di un lavoro più sicuro essendo statale, decisi di fare immediatamente domanda. Anche l’orario di lavoro era migliore di quello del Calzificio Torinese, dove lavoravo dieci ore al giorno. Unico lato negativo era la retribuzione assai inferiore a quella delle altre aziende: passai da 240 lire a 90 lire giornaliere. Questo significava miseria nera perché mio marito era stato richiamato nell’esercito, avevo mia madre a carico e un bambino.

Spesso in Manifattura si sentiva dire: “ora sarà poco...ma....poi vedrete che pensione...!... Tra me pensavo: al diao la pension! A lè adess che l’aj fam. In compenso ci davano in dotazione il grembiule, l’asciugamano, il sapone la cuffia ed altri generi.

All’inizio cominciai con la lavorazione dei sigari dove rimasi per otto anni consecutivi. Fu un periodo molto bello, non per il lavoro in sé, ma per l’ambiente umano che si era venuto a creare.

Lavoravamo in squadre, ciascuna formata da dieci sigaraie e da una verificatrice; eravamo disposte una di fronte all’altra, mentre la verificatrice controllava la qualità del lavoro, che si svolgeva a cottimo.

Fra noi ci giocavamo i quarti d’ora, che consisteva nel raccogliere e contare i sigari ogni quarto d’ora per verificare se ciascuna di noi era riuscita a farne cinquanta. Io ero molto veloce e ricordo che un capo mi aveva dedicato una poesia per il quarantotto, ove declamava: ... renderà pi nen quatòrdes. Infatti, riuscivo a realizzare fino a quattordici medaglie.

A questo punto debbo spiegare che ogni medaglia era costituita da cinquanta sigari. Il cottimo partiva da una produzione di settecento sigari al giorno; la quota fissata era considerata di novecento sigari.

Ciò che rendeva particolarmente bello quel reparto era l’affiatamento che vi era fra di noi. Ci volevamo molto bene e nascevano amicizie vere. Ricordo che durante la guerra, mentre io non avevo quasi mai nulla da mangiare, una mia amica, per non umiliarmi, si lamentava del proprio padre, che a borsa nera, le procurava troppo formaggio e quindi mi chiedeva di potermene regalare un po’. Io naturalmente non mi offendevo, in tal modo mi sfamavo.

Per sottolineare l’unione fra noi lavoratrici vi racconto un episodio accaduto in seguito allo sfratto subito da una nostra compagna, che aveva il marito in guerra ed era madre di due bambini. Tutte le compagne della squadra, a turno, chiedemmo un’ora di permesso retribuito per andare a protestare dal padrone di casa e convincerlo a ritirare lo sfratto.

Noi della Manifattura eravamo mal retribuiti rispetto alle aziende private; la situazione cambiò solo molto più tardi.

Terminata la guerra mio marito ritornò, ma era disoccupato. Per supplire in qualche modo alla mancanza del suo stipendio, al mattino comperavo la frutta dai contadini di San Mauro, mi caricavo tre ceste sulla bicicletta, due davanti e una dietro e mi avviavo al lavoro. Il portinaio conosciuto come un uomo molto burbero, fingeva di non vedere e mi faceva passare.

Prima di cominciare a lavorare, riuscivo a vendere tutta la frutta che mi veniva pagata alla quindicina, in questo modo guadagnavo circa cento lire al giorno, la paga di mio marito disoccupato.

Come ho già detto, la vendita della frutta avveniva al mattino, prima che iniziassi a lavorare e quando il commercio si protraeva troppo a lungo un’amica mi prestava cento sigari che poi le restituivo puntualmente il giorno dopo.

Ricordo che mi piaceva molto leggere. Leggevo romanzi e tutto quello che mi passava tra le mani: ho letto I misteri di Parigi, Il padrone delle ferriere, e anche la Traviata. A casa leggevo e in Manifattura raccontavo. La maestra diceva: Cite steve cito che ‘dess Prina a conta... Io raccontavo, i brani più belli li leggevo. Quando lessi Il padrone delle ferriere piangevano tutti. Piangeva anche il capo laboratorio, il quale, vergognandosi si nascondeva dietro una tramezza, mentre raccontavo c’era un silenzio religioso interrotto soltanto dal regolare tac, tac, tac del taglio dei sigari.

Altre volte raccontavo il film che avevo visto la sera prima, e la maestra proponeva alle compagne di lavoro di regalarmi un tot di sigari ciascuna affinché, liberata dalla produzione, potessi raccontare.

Grande fu il dispiacere quando fui trasferita alla preparazione materie sigarette, dove l’ambiente era ancora più malsano.

Mattino e sera ci veniva somministrata una razione di latte per disintossicarci.

In questo reparto lavoravano anche molti uomini che avevano il compito di mettere il tabacco nei torchi, estrarlo bagnato e in piena fermentazione passarlo alle scostolatrici che eliminavano le coste delle foglie del tabacco. Io e un’altra donna, entrambe di corporatura minuta, avevamo il compito di appiattire la costa rendendola come una foglia. Eravamo addette al laminatoio, caricavamo la macchina sollevando trentasei quintali al giorno di coste di tabacco, che dovevano risultare ben appiattite.

Poiché si trattava di un lavoro molto gravoso ci davano un premio trimestrale di quarantamila lire.

Ho lavorato in quel reparto per venti anni, dal 1948 al 1968 circa. Negli ultimi due anni di permanenza in azienda sono stata poi trasferita alla confezione sigarette. Qui il lavoro era tutto automatizzato, pulito, tanto che quel reparto, era da noi soprannominato: merveilleuse. Non mi sporcavo più, dovevo solo controllare che le piastre fossero nella posizione giusta.

Lì, anche le relazioni che si instauravano fra noi, erano molto diverse; non parlavamo, non si raccontava....

Avevamo dieci minuti di pausa al giorno; per nessun motivo si poteva abbandonare la macchina. La maestra stessa non poteva lasciare il reparto, per qualsiasi evenienza doveva farsi sostituire da un’altra maestra.

La qualifica più alta che una donna poteva raggiungere era quella di verificatrice; non era però un ruolo ambito da tutte. Io personalmente non ho mai pensato o voluto raggiungerlo.

Per diventare verificatrice bisognava essere nella manica del capo, avere un aspetto sempre curato e ordinato, insomma proprio il mio opposto.

Come ho già detto con le compagne di lavoro vi era una vera amicizia, soprattutto durante la guerra, quando la miseria imperversava, i mariti erano lontani o al fronte; là dentro trovavi almeno qualcuno con cui parlare, che ti diceva una parola buona.

Erano amicizie sincere che venivano coltivate anche fuori dell’ambito del lavoro.

Io avevo un bambino piccolo e di giorno lo portavo con me in fabbrica e lo lasciavo all’incunabolo.

La sera e la domenica avevo tante cose da fare, era molto difficile conciliare il lavoro di fabbrica con quello di casa, per fortuna avevo la piena collaborazione di mio marito.

Ogni domenica facevo il bucato. Fin dal mattino presto mettevo a bagno i panni e poi andavo a messa, quando tornavo, con la collaborazione di mio marito, preparavo il pranzo e poi nel pomeriggio andavo a Po per risciacquarli.

Anche durante la guerra vi era pochissimo tempo libero, ci fu un periodo durante il quale lavoravamo al sabato e a turno anche la domenica per produrre le MILIT, ovvero le sigarette destinate alle forze armate.

Anche le altre donne avevano il tempo libero molto limitato. Tutte le mie amiche avevano due o tre figli e non era infrequente che fra le tabacchine ve ne fosse chi ne aveva anche quattro.

Ricordo di una mia amica assunta nel 1946 in quanto vedova di guerra: aveva cinque figli, il più piccolo di quaranta giorni, il più grande di dodici anni. Tutte le sera doveva lavare i grembiulini di tutti perché non possedeva alcun cambio.

Lavorare alla Manifattura Tabacchi non era molto considerato, in quanto le donne che vi erano occupate godevano di scarsa reputazione. Erano giudicate troppo libertine, perché avevano troppa voglia di divertirsi, erano capaci di decidere in pochi minuti di andare a cena fuori o a ballare, era diffuso il vizio di bere, frequentavano i caffè attorno allo stabilimento. Alcune morirono intossicate un po’ dal tabacco e un po’ dall’alcol.

In contrapposizione alle libertine, le più giovani, c’erano le più anziane comunemente soprannominate l’ stat magior.
Costoro erano molto stimate dalla direzione e quando andavano a fare rimostranze si diceva: aj soma, a part l’ stat magior. Ed erano ascoltate!

Ma  la maggioranza delle donne, era molto occupata a far conciliare lavoro e famiglia.

Mi pare di non aver altro da dire; ah dimenticavo di aggiungere che non mi pare vi fossero particolari malattie professionali, se non alcune forme di eczema alle mani. Malattia diffusa fra le sigaraie.



Un capo laboratorio (Cristoforo Incorvaia)

Sono nato a Licata in provincia di Agrigento, mio padre faceva il falegname. Ho iniziato a lavorare con mio padre nel laboratorio di falegnameria e questo fino al servizio militare in marina, che iniziai nel 1934 e conclusi nel 1937.

Entrai nella Manifattura Tabacchi di Cagliari il primo maggio 1941 dopo aver fatto un concorso con qualifica di applicato tecnico. Nella Manifattura di Cagliari aiutavo il capo laboratorio nel reparto condizionamento sigarette e quindi nel reparto fermentazione tabacchi per sigari.

Visto che c’era la guerra, io cercavo di avvicinarmi alla Sicilia, un giorno andai alla Direzione generale del Monopolio di Roma per sollecitare un trasferimento alle Manifatture di Palermo o Catania. Il capo del personale mi rispose che, in base ad una circolare del 1940, gli impiegati civili dello stato di origine siciliana non potevano essere trasferiti in Sicilia; per problemi legati alla mafia. Io gli risposi che non volevo stare più in Sardegna perché era pericoloso andare a trovare la mia famiglia, le navi che attraversavano il Tirreno, spesso venivano intercettate dai sommergibili inglesi. Il capo, a questo punto mi rispose: se vuoi andare via dalla Sardegna io ti accontento ma ti devo mandare in Istria presso la Manifattura di Rovigno.

Quindi accettai la destinazione Rovigno perché nonostante la notevole distanza dalla mia famiglia, mi sentivo più tranquillo perché viaggiavo sulla terra ferma.

Alla Manifattura di Rovigno presi servizio alla fine del 1942 nella lavorazione spulardamento per le sigarette. A Rovigno rimasi due anni, il primo settembre 1944 chiesi di essere trasferito alla Manifattura di Torino, in quanto anche in Istria era pericoloso lavorare a causa della guerra, in particolare per i contrasti con gli slavi.

Quando arrivai a Torino trovai la Manifattura bombardata dagli aerei e quindi con un ciclo produttivo ridotto. Mi assegnarono il compito di provvedere agli approvigionamenti giornalieri per la mensa degli operai, tutte le mattine andavo al mercato a cercare un po’ di patate e qualcosa da dar da mangiare agli operai.

Dopo questa breve esperienza mi affiancarono al signor Crida, un anziano e stimato capo laboratorio, del IV reparto formazione sigari. La produzione era basata sul sigaro Toscano, nel reparto vi erano tante sigaraie che avevano l’età media di quarant’anni. Io attendevo come aiutante Capo Laboratorio alla sorveglianza della produzione, in particolare sui difetti di lavorazione che si verificavano. Ogni operaia che lavorava a cottimo doveva produrre come minimo 12-13 medaglie, ogni medaglia corrispondeva a 50 sigari, 600-650 sigari al giorno. Registravo le quote dei sigari prodotti da ciascuna operaia, dopo essere passati al controllo.

Se durante le lavorazioni alcune operaie non riuscivano a produrre la quota minima, le mandavamo in altri reparti, e se queste invece risultavano non idonee per motivi di salute, venivano mandate nei servizi generali. A volte, per esigenze di lavorazione, le sigaraie venivano trasferite temporaneamente nella lavorazione della scostolatura e viceversa.

Il rapporto di collaborazione con le maestre e con le operaie era buono, la disciplina non era ferrea come negli anni del fascismo e in quelli precedenti; certo, sulla lavorazione si era scrupolosi, le norme fatte rispettare, ma nei laboratori si poteva cantare e parlare.

Si interveniva in caso di litigio tra operaie, mi ricordo che una volta si accapigliarono una scrivana e una sigaraia, io mi limitai ad intervenire per dividerle, ebbero una sospensione di due giorni e basta, niente di più.

Ma questi erano episodi isolati, punizioni gravi non ve ne furono, si pensava solo a lavorare, nel laboratorio si sentiva in prevalenza soltanto il rumore dei coltellini usati per tagliare le punte dei sigari. Sì le punizioni c’erano, ma venivano applicate sui difetti di lavorazione che venivano riscontati.

Non vi furono abusi, coercizioni o imposizioni da parte mia e tantomeno da parte degli altri capi laboratorio nei confronti delle operaie. Il rapporto tra noi capi laboratorio era buono e di collaborazione.

Con il passare degli anni, la produzione dei sigari calava sempre di più e venivano impiegate, per le sigarette, macchine sempre più moderne, le sigaraie venivano applicate a queste senza grandi problemi, anzi si accettava tutto ciò con gradimento, veniva considerata come un’evoluzione positiva.

Quelle che voi definite le artigiane del tabacco, che avevano un orgoglioso senso di appartenenza al gruppo professionale, non esistevano più già negli anni ‘40. La coesione e spirito di gruppo e quell’orgoglio di cui voi parlate, apparteneva alle poche operaie anziane, quasi tutte assunte prima del fascismo che ancora lavoravano nella Manifattura di Torino.

La mentalità delle operaie assunte verso la fine degli anni ‘30 e negli anni ‘40 era cambiata, avevano un’altra mentalità, l’aspirazione individuale, visto che era un lavoro faticoso, non era quella di rimanere sigaraie ma di cambiare reparto.

L’esperienza lavorativa presso la Manifattura di Torino per me è stata un’esperienza di vita positiva; penso di aver fatto bene il mio dovere, soprattutto quando mi trovavo di fronte a situazioni di operaie che avevano bisogno di aiuto, un permesso, un’autorizzazione, l’ho sempre concessa quando mi veniva richiesta.

Il problema dei furti era un problema reale, ma soprattutto nel periodo della guerra e nell’immediato dopoguerra era un mezzo di sostentamento; venivano nascoste nelle panciere, nei sottofondi delle borse. D’altronde in quel periodo i controlli erano meno severi, spesso si scappava via a causa dei bombardamenti. Arrivavano le Camicie Nere e si portavano camion di sigarette, arrivarono poi i partigiani e fecero la stessa cosa. Perfino gli agenti della Guardia di Finanza che avevano un ufficio dentro la Manifattura si portavano via sigarette. Questi, essendo dei militari, non potevano essere perquisiti ma un giorno la Direzione Generale lo venne a sapere e quindi fu deciso che doveva rimanere a fare la sorveglianza fuori dalla Manifattura. Poi gradualmente il fenomeno scomparve rimanevano soltanto dei fatti episodici. Mi ricordo per esempio un episodio; arrivarono degli operai provenienti da un’agenzia di coltivazione di tabacco del meridione che all’uscita si riempivano gli indumenti di pacchetti di sigarette.

Un giorno ci fu una soffiata e durante la controvisita, alla quale ero presente assieme ad altri impiegati trovammo questi operai letteralmente imbottiti di sigarette e furono puniti. Ma a quanto mi risulta, in tanti anni di servizio mai nessuno venne licenziato, né per questi né per altri motivi.



Un’anziana sigaraia (Margherita Sesia)

Sono nata in provincia di Vercelli, a Crescentino nel 1906. Mio padre era un contadino e quando avevo diciotto anni di età, con tutta la famiglia emigrai a Torino nel 1924. Fummo costretti ad andare via da Crescentino perché il lavoro nelle risaie era tanto pesante. Mia madre era una mondina e lo ero anche io. Si venne in città per migliorare la nostra condizione economica. Arrivati a Torino mio padre continuò a fare il suo mestiere presso la grande cascina dell’Abbadia di Stura.

I miei fratelli un giorno trovarono lavoro presso la fabbrica di lana Gianotti al Regio Parco, e subito dopo mi convinsero ad andare a lavorare con loro. La fabbrica era vicina alla Manifattura Tabacchi, e un giorno, passando di là, venni a sapere che ci sarebbe stato un concorso per assumere delle operaie. Mio padre era tanto contento della scelta che stavo per fare, così feci la domanda e il 19 luglio del 1926 venni assunta e lì rimasi per 38 anni fino al 1964.

Fui assunta come operaia temporanea alla lavorazione sigari. La mia impressione fu grande quando entrai per la prima volta in Manifattura: era bello se confrontato al duro lavoro della campagna e delle risaie. Anche se eravamo sottoposte ad una dura disciplina e guardate a vista, lo preferivo al precedente lavoro. Quando andavo in Manifattura mi sembrava di andare a fare un gioco, ero contenta, infatti in 38 anni di servizio non sono stata mai assente. Quando avevo male alla schiena chiedevo a mia madre di aiutarmi a tirarmi su, fino a quando salita sulla bicicletta incominciavo a pedalare e viaa....a lavorare. Fui assegnata al III¡ reparto formazione sigari dove una maestra mi insegnò a fare i sigari. Eravamo sedute ad un tavolo, cinque da una parte e cinque dall’altra una di fronte all’altra. Ci davano in dotazione un grembiule di tela, il ripieno per i sigari, che veniva tenuto in fermentazione sulle gambe e le foglie per fare le fasce. Sul tavolo vi era una tavoletta, un coltello e una pappetta d’amido che serviva come colla.

Si lavorava per 13,60 lire al giorno per la produzione di 14 medaglie al giorno che equivaleva a 700 sigari, superata questa quota si prendeva il premio del cottimo, che era rapportato al numero dei sigari che si faceva in più. La giornata era quindi assicurata, ma ci mettevamo impegno per farne di più, per avere più guadagno. Ci veniva consegnata una medaglia ogni due pacchetti da 25 sigari ciascuno, naturalmente questi dovevano essere considerati perfetti alla verifica.

In Manifattura tabacchi vi erano tante operaie anziane di età e molte di queste avevano fatto molte lotte, con scioperi prima dell’avvento del fascismo, un giorno mi ricordo che venne il Duce a visitare la fabbrica e il federale di Torino, che adesso non mi ricordo il nome mentre lo accompagnava gli disse: le vede come sono tutte in nero riferendosi alle camice che ci fecero indossare per l’occasione ma se voi graffiate un pochino si vede il rosso. Lo disse scherzando ma riferiva la verità. Quelle che si erano impegnate nel lotte sindacali nascondevano le loro idee, io che ero giovane non me ne rendevo conto, solo dopo molto tempo mi resi conto che vi erano anche nella mia squadra delle oppositrici al fascismo. Esse tramavano di nascosto senza farsene accorgere. Molte delle attiviste più tumultuose furono licenziate nel 22-23 e, di queste, un buon numero rientrarono in Manifattura nel 1946, quando io ero diventata una verificatrice. Tra queste, ricordo la Taschero, una sigaraia che faceva parte della Commissione interna nel periodo prima del fascismo, che ritornò in fabbrica dopo 24 anni. Lei aveva più di cinquant’anni, ma al rientro in manifattura, si distinse per l’impegno nel sindacato e nel Partito Comunista Italiano. Tra questi rientri c’era anche la mamma delle sorelle Arduino, staffette partigiane che furono uccise nel periodo della Resistenza.

Per quanto riguarda i fatti che accadevano all’interno della Manifattura, non sempre si veniva a conoscenza. Pensi che dal 1926 al 1933 entravo sempre nello stesso laboratorio e non conoscevo l’intera Manifattura in quanto era vietato girare nei reparti, si andava solo per lavorare. Nel 1933 diventai operaia permanente assieme ad altre 40 mie compagne, da qual giorno ebbi il posto fisso.

Io avevo un carattere chiuso, parlavo poco e quando i capi laboratorio mi chiamavano avevo sempre la testa bassa, eseguivo i lavori che c’erano da fare. Spesso da quando sono in pensione mi sono chiesta se ero scema a comportarmi in quella maniera, ma non riesco a darmi una spiegazione: ero fatta di un’altra pasta non mi ribellavo ed eseguivo sempre gli ordini impartiti. Pensi che quando uscì il bando per diventare verificatrice, non mi osavo presentare la domanda; lo feci dopo ripetute insistenze di una mia amica, non pensavo nemmeno a far carriera.

Delle mie amiche ancora viventi, almeno lo spero, perché è vecchia anche lei del 1902, Maria Marcone, che abita in corso Regina Margherita; quasi tutte quelle che entrarono sono morte, di molte ho perso le tracce.

Andai in pensione con la più alta qualifica consentita alla carriera di operaia come prima verificatrice.

Come ho già detto io ho lavorato quasi sempre alla formazione sigari, anche quando ero diventata verificatrice. Qualche volta, per motivi legati alla produzione, mi chiedevano di andare nei reparti dove c’erano le macchine per le sigarette, io non ero contenta di lasciare il reparto dei sigari perché lì mi divertivo, senza alzare la voce alcune operaie raccontavano storie di libri letti e film visti, la giornata passava senza accorgersene. Ma alla fine conclusi anch’io l’esperienza lavorativa nel reparto delle sigarette. Il più brutto reparto della Manifattura dove nessuno voleva andare a lavorare era quello dello spulardamento, che era situato in cantina; qui, in un ambiente sporco, si scioglievano le foglie che arrivavano in balle di tela e casse.

Il periodo della guerra me lo ricordo come un periodo dove i controlli vennero allentati, molte sigarette uscivano furtivamente dalla Manifattura, venivano rubate per cercare di rivenderle, per cercare di sopperire alla miseria. Ma ricordo anche la solidarietà delle donne nei confronti di famiglie che avevano partecipato alla resistenza come Di Nanni, Valentino, Arduino e altre ancora. Volevo ancora ricordare che due o tre volte all’anno andavamo alla messa, nella cappella interna alla Manifattura. Nell’occasione della Madonna della Consolata ogni reparto agitava il quadro della Madonna e con mazzi di fiori si usciva per andare alla messa. Gli uomini mutilati della prima guerra mondiale allestirono una specie di altarino, sempre con la Madonna della Consolata, con una ciotola dove si mettevano delle offerte, mentre noi donne alla Madonna compravamo sempre dei fiori freschi, gli uomini prendevano le offerte e andavano a comprare del vino ad una vinicola che si trovava vicino alla Manifattura.