Spiaggia di Coney Island: folla di bagnanti sullo sfondo, in primo piano
due medici e un bagnino cercano di salvare un giovane, coricato, riscaldandolo
con delle coperte e somministrandogli ossigeno. Inginocchiata accanto a
loro, una ragazza, in prendisole a righe, la fidanzata del moribondo, guarda
dritto nell'obiettivo della macchina e... sorride.
E' una fotografia di Weegee, del 1940.(1)
La macchina parcheggiata sul ciglio della strada, lui, in piedi, vicino
ad un incrocio, scatta a più riprese delle polaroid, le guarda,
le butta. "Non è mai la realtà, quella che trovi".
E' l'inizio di Alice in den Städten, di Wim Wenders, 1972.
"La fotografia è un passo attraverso una soglia proibita", è
intrusiva e invadente, non permette di "restare a distanza e rendere giustizia
all'oggetto".
Così Peter Handke, in un'intervista comparsa su "Alfabeta",
nel gennaio 1987.(2)
Ma è questo che si cerca nella fotografia? E' davvero la realtà
quella che ci aspettiamo venga alla luce?
La realtà della fotografia di Weegee è una situazione
angosciante, si lotta per salvare un vita, ma chi a questa vita dovrebbe
essere attaccata, invece di lacrime mostra un sorriso. E questa è,
pure, un'immagine reale, anche se sovverte il senso della realtà
presunta, se va contro la nostra aspettativa di realtà.
Analogo è il senso delle parole del personaggio di Wenders,
quella che trovi non è mai la realtà che ti aspetti.
E il motivo, dice Peter Handke, è l'invadenza, il non prendere
distanza per rendere giustizia al reale.
Ma se è vero che è l'invadenza di Weegee, la presenza
evidente della sua Speed Graphic, a provocare il sorriso che fa dubitare
del senso reale dell'azione, nel personaggio principale del film di Wenders
è l'adeguatezza quella che manca, che non regge il raffronto tra
vissuto e visione.
Il protagonista, invece, di Lento ritorno a casa di Peter Handke,
il geologo Sorger, fa dell'inadeguatezza un credo, preferisce, come strumento
di rilevazione del territorio, il disegno alla fotografia (che pure usa)
perché il tratto manuale aiuta la comprensione cognitiva e mnemonica.
"Preferiva il disegno alla fotografia, perché solo così gli
riusciva di comprendere il paesaggio in tutte le sue forme; e ogni volta
era sorpreso da quante forme si rivelano...", le fotografie, invece, dice
Sorger alcune pagine prima, "da sempre ti cambiano le carte in tavola".(3)
Qui la distanza dal reale, mantenuta dall'occhio fotografico, diviene
quella dal foglio che lo riproduce, una vicinanza, quindi, piuttosto, che
non renderà giustizia al soggetto (che è qui, però,
il paesaggio) ma aiuta la possibilità di relazione conoscitiva.
Realtà, adeguatezza, conoscenza. Sembrano essere queste le tre
chiavi di volta. Ma lo strumento deve adeguarsi alla realtà per
consentirne la conoscenza, come parrebbe dire Handke, o è possibile
solo una conoscenza della realtà adeguata al mezzo?
Oppure, ancora, l'unica realtà riproducibile (e quindi conoscibile
indirettamente) è quella che deriva dall'inadeguata invadenza del
mezzo?
E ancora, è una questione di puro metodo? La dicotomia è
quella tra "presa di distanza" e "intrusione" rispetto al reale?
"Il nostro compito è percepire la realtà e, quasi simultaneamente registrarla... Non dobbiamo cercare di manipolare la realtà mentre scattiamo...", parole di Henri Cartier-Bresson.(4)
"Se le fotografie non sono buone è perché non sei andato vicino abbastanza", questo è Robert Capa.(5)
"A volte ho scattato delle foto senza prendere la mira, proprio per vedere cosa succedeva. Mi avventavo in mezzo alla folla, bang! bang!... Quando tornai a New York anch'io volevo lo scontro. Ora avevo un'arma, la fotografia", e questo è William Klein.(6)
E allora, la fotografia è lente di ingrandimento o arma, finestra
o specchio, per usare la definizione di John Szarkowski.
O, per tornare al nocciolo, c'è la realtà nella fotografia?
Se la risposta è affermativa, la domanda conseguente rimanda nuovamente
tutto all'aria: quale realtà c'è nella fotografia?
Forse il superamento è dato dallo svincolarsi dal binomio antitetico
presa di distanza/invadenza, abbandonare la mistica atarassia da filosofia
orientale e la violenza coercitiva di una presenza imposta.
Sostituiamole con l'empatia, la partecipazione emozionale, la comprensione
della realtà che passa non attraverso la compostezza dell'analisi
scientifica o l'umoralità dell'intervento disgregante, ma tramite
l'adesione, la non-estraneità.
La realtà diviene quella del fotografo che la vede in quanto
la vive.
Allora la realtà si trasforma in aspetti del reale, non conclusivi,
non esaustivi, ma vissuti, veri.
"Se la fotografia non può mentire, i bugiardi possono fotografare".
Lo diceva già Lewis Hine, nel 1909.(7)
Dubito si sbagliasse, ma poi, in fondo, è il reale che ti aspetti
nella fotografia? e se sì, quale reale?...